Ostinatamente per la Pace – Dibattito/Opinioni

2faf5872-3cc5-423d-a389-3bd1f1440f0dC’è un’alternativa alla guerra: ora
13-06-2022 – di: Gianni Tognoni
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Sembra tanto tempo fa quando su queste pagine (Volerelaluna https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/03/07/e-permesso-immaginare-la-pace/) domandavo se era proprio proibito pensare in termini di pace, come unico modo di non far “scoppiare” la guerra. Come nelle vecchie filastrocche, la guerra è più che scoppiata. Ha invaso tutto. E tutti.

Strana esperienza: in fondo non c’è nulla, ma proprio nulla di nuovo. Come quando si vedono o vedevano film di guerra. O le cronache in diretta di Iraq, Yemen, Sudan e via elencando. Cambiano fotogrammi, inquadrature, colori: ma il contesto e i racconti profondi sono uguali: tra cinema e storia reale cambiano solo le immagini degli umani: comparse vs umani veri morti e feriti, profughi… Del resto non si sa nulla, al di là delle cronache fattuali, più o meno ripetute, e le tante opinioni e interpretazioni. È vero che l’Ucraina è più vicina (ma non tanto di più se soltanto si pensa alla Libia, a Gaza, alla Siria) e c’è di mezzo l’immaginario del nucleare, ma non tornano i conti: né concreti, né nell’immaginario. Nell’articolo citato avanzavo una proposta talmente banale da apparire scontata: «La follia di un Putin che rappresenta soprattutto se stesso e cancella il diritto in tutte le sue forme si dovrebbe confrontare, in questo scenario, non con un nemico, ma con un progetto di futuro, nel quale le armi siano a priori escluse, e si dia il tempo di sperimentare forme democratiche di decisione, senza pericolo di interferenze militari. La ovvietà della proposta è pari all’apparente ingenuità della sua percorribilità».

Forse la guerra “in” Ucraina toglie, come la pandemia, il velo a qualcosa: a una nostalgia dei “poteri” di giocare a essere nemici sul campo: sul serio: con armi vere: come negli antichi duelli: appena fuori le mura: per sapere chi è più bravo. Perché nel mondo globale queste emozioni non sono più personalizzabili: sono impersonali. Sistemiche. Hanno le cose e le merci come protagonisti. E i morti, tanti tanti tanti, per fame o migrazione o repressioni-guerre “locali”, hanno l’accortezza di essere presenti solo nei racconti, come al cinema. Era da tempo evidentemente che “giocare” alla guerra in diretta covava: il mercato delle armi tirava, ma aveva bisogno di una scossa, che togliesse le resistenze psicologiche. Ed è meraviglioso l’accordo pieno e rapido sulle spese/competizioni al riarmo dei governi, delle industrie: avere l’emozione di “mandare” armi: non di nascosto, travestite da doveri di difesa.

Il racconto si potrebbe trascinare: come si trascina la guerra (o meglio: le trattative segrete tra dittatori armati fino ai denti), senza sapere qual è l’oggetto reale del contendere, e ancor meno chi e quanto e come e se deve uscire come vincitore o vinto: e tra chi? Russia vs Ucraina? Non è questa, e tutti lo sappiamo o lo sanno, la partita vera. Che svela anche che l’intenzione è quella di ridare formalmente alla guerra un suo diritto di cittadinanza da tempo messo in dubbio, e ridotto a essere un capitolo del mercato, o un evento per tutte le periferie… Che fare? La risposta è vecchia: TINA. Come per l’economia negli anni Ottanta, che rese obbligatorio il colonialismo dei sempre più pochi, perché il capitalismo classico non era più sufficiente. TINA – quasi superfluo ricordarlo – è l’acronimo della frase in inglese: “there is no alternative”. In italiano significa “non c’è alternativa”. Un’espressione cara alla prima ministra conservatrice britannica Margaret Thatcher. Se è vero che le decisioni nelle democrazie vengono assunte secondo percorsi trasparenti e condivisi, la retorica di “non c’è alternativa” (TINA) solleva non pochi interrogativi. Nella storia recente, il metodo TINA ha mostrato di poter facilitare e giustificare decisioni politiche sgradevoli e normativamente complesse, ostacolando però le procedure democratiche e deliberative

La guerra “periferica-centrale” (è questa la novità) ha svelato (come TINA) che il fattore più critico è l’assenza di un’ipotesi forte, alternativa, motivata, documentata di pace. Che è diversa da “movimenti per” la pace. L’Europa, luogo di una guerra di non si sa chi contro chi, ma certo profondamente sua, per la storia e per il presente, è l’assenza più drammatica e riassuntiva: non per scelte politiche. Per tante, frammentate alleanze con tutti gli attori: e un bagaglio di guerre di interessi che la rendono paralitica nel pensiero prima ancora di immaginarsi in una trattativa. La guerra ha svelato che il fattore più critico è l’assenza di un’ipotesi forte, alternativa, motivata, documentata di pace.

TINA è la dichiarazione di guerra. Non l’accetterò mai. Speriamo di essere in tanti. Nei tanti quotidiani. Magari non discutendo, nelle diverse, piccole o grandi, sinistre ed etiche, chi è, come e se si è pacifisti, più o meno invisibili e impotenti. Prendendo eventualmente un obiettivo politico-economico, concreto per le sue implicazioni molto dirette: non accettare TINA per le spese militari: spostare le spese già previste ora per il riarmo, in Italia, all’ambiente, alle aree della sanità che escludono e non includono, allo ius soli.
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CONTROCANTO
«Sia il vostro parlare sì, sì; no, no»
06-06-2022 – di: Tomaso Montanari
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Non sappiamo perché sia trapelato solo ora, ma il motivato rifiuto di papa Francesco di partecipare ai convegni intrecciati di sindaci e vescovi del Mediterraneo, nello scorso febbraio a Firenze (Volerelaluna https://volerelaluna.it/commenti/2022/02/23/firenze-tradisce-la-pira/), è davvero clamoroso. Allora, non solo il papa non venne a Firenze, ma non mandò nessuno a rappresentarlo, e all’Angelus da San Pietro non mandò nemmeno un saluto all’iniziativa fiorentina, benché in piazza Santa Croce a Firenze ci fossero i vertici della Cei e dello Stato (incluso Mattarella) ad ascoltarlo in diretta.

Il franco scambio di opinioni tra il pontefice e l’arcivescovo di Firenze – avvenuto al recente convegno della Cei, in questi giorni filtrato sui giornali e non smentito dalla Santa Sede – è illuminante: ai grigi equilibrismi politici del cardinal Betori (che cerca di spiegare al papa che Marco Minniti era stato invitato da Nardella e non dai vescovi) si contrappone la luminosa parresia, cioè il dire la verità, di Francesco. Il quale sa benissimo che, se avesse accettato di chiudere quei lavori, il risultato mediatico sarebbe stata una “benedizione” della politica rappresentata dalla figura di Minniti: autore di quella legislazione securitaria sull’immigrazione che conduce, senza soluzioni di continuità, ai decreti sicurezza di Salvini, e ora volto del soft power della fondazione Med-Or, espressione della Leonardo, che è la principale fabbrica di armi italiana. Dopo l’appello nel quale una parte dei cattolici fiorentini (tra i quali anche chi scrive) chiedevano a Firenze di dire “no” a Minniti esattamente per questo motivo, Nardella rispose che «la politica non può limitarsi al giudizio morale». Del resto, il sindaco di Firenze è un convinto sostenitore della “linea Minniti”, sgomberi e DASPO urbani inclusi, in nome della “legalità”. Ed è tutta qui la differenza tra papa Francesco e i politicanti italiani (inclusi alcuni vescovi): per il papa il piano morale non può mai essere messo tra parentesi. Per Francesco la persona umana non è mai un mezzo, ma sempre e solo il fine ultimo: dunque la tortura nelle carceri libiche non può essere un accettabile danno collaterale di una politica di “contenimento” della migrazione. E le armi sono sempre e comunque strumenti di morte: per il papa la pace si prepara costruendo la pace, non la guerra.

Le durissime parole del pontefice trapelate in questi giorni hanno lasciato sconcertati coloro che sono abituati a guardare al Vaticano come una potenza terrena, con la sua diplomazia e la sua politica. Ma è evidente che quella diplomazia e quella politica con Francesco sono cambiate: perché sono ispirate al Vangelo non solo nei contenuti, ma anche nelle forme. A cominciare, appunto, dalla parresia: «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Matteo 5, 37).

Che questo tratto così rivoluzionario, in un pontefice, sia emerso proprio in un’occasione legata a Firenze è straordinariamente suggestivo. Francesco è stato il primo papa a recarsi a Barbiana, sulla tomba del fiorentino don Lorenzo Milani, che della parresia, della franchezza del parlare cristiano, è stato il profeta più luminoso del Novecento. Milani ha pagato un prezzo altissimo per la sua fedeltà al parlare solo con l’evangelico «sì, sì; no, no»: nonostante la sua struggente fedeltà alla Chiesa, i predecessori di Betori lo hanno punito con l’esilio; ed egli fu anche processato in tribunale per aver osato difendere l’obiezione di coscienza contro l’amore per la guerra dei cappellani militari. La chiesa fiorentina, del resto, è stata ricolmata del dono della parresia: da Giorgio La Pira (sindaco santo che requisiva le case sfitte per dare un tetto ai poveri) a padre Balducci, da padre Turoldo a don Bruno Borghi, dalla Comunità dell’Isolotto a quella delle Piagge. Una tradizione che oggi continua con Alessandro Santoro, Andrea Bigalli, responsabile di Libera Toscana, e con l’abate di San Miniato Bernardo Gianni: tutti sacerdoti che hanno firmato l’appello contro Minniti. Tutte figure più o meno esplicitamente condannate e isolate dai vescovi di Firenze: tutte figure che oggi le parole di papa Francesco risarciscono.

In un’Italia sempre più lontana dalla franchezza della sua Costituzione (una «polemica contro lo stato delle cose», la definiva Piero Calamandrei), la franchezza del papa, così vicina a quella di Gesù nel Vangelo, è un raggio di sole che squarcia le tenebre. E don Milani, che sui banchi di Barbiana teneva Costituzione e Vangelo, da qualche parte del paradiso oggi sorride.

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Che confusione! Fenomeni e deliri della propaganda
Goffredo Bartocci su Patria Indipendente

L’antico e spesso troppo labile confine tra l’informazione e le tecniche di persuasione, soprattutto in tempo di guerra, alla lente della psichiatria culturale: puntare sull’emotività semplicistica e viscerale rischia di “disorientare” le giovani generazioni e produce incertezza e fragilità anche nelle persone adulte e più consapevoli

A partire dal 24 febbraio di quest’anno ho seguito con attenzione le informazioni provenienti da articoli dei quotidiani, da talk show, servizi speciali, interventi di veri o presunti esperti sulla guerra in corso fra Russia e Ucraina. L’incoerenza tra le comunicazioni inerenti il terreno di guerra e il ribaltamento delle notizie diffuse nel nostro Paese mi ricorda il fenomeno già osservato da psicologi dell’infanzia e dell’adolescenza che individuano il potere patogeno del doppio messaggio: la percezione contemporanea di una discordanza fra la cascata di emozioni e i concetti cognitivi provenienti da adulti significativi confonde la mente.

Tra gli avvenimenti che hanno goduto di tale infausta contrapposizione emergono non solo l’elargizione e l’incoerenza di pacchetti emozionali preformati, ma anche le numerose e accanite dispute valoriali. A questo punto entriamo nel vivo dell’interazione fra fede e concetti cognitivi provenienti da ottiche materialistiche. Nel momento in cui adoperiamo lo strumento adatto per osservare la fenomenologia interculturale al fine di legare climi culturali ed espressioni comportamentali manifeste, è doveroso guardare con attenzione anche ai fenomeni di casa nostra. Colpisce, ad esempio, lo sguaiato attacco proveniente da più parti, da giornalisti o personaggi politici, contro il presidente dell’Anpi nazionale.

Eppure mi è sembrato che questi avesse espresso un dubbio, uno scrupolo, sull’opportunità dell’invio di massicce forniture di armi all’esercito ucraino. Mi era sembrato un invito a riflettere su ciò che nel lungo termine poteva comportare e non l’abbandono di un popolo che sta resistendo all’invasore. Inoltre mi era sembrato anche un invito ad analizzare fenomeni geopolitici così decisivi tenendo presente la concatenazione delle cause che li hanno determinati e che ne sostengono la perpetuazione.
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Guerre nel mondo
Per solito è buona norma in psichiatria culturale evitare di intervenire in ambito politico o militare, in quanto tale competenza è depositata nelle mani di esperti di affari internazionali o direttamente in quelle delle intelligence. Ma questa volta, avendo colto un livore da parte degli addetti ai lavori istituzionali – un livore esacerbato da una certa prosopopea del tipo “fatevi gli affari vostri” – non ho potuto fare a meno di esprimermi su una stonatura: quando una guerra è ai nostri confini diventa di per sé un “affare nostro”, tanto più perché non avremmo dovuto dimenticarci le innumerevoli guerre combattute alla fine del secolo scorso e dall’inizio di questo millennio sulle sponde del Mediterraneo.

Mi è sembrato, poi, che le accuse di partigianeria putiniana o di ingenuità pacifista rivolte contro una voce uscita dal coro non rispettassero un’associazione nata da una storia di persone non irreggimentate ideologicamente e che contribuirono a rendere libera l’Italia. Ora, per evitare analisi predicatorie, mi sembra possibile se non doveroso chiamare in causa la competenza della disciplina di cui mi occupo, la psichiatria culturale, statutariamente mirata a individuare, nella pletora di manifestazioni psicoculturali osservabili, la presenza di punti di inciampo che ostacolano lo sviluppo virtuoso della comunità.

Un primo esempio “tecnico” di uso dell’arte argomentativa fenomenico/culturale nel corso della nostra storia, è quello che documentava l’epidemia di isteria in Inghilterra durante il boom dell’industrializzazione, collegandolo ai turni massacranti delle donne che lavoravano nelle fabbriche. Qualora preferiate un esempio più attuale, basta soffermarsi a considerare la frequenza con cui nel Nord America un ragazzo decide di entrare in un supermercato o in una scuola con armi d’assalto per sterminare un numero imprecisato di persone indifese. Anche in questo caso, oltre a circoscrivere il problema a una patologia del singolo e individuare le conseguenti terapie, sarebbe opportuna un’interpretazione psicoculturale dinamica. Importeremo in Italia anche questi fenomeni, come abbiamo importato l’anoressia e le personalità multiple e con esse la griglia interpretativa che viene normalmente proposta?

Ma torniamo a noi. Ovvero ai fatti dell’Anpi. Non vi sembra stupefacente osservare che poco tempo dopo le invettive contro una voce fuori dal coro, e senza apparente cambio di passo nelle modalità di rapportarsi agli iscritti all’associazione, una sempre più consistente componente politica e sociale si è schierata sulla stessa linea precedentemente considerata oltraggiosa?

Cosa voglio sottolineare? Ebbene, in questo periodo di enorme confusione mi sembra proliferi una induzione alla confusione stessa. Ci troviamo di fronte alla famosa goccia che fa traboccare il vaso della resilienza identitaria. Mi riferisco alla resilienza di quel contenitore identitario, individuale o di massa, atto a preservare la capacità di orientarsi per chi si trova a seguire (e possibilmente a capire) quali siano le cause di una schermaglia sconsiderata su valori di cui l’Italia è portatrice e che dovrebbero essere patrimonio di tutti.

Il termine confusione, da cui qui sopra ho preso le mosse, è di uso comune. Allo stesso tempo caratterizza nella terminologia psichiatrica un preciso stato di coscienza. Gli stati di coscienza non sono oggetti con cui si possa impunemente giocare. L’ampiezza di contenuti dello stato di coscienza può essere rapportata, come importanza, alla infinitudine della teologia dello Spirito dell’homo sapiens. È opportuno sapere che lo stato di coscienza altri non è che il luogo da cui si possono intraprendere cammini diversi, alcuni dei quali possono sfociare in quelle manifestazioni che in psichiatria chiamiamo psicopatologie.

Un secondo termine che in vari modi denota traballanti stati di coscienza è il disorientamento. Sebbene anche questa connotazione di uno stato psichico sia di uso comune, è doveroso sottolineare che la perdita dell’orientamento è certamente il primo passo verso una degradazione della percezione della realtà esterna, la quale diventa, nel bene e nel male, “perturbante”, come sottolineato da Freud e ripreso attualmente dalla psichiatria culturale. Questo può accadere a chi, con pazienti di altre culture, nega la sua difficoltà a ricevere comunicazioni estreme, che potremmo dire stranianti, da parte di una persona evidentemente sana, non riuscendo a fare quel necessario “salto culturale”. Fu l’interprete Bantu che mi assisteva nel condurre lunghi discorsi con pazienti di questa etnia che mi fece esperire un chiaro momento di disorientamento. Un giorno non venne a svolgere il suo lavoro. Mi stupii dato che per mesi aveva dimostrato una assoluta puntualità agli appuntamenti. Il giorno dopo mi disse: “Scusi Doctor per non essere venuto ieri, ma mentre camminavo lungo il sentiero per venire qui, la pietra mi ha parlato. Erano i miei antenati che mi dicevano di svolgere con più cura i sacrifici rituali. Sono corso nel luogo dove sono nato per rimediare”.

Ebbene, fu grazie a questo schiaffo involontario da parte dell’interprete che intrapresi la carriera di transculturalista. In quel momento capii quanto fosse difficile non reagire a quanto di estraneo ascoltavo dal mio interprete, e quanto fossero ingombranti le credenze preformate che mi portavo appresso come bagaglio a mano. Non solo. Riavutomi dallo schiaffo riuscii a comprendere un altro aspetto di quel giorno fatidico: nel raccontami della pietra parlante l’interprete Bantu si era fidato di me, aveva affidato a mani estranee i fatti più intimi del suo essere devoto alla sua storia religiosa, quella del rispetto per gli antenati. Siamo noi capaci di fare lo stesso? Ascoltare senza anteporre immediatamente all’altro le nostre più rigide convinzioni?

Ora, ritorniamo in Europa. Non c’è alcun dubbio sugli effetti confusivi generati da un’informazione cattiva e parziale. È impossibile non rendersi conto che tale attitudine genera incertezza e fragilità anche nelle persone interessate a riflessioni che derivino da punti di vista consapevoli.

Inoltre, accade che ai discorsi a sfondo sociale che ci inondano sulle motivazioni geopolitiche e geoeconomiche della guerra in atto, si siano aggiunte con sempre maggiore frequenza dichiarazioni a sfondo psicologico: termini quali delirio, follia, megalomania, narcisismo, paranoia, sono all’ordine del giorno. Troppo facile usare surrettiziamente questi termini per definire il Bene e il Male, la norma e la deformazione psichica, la giusta fede o l’eresia. Attenti. Il tentativo di suscitare nella popolazione una emotività semplicistica e viscerale è un vecchio trucco. Ma i trucchi non fanno crescere le funzioni dell’Io. L’adolescente di oggi, e non solo lui, mostra di aver maturato una negazione, un distacco dal desiderio di conoscenza dei fatti. Alla mancanza di elaborazione si sostituisce l’obbligo a prendere posizioni immediate e indiscutibili. Basta dare un’occhiata al dilagare del bullismo, al proliferare di movimenti ascientifici che insinuano la piattezza della Terra o, peggio, all’insorgere di fenomeni di fanatismi religiosi a fini di terrorismo. In fondo non è così difficile trovare la linfa che alimenta credenze e comportamenti abnormi e definire con termini tecnici dinamiche capaci di produrre forme più o meno palesi di dissociazione.

Sono tentato di agganciare questo discorso a un tema, quello dei deliri culturali, che riguarda molte popolazioni. Basti per ora smascherare e opporsi a forme di comunicazione su basi dissociative prima che queste si conformino in un delirio. Anche qui è opportuno portare un esempio, fra gli altri, di dissociazione nella comunicazione, a sua volta dissociante: il momento della pubblicità televisiva. È un momento sovraccarico di potenza: si parla, si vedono morti per le strade, madri in lacrime, uomini pronti a combattere, lo stesso Papa, detentore del primato della paternità spirituale, quando ecco: il conduttore interrompe qualunque oratore. Pubblicità! Poi, quasi non bastasse, ecco i visi tenerissimi di infanti che muoiono per malnutrizione, polmonite, sete. Scorrono i corpicini denutriti, il sorriso al primo sorso di latte in polvere. Poi, senza soluzione di continuità, cambia la scena: si reclamizza il cibo per gatti. Tirati a lucido, il pelo morbido per l’uso di shampoo raffinato, mangiano il salmone sotto lo sguardo tenero di una donna, di un ragazzo, di chi capita. Ecco, questo è un invito alla dissociazione. Qui è in atto una ginnastica dissociante, caratterizzata dal passaggio repentino dalla richiesta di una empatia interumana intensa a una situazione emotiva effimera.

State attenti uomini adulti, ragazzi, madri, pensionati, forse – lo spero – immigrati che portate gli odori della vostra terra mentre vi accostate a diventare cittadini di una nuova patria. Tutti voi fate attenzione alle pozioni dell’incantamento. Non vi fate abbindolare. Non chiedo di più. Non ho soluzioni in grado di sciogliere gli inganni della propaganda, le malie di chi promette vita eterna o la necessità di una bibita zerocalorie. Troppo ci sarà da dire.

Concludo con una citazione a cui sono affezionato. L’ho usata come incipit in più di una pubblicazione (almeno sino a quando un editore mi fece notare l’eccesso di ripetizione). Ebbene, anche stavolta fruisco delle parole pronunciate dal senatore Simmaco quando, nel 384, il vescovo di Milano Ambrogio ordinò la rimozione da una sala del Campidoglio dell’altare dedicato alla dea Vittoria: “Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum” [non si può raggiungere un mistero così grande per una sola via]. Sì, non è possibile sciogliere un mistero così grande come l’appartenenza a un credo togliendo a forza le fattezze di una donna alata. Attenti sia al potere esplicito che alle tecniche raffinatissime di incantamento. In tal guisa ammoniva il grande antropologo italiano Ernesto De Martino, quando sottolineava come conseguenza della fascinazione la possibilità della perdita della presenza e il furto dell’Io.

Cari lettori, esercitate ancora una volta la vista per scorgere non più solo le camicie nere del fascismo o le bandiere nere dei terroristi. Quelli siamo riusciti a smascherarli. Attenti però all’inganno leggero, impalpabile di ogni falso sorriso, ogni teatrale discorso dal balcone di vetusti palazzi o dagli schermi televisivi. Eviteremo con ciò di essere mandati a morire su un campo di battaglia per interessi altrui.
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Gli autori (segue)
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GIANNI TOGNONI
Gianni Tognoni, medico, è esperto di epidemiologia clinica e comunitaria. E’ stato direttore del Consorzio Negri Sud. Attualmente opera nel Dipartimento di Anestesia-Rianimazione e Emergenza-Urgenza , Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano. E’ presidente delComitato Etico, Università Bicocca, Milano.

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TOMASO MONTANARI
Tomaso Montanari insegna Storia dell’arte moderna all’Università per stranieri di Siena. Prende parte al discorso pubblico sulla democrazia e i beni comuni e, nell’estate 2017, ha promosso, con Anna Falcone l’esperienza di Alleanza popolare (o del “Brancaccio”, dal nome del teatro in cui si è svolta l’assemblea costitutiva). Collabora con numerosi quotidiani e riviste. Tra i suoi ultimi libri Privati del patrimonio (Einaudi, 2015), La libertà di Bernini. La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi, 2016), Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità (Edizioni Gruppo Abele, 2017) e Contro le mostre (con Vincenzo Trione, Einaudi, 2017)

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Goffredo Bartocci, psichiatra e psicoterapeuta.
Goffredo Bartocci è psichiatra e psicoterapeuta a Roma. Nel 2006 ha fondato l’Associazione mondiale di psichiatria culturale con il prof. Wen-Shing Tseng e ne è stato il secondo presidente. È stato presidente della sezione speciale di Psichiatria transculturale dell’Associazione italiana di psichiatria e della sezione transculturale della World Psychiatric Association, nonché ricercatore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità presso il Tavistock Institute di Londra. Attualmente è presidente dell’Istituto italiano di igiene mentale transculturale e direttore della rivista online Psichiatria e psicoterapia culturale. È un esperto riconosciuto a livello internazionale sull’applicazione della psichiatria culturale alla pratica clinica nella salute mentale, campo di cui è stato pioniere come direttore dell’Unità di psichiatria transculturale dell’Asl di Roma. Ha svolto attività sul campo tra i Bantu del Sud Africa e gruppi aborigeni nel deserto dell’Australia Centrale, grazie al contributo del ministero degli Esteri italiano. Tra le sue pubblicazioni, Psicopatologia, cultura e pensiero magico (Liguori), Psicopatologia, cultura e dimensione del sacro (EUR), Il Mondo delle intenzioni: l’incontro transculturale fra il Medicine man e il Doktor Freud (Liguori), Il Soffio delle Intenzioni: riflessioni in forma di favola sui massimi sistemi per vivere felicemente con popolazioni aliene (Harmattan). Ha curato l’edizione italiana del Manuale di psichiatria culturale di Wen-Shing Tseng (CIC Edizioni). Nella Enciclopedie Medico Chirurgical (edizione 2013) ha pubblicato il capitolo Reflexions sur Spiritualité, Religion et Psychiatrie.

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