Ostinatamente per la Pace!
Pace, ripartire dall’alfabeto
Editoriale di Mariano Borgognoni su Rocca 12/2022*
Abbiamo messo in copertina una bellissima foto della marcia per la pace del 1961. Giusto 61 anni fa. Vuol essere una scommessa sulla speranza di cui quelle donne e quegli uomini sono immagine. Un’immagine che arriva dal passato ma che, in un certo senso, ci viene incontro dal futuro: dal desiderio e dal diritto di vivere delle generazioni giovani e di quelle venture. In quei cartelli così essenziali c’è scritta l’idea di un mondo altro rispetto a quello che fonda la sicurezza sulle armi e sugli imperi (del bene o del male). Non so quanti fossero i cristiani presenti a quella prima marcia [Perugia-Assisi] ispirata da Aldo Capitini, forse non molti, eppure quelle persone col vestito della festa, annunciavano un regno nuovo. E dai giardini del Frontone di Perugia alla Rocca di Assisi erano davvero «belli i piedi dei messaggeri che annunciano la pace». Dopo 61 anni è ancora il tempo che parlino i popoli. La situazione è troppo seria per lasciarla alla decisione degli esperti! Già i grandi greci ci avvertivano che ogni aretè, ogni virtù, ha bisogno di competenti, ma l’aretè di governare la polis deve essere arte comune, affinché non giunga polemos, il demone della guerra, a sconvolgere la convivenza della città. In una celebre battuta il grande e disincantato scrittore russo Anton Cechov sostiene che «l’ottimista è un pessimista male informato». Il tempo che viviamo sembrerebbe dargli ragione. Eppure quelle immagini di copertina ci parlano di un ottimismo della volontà portatore di un nuovo realismo. Dopo tante guerre, ultima quella afghana, che hanno lasciato problemi irrisolti e anzi aggravati, come si fa ancora a rilanciare la via del riarmo come orizzonte di sicurezza e di pace? Una via che divora risorse necessarie a garantire condizioni di vita, d’istruzione, di salute dignitose per una parte enorme del umanità; che sottrae possibilità di orientare la ricerca e la scienza verso obiettivi capaci di accrescere la vita buona dei viventi e riparare i guasti inferti al pianeta; che limitano le opportunità di assicurare giustizia e uguaglianza sociale. Per questo armi, sfruttamento e fame stanno insieme, come insieme stanno disarmo, emancipazione e benessere. Su questo l’umanesimo cristiano, quello socialista e la nuova istanza ambientale, rappresentano una proposta attuale ed urgente per il rilancio di un’Europa protagonista in un mondo multipolare che ritrovi nell’Onu e nel suo rinnovamento quel soggetto istituzionale, già sognato da Kant, per evitare che la guerra di tutti contro tutti si trasferisca dagli individui agli Stati e la «pace perpetua» continui ad essere quella dei cimiteri. Molti articoli ed interviste, da M. Salvi a La Valle a Vignarca, parleranno in questo numero della guerra in corso (delle guerre in corso). Per parte mia ho voluto offrire una cornice all’avvio di un Alfabeto della Pace cui abbiamo deciso di fare spazio nella nostra rivista e di cui il pezzo di Giannino Piana sul versante etico è il primo contributo. Vorremmo ritrovare e inventare le parole chiave della convivenza, della cooperazione, della ricchezza delle differenze, per lavorare, nel nostro piccolo, a quella che, nell’ultimo numero, abbiamo chiamato «la prossima rivoluzione»: quella della nonviolenza. La rivoluzione più ardua, che non è assenza di conflitto ma capacità di umanizzarlo; che non è resa al sopruso ma resistenza di massa alla barbarie; che non vive nell’apatia e nel risentimento ma richiede una cittadinanza consapevole e attiva. Una sfida difficile che nella storia ha visto alternarsi rovesci e vittorie. Un cammino sempre da ricominciare, che viaggia sul filo del paradosso e che troverà sempre di fronte a sé l’obiezione del due più due fa quattro del «realismo reale», attraverso il quale è trascorso il tempo degli uomini da una guerra all’altra. E nel tempo della guerra, come è stato detto, la ragione si mette al servizio della follia. È possibile e necessario, nel deserto ideale e politico che sembra caratterizzare questa stagione, organizzare un pensiero e un’azione che non siano solo schiacciati sull’amministrazione del presente, secondo il catechismo dell’ultima teo-ideologia rimasta, ma che abbiano la tentazione di organizzare da capo la speranza. La speranza che liberté ed égalité possano davvero vivere insieme. E lo potranno solo se il terzo non verrà più escluso: la fraternité. Forse può essere questa la chiave di volta attraverso cui riprendere il cammino di emancipazione di individui e società da dove i fallimenti storici lo hanno lasciato.
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*ROCCA 15 GIUGNO 2022 l’editoriale
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ChiesadituttiChiesadeipoveri: Newsletter n. 266 del 8 giugno 2022.
LE ARMI SOLE AL COMANDO
Cari Amici,
“Ne cives ad arma veniant” (affinché i cittadini non corrano alle armi) è una massima latina (peraltro mai usata dai latini, o perlomeno non se ne trova traccia negli antichi scritti) che con mirabile concisione definisce ciò che è alternativo alla violenza e alla guerra. Per questa ragione è atta soprattutto ad indicare il diritto e secondo Luigi Ferrajoli definisce la ragione profonda del monopolio statale del ricorso alla forza, quel monopolio che in sede internazionale dovrebbe ora essere esclusivo delle Nazioni Unite e gestito dal Consiglio di Sicurezza.
Il merito di questa formula sta in ogni caso nell’indicare le armi non solo come protagoniste della guerra, ma addirittura come l’altro nome della guerra, il che spiega perfettamente, ad esempio, perché la condanna delle armi, della loro produzione e del loro commercio, si accompagni sempre, nel ministero pastorale di papa Francesco, alla condanna della guerra, fino a dire che la spesa per le armi, e “armi, armi, armi”, sporchi l’anima e sporchi l’umanità; ed è stata questa anche la ragione della sua rinunzia ad andare alla recente assemblea fiorentina che, pur intitolata a La Pira non si era accorta di una sua possibile strumentalizzazione ad uso dei fabbricanti d’armi.
Nel caso della guerra d’Ucraina le armi non solo ne sono protagoniste, ma anche sono le sole al comando; sono loro che l’hanno decisa, provocata, che la governano e che ne decidono la durata. Non si è creduto che le armi ammassate ai confini della Russia fossero un invito alla guerra. Non si è creduto che le armi fossero la vera ragione della guerra da parte della Russia, facilissima perciò ad essere rimossa con un accordo sulla reciproca sicurezza. Si è preferito farsi vittime dell’aggressione, adducendo una miriade di altre ragioni occulte dell’invasione, tali per cui il negoziato diventava impossibile; e quando all’Ucraina sono mancate le armi non si è fatto altro che andarle a chiedere a mezzo mondo e quello che chiamiamo Occidente ha fatto a gara per fornirle, a cominciare dagli avanzi delle guerre precedenti, virtuali o reali, col vantaggio collaterale di svuotare i propri arsenali e renderli accoglienti per altri più moderni e costosi armamenti. In tal modo si è prodotta una cobelligeranza generale contro la Russia, di cui ora con sadico sprezzo del pericolo si discute se debba essere “umiliata” o no (Zelensky dice di sì) come se fosse il Principato di Monaco e non una grande Potenza che si sente messa alla gogna, scacciata e ferita. E sono ancora le armi che, sostituendosi ai capi responsabili, decidono quanto debba estendersi la guerra, perché quelle del dono occidentale sono via via a gittata più lunga e i russi rispondono che quanto aumenta la gittata delle armi che li minacciano, altrettanto aumenterà la distanza alla quale sospingeranno gli aggressori (singolare inversione delle parti!), cioè la profondità cui si spingerà l’invasione.
Le armi, divenute così padrone e signore della guerra, saranno anche padrone del nostro destino; ma di quelle che abbiamo mandato noi, non sappiamo nemmeno come si chiamano, perché sono state secretate; certo non sono quelle festosamente d’epoca col bandierone volante mostrate nella spettacolare parata ai Fori Imperiali del 2 giugno scorso; Amato, che sarebbe il tutore giurisdizionale della Costituzione, le considera extra legem, sbagliando Costituzione come se la Costituzione non le avesse ripudiate insieme alla guerra che ne è l’altro nome, forse scambiando la nostra Costituzione con quella americana per la quale a ogni cittadino corrisponde un’arma e anzi, stando alle statistiche, più armi ad ogni cittadino.
Ce n’è abbastanza per rovesciare le armi dal trono, come la democrazia impone di fare con i falsi sovrani.
Nel sito pubblichiamo una recensione di Vittorio Bellavite del libro di Giuseppe Deiana “Io sono la Terra di tutti”, un libro che fin dal titolo propone una felice intuizione, assumendo la Terra non nel senso dei geografi quale si trova nella carte o dei teologi quale creazione divina o degli astronauti che la guardano da lontano come la Luna, ma come un Io collettivo, cioè come la comunità di tutti gli esseri umani che la popolano, nel senso stesso cioè in cui è intesa come il soggetto costituente di “Costituente Terra”.
Pubblichiamo anche un articolo di Vincenzo Vita sul maccartismo all’italiana riguardante le liste dei ”putiniani” diffuse dal “Corriere della Sera”, e una lettera di una coppia di obiettori di coscienza ucraini. Al seguente link potete trovare inoltre il saggio di Marina Graziosi sulla donna nell’immaginario penalistico.
Con i più cordiali saluti.
www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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una Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola
Costituente Terra. Newsletter n. 82 dell’8 giugno 2022
LE ARMI SOLE AL COMANDO
Cari Amici,
“Ne cives ad arma veniant” (affinché i cittadini non corrano alle armi) è una massima latina (peraltro mai usata dai latini, o perlomeno non se ne trova traccia negli antichi scritti) che con mirabile concisione definisce ciò che è alternativo alla violenza e alla guerra. Per questa ragione è atta soprattutto ad indicare il diritto e secondo Luigi Ferrajoli definisce la ragione profonda del monopolio statale del ricorso alla forza, quel monopolio che in sede internazionale dovrebbe ora essere esclusivo delle Nazioni Unite e gestito dal Consiglio di Sicurezza.
Il merito di questa formula sta in ogni caso nell’indicare le armi non solo come protagoniste della guerra, ma addirittura come l’altro nome della guerra, il che spiega perfettamente, ad esempio, perché la condanna delle armi, della loro produzione e del loro commercio, si accompagni sempre, nel ministero pastorale di papa Francesco, alla condanna della guerra, fino a dire che la spesa per le armi, e “armi, armi, armi”, sporchi l’anima e sporchi l’umanità; ed è stata questa anche la ragione della sua rinunzia ad andare alla recente assemblea fiorentina che, pur intitolata a La Pira non si era accorta di una sua possibile strumentalizzazione ad uso dei fabbricanti d’armi.
Nel caso della guerra d’Ucraina le armi non solo ne sono protagoniste, ma anche sono le sole al comando; sono loro che l’hanno decisa, provocata, che la governano e che ne decidono la durata. Non si è creduto che le armi ammassate ai confini della Russia fossero un invito alla guerra. Non si è creduto che le armi fossero la vera ragione della guerra da parte della Russia, facilissima perciò ad essere rimossa con un accordo sulla reciproca sicurezza. Si è preferito farsi vittime dell’aggressione, adducendo una miriade di altre ragioni occulte dell’invasione, tali per cui il negoziato diventava impossibile; e quando all’Ucraina sono mancate le armi non si è fatto altro che andarle a chiedere a mezzo mondo e quello che chiamiamo Occidente ha fatto a gara per fornirle, a cominciare dagli avanzi delle guerre precedenti, virtuali o reali, col vantaggio collaterale di svuotare i propri arsenali e renderli accoglienti per altri più moderni e costosi armamenti. In tal modo si è prodotta una cobelligeranza generale contro la Russia, di cui ora con sadico sprezzo del pericolo si discute se debba essere “umiliata” o no (Zelensky dice di sì) come se fosse il Principato di Monaco e non una grande Potenza che si sente messa alla gogna, scacciata e ferita. E sono ancora le armi che, sostituendosi ai capi responsabili, decidono quanto debba estendersi la guerra, perché quelle del dono occidentale sono via via a gittata più lunga e i russi rispondono che quanto aumenta la gittata delle armi che li minacciano, altrettanto aumenterà la distanza alla quale sospingeranno gli aggressori (singolare inversione delle parti!), cioè la profondità cui si spingerà l’invasione.
Le armi, divenute così padrone e signore della guerra, saranno anche padrone del nostro destino; ma di quelle che abbiamo mandato noi, non sappiamo nemmeno come si chiamano, perché sono state secretate; certo non sono quelle festosamente d’epoca col bandierone volante mostrate nella spettacolare parata ai Fori Imperiali del 2 giugno scorso; Amato, che sarebbe il tutore giurisdizionale della Costituzione, le considera extra legem, sbagliando Costituzione come se la Costituzione non le avesse ripudiate insieme alla guerra che ne è l’altro nome, forse scambiando la nostra Costituzione con quella americana per la quale a ogni cittadino corrisponde un’arma e anzi, stando alle statistiche, più armi ad ogni cittadino.
Ce n’è abbastanza per rovesciare le armi dal trono, come la democrazia impone di fare con i falsi sovrani.
Nel sito pubblichiamo una recensione di Vittorio Bellavite del libro di Giuseppe Deiana “Io sono la Terra di tutti”, un libro che fin dal titolo propone una felice intuizione, assumendo la Terra non nel senso dei geografi quale si trova nella carte o dei teologi quale creazione divina o degli astronauti che la guardano da lontano come la Luna, ma come un Io collettivo, cioè come la comunità di tutti gli esseri umani che la popolano, nel senso stesso cioè in cui è intesa come il soggetto costituente di “Costituente Terra”.
Pubblichiamo anche un articolo di Vincenzo Vita sul maccartismo all’italiana riguardante le liste dei ”putiniani” diffuse dal “Corriere della Sera”, e una lettera di una coppia di obiettori di coscienza ucraini. Inoltre nella “Biblioteca di Alessandria” pubblichiamo una “guida” redatta da Domenico Gallo per la conoscenza e comprensione dei quesiti del referendum sulla giustizia di domenica prossima e il saggio di Marina Graziosi sulla donna nell’immaginario penalistico.
Con i più cordiali saluti.
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