E’ online Rocca numero tredici/ventiventidue

8a995178-c0b4-4bfc-99a5-f122b2920076A PARTIRE DA UN ARTICOLO DI ENZO BIANCHI
l’operazione del granchio
Editoriale di Mariano Borgognoni, Rocca 13/2022

Ho sempre apprezzato la chiarezza con cui Enzo Bianchi ha affrontato le questioni essenziali della fede cristiana, la sua capacità di spogliarla di tutte le sovrastrutture e di coglierne il nucleo, quell’elemento sul quale essa sta o cade. Per questo non sono rimasto sorpreso, come altri, quando ho letto un suo recente articolo su Repubblica, nel quale afferma che: «se non si crede che Gesù Cristo è vivente, è risorto da morte e ha vinto la morte, che ragione c’è a professarsi cristiani? Se non si crede che la morte è solo un esodo, che ci saranno un giudizio sull’operato umano e una vita oltre la morte, perché si dovrebbe diventare cristiani e perseverare in questa appartenenza?». Sono andato subito a ripescare nella mia libreria un piccolo libro-intervista dal titolo Ricominciare, pubblicato dalla Marietti nel 1991. In esso il fondatore della Comunità di Bose, citando un Padre della Chiesa del IV secolo, scrive una cosa che allora, 31 anni fa, mi colpì molto: «è come nella caccia alla volpe, dove i cani che non l’hanno vista, prima o poi si stancano, rinunciano e tornano a casa; mentre quei pochi che hanno visto la volpe proseguiranno la loro caccia fino in fondo». «Ecco» – chiosa fratel Enzo – «il problema è far vedere la volpe ai giovani, far conoscere Gesù Cristo. Poi il resto, compreso l’agire etico, viene da sé». Per questo non mi sorprendo nemmeno quando Bianchi, in un articolo successivo, torna a criticare il moralismo e l’ossessione sessuofobica delle gerarchie ecclesiastiche e apre, semmai, una questione che chiamerei di democrazia nella Chiesa. Perché certo la Chiesa non è una democrazia ma nel senso che dovrebbe essere più che democratica, non meno. Mi sento francamente vicino alle posizioni espresse con molta
parresia da Enzo Bianchi. Credo che anche nell’areopago moderno bisogna osare l’annuncio nella sua essenzialità ed intierezza, anche scontando l’incomprensione a cui andò incontro Paolo ad Atene. I surrogati non conquistano nessuno. La riduzione della fede ad etica, del paradosso evangelico ad istanza morale, direi perfino della redenzione a giustizia sociale, è un’operazione che non porta lontano, perché non c’è bisogno della religione per essere in grado di darsi istanze etiche, morali, sociali, spirituali. In questa direzione, storicamente parlando, le religioni hanno talvolta aiutato, talaltra ostacolato il cammino della convivenza e della giustizia umane. Ai cristiani, peraltro, non può bastare il «non possiamo non dirci cristiani» di Benedetto Croce, una specie di milieu genericamente cristiano nel quale una sorta di religione civile inghiotte la scorza e sputa la polpa della fede. Alla fine questa via porta a una diluizione del tutto analcoolica del messaggio evangelico. Bisogna invece fare l’operazione del granchio che per rigenerarsi si libera del carapace.
Se la corazza ti soffoca devi liberartene, sarai più fragile, avrai bisogno di un periodo di nascondimento, ma questo infine ti riporterà a contatto con la linfa vitale delle origini che, altrimenti, rischia di essere sepolta dal nobile e dall’ignobile di una lunga storia. Ciò che è decisivo non è aggiungere ma togliere. Detto questo, cioè detto il cosa annunciare, non si può non affrontare il come, che è altrettanto importante.
Non sarebbe una cattiva idea scegliere la strada indicata dalla Lettera a Diogneto: vestire, lavorare, vivere come tutti nella città comune ma saper dire o fare in molti modi la parola o il gesto della fede. Essere «liberi sopra ogni cosa e non sottoposti ad alcuno e servi in ogni cosa e sottoposti ad ognuno» secondo la celebre definizione luterana. E così rendere ragione della nostra speranza. Avere radici ma senza che esse diventino catene. Lungo questa impostazione, direi a caduta, dovrebbero essere messe sul tavolo le scelte a cui il Sinodo, sinodalmente è chiamato. Poche e chiare decisioni e non un parlare a vuoto di tutto. Faccio per dire: in un universo ecclesiale clericocentrico, con i ruoli fondamentali tutti al maschile aprire almeno al diaconato femminile per inaugurare una riflessione ancor più di fondo sui ministeri; operare un rinnovamento liturgico che renda comprensibili e vive le celebrazioni; rendere possibile a tutti i battezzati di presiedere gli organismi parrocchiali, diocesani, fino alla Curia romana, etc.
Quanto al come non è poi irrilevante affrontare il contesto sociale e culturale, saperne leggere le caratteristiche e le tendenze di fondo. Non è questo un perditempo sociologico poiché, fermo l’annuncio nella sua nudità, è necessario comprendere la cornice nella quale collocarlo, bisogna capire la «lingua» dei contemporanei se non si vuol rischiare di essere fraintesi o del tutto inascoltati. O, come spesso nella liturgia, proporre formule insapori, inodori e incolori o, peggio, talvolta del tutto non accettabili a noi stessi che le recitiamo (nel senso peggiore della recita). Il problema è che se il moderno ha secolarizzato l’idea di salvezza affidandola per intero alla scienza o alla rivoluzione, il contemporaneo ha secolarizzato la secolarizzazione rendendo irrilevante l’idea stessa di salvezza. La parola redenzione, anche in termini laici, è scomparsa. Nella sua seconda enciclica, la Spe salvi (2007), Benedetto XVI parla di una crisi della speranza che erode la base della fede. Viene in mente il verso leopardiano: «nonche’ la speme il desiderio è spento». Nello schiacciamento sul presente e sull’immediato non solo si attenua la capacità di pensiero lungo, ma anche la coltivazione di desideri profondi che domandano perseveranza e senso dell’attesa. E se non si attende un non ancora si colpisce con il martello il nervo scoperto della fede dei cristiani, che sta molto in questo attendere inteso come fare e aspettare insieme, secondo la ricchezza del suo etimo nella nostra lingua. Eppure tanti segni ci dicono come sotto un apparente debole narcisismo, si nasconde il «calderone ribollente» tipico della condizione umana, perché in fondo resta vero che il presente non basta a nessuno. Le grandi narrazioni di senso, tutte, anche quelle totalmente immanenti avevano un elemento di trascendimento, un orizzonte, starei per dire un territorio del sacro, dell’oltre, che resta decisivo non solo per la salvezza ma anche per la salute dei terrestri. Ma quell’oltre e specificamente quello che indicano i cristiani deve anche evitare, per essere credibile, che il non ancora mangi del tutto il già. Per questo la Chiesa non può blindarsi nei recinti dove spesso il troppo umano viene sacralizzato. La Chiesa in uscita che insieme a tutti prova ad alleggerire il mondo dalle ingiustizie e a curare i percorsi di umanizzazione, non è l’alternativa all’annuncio della risurrezione ma è l’unico modo per anticiparne, sia pure poveramente, la logica, il senso, il bisogno, il sogno.

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Dibattito
Autodeterminazione dei popoli e responsabilità globale
di Giannino Piana su Esodo

Chi è favorevole all’invio delle armi all’Ucraina dice che per la difesa della libertà si deve rischiare di perdere la vita, tra la libertà e la vita il primato è della libertà, come nel caso del fine vita. Consideri valida questa contrapposizione e pensi legittimo il paragone con il caso del suicidio assistito?

La libertà è senz’altro un grande valore che non può essere sottovalutato: ne va dell’identità stessa del soggetto umano. Ma occorre intanto distinguere tra la libertà personale e quella di un popolo, del rispetto cioè della sua autonomia territoriale e di governo a livello socio-economico e politico. Nel primo caso – quello della libertà personale – il singolo, laddove gli venga negata la possibilità di vivere nella fedeltà ai valori in cui crede, e sia dunque obbligato ad andare contro la propria coscienza, o venga costretto a rinnegare la propria fede religiosa può anche mettere a rischio, fino a perderla, la propria vita. Non è stata forse questa la testimonianza dei martiri cristiani?

Diverso e più complesso è il discorso relativo alla difesa della libertà da parte di una nazione ingiustamente invasa da un’altra nazione. La reazione a questa situazione dando vita a una vera guerra, sia pure difensiva (e di conseguenza la fornitura di armi da parte di altri Paesi come sta avvenendo in Ucraina), è eticamente inaccettabile. Non esiste guerra giusta! Il dilemma libertà-vita non può dunque che risolversi a favore della vita, e questo tanto più se si considera che l’autorità che decide l’intervento bellico coinvolge la vita di altri, che non sempre sono d’accordo a metterla a repentaglio (o a perderla) per una causa che possono anche non condividere. Questo non significa che si debba rimanere inermi di fronte a un attentato alla propria libertà nazionale, ma che occorra scegliere altre vie di difesa, che vanno dalle operazioni di polizia internazionale – purtroppo oggi di difficile esecuzione per l’inesistenza di organismi internazionali adeguati, Onu inclusa – alla difesa nonviolenta e alla mediazione diplomatica. D’altra parte, a spiegare l’esasperazione dei conflitti, che conducono alla guerra – il caso della Russia e dell’Ucraina rientra in questo quadro – concorre oggi la rinascita esasperata dei nazionalismi e dei patriottismi, che rappresentano una forma di reazione nei confronti del declino degli Stati-nazione, il cui potere è sempre più limitato dall’avanzare della globalizzazione, a causa della quale i processi socioeconomici e politici scavalcano di continuo le loro frontiere. Quanto al paragone con il suicidio assistito non mi pare esistano le condizioni per un confronto. Intanto nel caso del suicidio assistito si tratta di una scelta del singolo individuo, la cui legittimità dovuta all’applicazione del principio di autodeterminazione non è lasciata, anche da parte di chi la sostiene per motivazioni etico-religiose – si vedano gli interventi puntuali di Hans Kung e delle chiese protestanti – all’arbitrarietà della decisione personale, ma comporta il verificarsi di precise condizioni oggettive dalle quali non è possibile prescindere. Il principio di autonomia e di autodeterminazione non è assoluto; deve fare i conti in bioetica con altri principi – beneficenza e giustizia sociale – che ne limitano l’esercizio.

Nel caso della guerra attuale, viene affermato il valore assoluto della libertà e dell’autodeterminazione del popolo ucraino: se si porta fino in fondo questo principio, oltre al rischio nucleare, ci sono conseguenze terribili per le fasce più povere in Europa ma soprattutto in Africa. Intere popolazioni rischiano la fame e la morte. Questa è una conseguenza indiretta, ma facilmente prevista, che va considerata, in una valutazione etica? In un mondo interconnesso, che peso hanno le valutazioni etiche di un’azione legittima e doverosa con conseguenze negative per la vita e la libertà in altre aree del mondo?

L’autodeterminazione (e la libertà) anche in questo caso come in quello della bioetica non può essere considerato un principio assoluto. Le terribili conseguenze ventilate sono realistiche. Il rischio è di scatenare una vera guerra mondiale, con pesanti ricadute negative soprattutto sulle fasce più povere della popolazione. E questo anche perché il sempre più consistente incremento delle diseguaglianze sociali e tra i popoli – incremento dovuto alla persistenza di un sistema economico, che, nonostante le molte falle non solo di ordine etico, ma anche produttivo (si pensi soltanto al primato dell’economia finanziaria su quella reale) – rende impossibile la realizzazione di un’equa distribuzione della ricchezza e, grazie al prevalere della logica consumista, impedisce che si giunga a un effettivo cambiamento degli stili di vita, reso necessario anche dalle dimensioni drammatiche assunte dalla questione ecologica. L’interconnessione del mondo, in ragione del fenomeno già ricordato della globalizzazione, conferisce un peso determinante a scelte come quella cui si fa qui riferimento. La valutazione etica dei processi che si innescano in un’area circoscritta del pianeta non può limitarsi a considerare gli effetti che si producono su tale area; deve avere come referente la situazione mondiale. E questo anche in presenza di buone ragioni per ritenere legittimi i processi che si intendono attivare ma le cui conseguenze vanno valutate in una prospettiva universalistica.

Putin viene paragonato a Hitler come il “male assoluto”: la difesa dell’Ucraina è quindi la difesa del Bene contro il Male, dei valori assoluti contro i disvalori assoluti. Siamo in un nuovo “scontro di civiltà”. Non c’è quindi spazio per la democrazia e l’accordo. Da un punto di vista etico è corretta questa impostazione? Che significa la distinzione fatta da Giovanni XXIII tra il peccato e il peccatore?

Il paragone tra Putin e Hitler è assolutamente inaccettabile. Intanto per il mutato contesto storico. Ma soprattutto per la diversa gravità degli interventi. Non va certo sminuita la responsabilità di Putin nei confronti di delitti efferati, frutto di un regime autoritario, che si difende non lasciando alcuno spazio alla critica e al dissenso, anzi cancellandoli anche attraverso operazioni di tragica violenza. Così come si deve condannare con forza, senza se e senza ma, la sua invasione dell’Ucraina. Il che non deve tuttavia condurre alla sottovalutazione delle responsabilità dell’Occidente – America ed Europa – che ha concorso con alcune prese di posizione a esasperare la
tensione. La contrapposizione tra Male assoluto e Bene assoluto non è plausibile e contribuisce, se esasperata, a dare vita a quel deplorevole “scontro di civiltà”, che vanifica ogni possibilità di mediazione diplomatica. La situazione della guerra in Ucraina non può certo trovare sbocco positivo se – come peraltro purtroppo finora avviene – si assumono da ambo le parti posizioni di radicale intransigenza. La possibilità di una trattativa efficace è legata, oltre che all’abbandono di giudizi drastici come quelli ricordati, alla volontà di trovare un punto di accordo, che presuppone la rinuncia a qualcosa da tutte e due le parti. La distinzione proposta da papa Giovanni tra il peccato e il peccatore (o tra l’errore e l’errante) riflette il “non giudicate” evangelico, che non riguarda tanto l’azione, che deve essere valutata con rigore e di cui va denunciato con forza quando si rende necessario il contenuto negativo, ma il soggetto della stessa, di cui non è possibile conoscere fino in fondo l’intenzionalità profonda, in quanto la disposizione interiore rimane sempre e comunque avvolta nel mistero.
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