Per la Pace in Ucraina e nel Mondo. Ostinatamente

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logo76Newsletter n. 264 del 25 maggio 2022
CHE COSA FINISCE
Cari Amici,
se nel pieno di una crisi in Europa il loquace Biden è andato in Asia a provocare la Cina, vuol dire che non siamo alla resa dei conti finale né con la Russia né con la Cina, ma all’intimidazione e alla sfida, e anche la guerra in Ucraina comincia ad apparire come ben diversa da come l’abbiamo percepita fin qui.
È una guerra mondiale, perché tale è una guerra che coinvolge le grandi Potenze, ma resta una guerra mondiale a pezzi, come non si stanca di definirla il papa per farla cessare; è una guerra efferata, ma messa in scena come uno spettacolo, dove a contare non sono le tragiche moltitudini delle vittime, tranquillamente immolate da una parte e dall’altra, ma i primi attori solitari, i Putin, gli Zelensky, i Biden, gli Stoltenberg; è una guerra combattuta con altri mezzi, l’economia, l’Intelligence, le fake news, le maratone e non solo con le armi; è una guerra che ostenta molte armi, ma più accantonate e predisposte allo sterminio che destinate alla difesa e alla conquista; è una guerra preventiva, da un lato per salvarsi da un cane che abbaia ma non morde e dall’altro per rassicurare Paesi che nessuno minaccia; è una guerra per fiaccare un antagonista che contende un primato esclusivo e cacciarlo tra i paria, ma non per distruggerlo. In questo senso è una buona notizia: non è una guerra senza chiaroscuri e senza speranze, come ce l’hanno venduta gli analisti e i crociati nostrani, ma una guerra che ancora possiamo prendere in mano, arginare, far finire, riportare alla ragione.
Non si tratta in realtà né di balcanizzare la Russia post-sovietica, né di giocare il finale di partita con la Cina, né di annettersi l’Ucraina per poi invadere l’Europa con o senza la NATO. Non si tratta della fine della storia e dell’ultimo uomo alla Fukuyama, ma della fine di un mondo quale con ottusità e violenza abbiamo costruito fino ad ora; è l’annuncio, come diceva padre Balducci della prima guerra del Golfo, del “declino, anzi della fine dell’età moderna così come cominciò cinquecento anni fa col genocidio degli Indios nel lontano Occidente”. La fine dell’età moderna era per lui “la fine dell’età dell’egemonia mondiale euro-atlantica”, cioè di quel sistema di legge e di mercato, a cui ormai è approdata anche la Russia di Putin, “che ha reciso nella coscienza profonda dei popoli del Sud la speranza di una conquista pacifica del diritto a prendersi in mano la propria storia”. Sono i popoli che all’ONU si sono rifiutati di votare per la guerra tra la Russia e l’Occidente, gli 82 Paesi che se ne sono dissociati, tra cui c’è tutta l’Asia, a parte il Giappone, e gran parte dell’Africa, dell’America Latina, del Medio Oriente, una parte preponderante cioè della popolazione della Terra, che la vorrebbe salvaguardare, conservare, difendere; è il vero mondo che non va umiliato ed escluso, come invece l’America atlantica vuole fare della Russia.
E allora è questo il vero cimento a cui siamo chiamati: chiudere la parentesi infausta che abbiamo aperto ripristinando la guerra con la guerra del Golfo, dissipando le straordinarie risorse che ci erano state offerte con la rimozione del Muro. Dobbiamo intraprendere invece la ricostruzione della storia quale avevamo cominciato a concepirla nel Novecento, a partire dalla Carta atlantica di Roosevelt e Churchill in piena guerra mondiale (niente a che fare col Patto atlantico) fino al pensiero politico nuovo di Gorbaciov; a partire dalla Dichiarazione di Nuova Delhi per “un mondo libero dalle armi nucleari e non violento” alla Carta di Abu Dhabi che attribuisce la pluralità delle religioni alla stessa volontà divina, dalle Costituzioni postbelliche all’ “uscita dal sistema di dominio e di guerra” dei convegni di Cortona, dal Concilio ecumenico Vaticano II alla “Fratres omnes” di papa Bergoglio. Questo è il futuro, al netto della Bomba.
Nel sito pubblichiamo un ricordo di Marina Graziosi, mancata martedì scorso a Roma, originale interprete della cultura del movimento delle donne e moglie del carissimo compagno nostro Luigi Ferrajoli: i funerali avranno luogo a Roma, venerdì prossimo alle 11:00, nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme. [Condoglianze e vicinanza al prof. Luigi Ferrajoli da parte della direzione e della Redazione di Aladinpensiero]. Pubblichiamo anche una lettera di Sergio Tanzarella per una riforma degli studi ispirata alla Teologia della pace e un appello della Rete dei Viandanti ai vescovi per un’indagine indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa.
Con i più cordiali saluti,

www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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di Raniero La Valle, su fb
Guerre preventive
PUTIN HA IMPARATO DA BUSH

La guerra in Ucraina non accenna a finire e sta provocando una regressione della cultura politica all’apologia della guerra e riportando la situazione mondiale alla lotta per il dominio.
Oggi non solo è riproposta la vecchia guerra che la geopolitica racconta come connaturata all’uomo e come strumento per rimodellare l’intero assetto mondiale, ma viene apertamente rivendicata e legittimata una nuova guerra che è la guerra preventiva; ciò fa venir meno perfino i vecchi travestimenti della “guerra giusta”, difensiva o “umanitaria” che fosse, mentre ne viene millantata la legittimità sulla base di asserzioni politiche del tutto opinabili.
Sulla Piazza Rossa il 9 maggio Putin per giustificare la sua guerra all’Ucraina ha detto che “la Russia ha reagito preventivamente contro l’aggressione”: si riferiva a un attacco della NATO “per un’invasione delle nostre terre storiche, compresa la Crimea; una minaccia per noi assolutamente inaccettabile, direttamente ai nostri confini… Il pericolo è cresciuto ogni giorno; il nostro – ha aggiunto – è stato un atto preventivo, una decisione necessaria e assolutamente giusta, la decisione di un Paese sovrano, forte, indipendente”, mentre gli Stati Uniti minacciavano esclusione e umiliazione.
Questa “prevenzione” è stata un crimine di diritto internazionale (non solo la guerra ma anche la minaccia dell’uso della forza è proibita dallo Statuto dell’ONU) ed è stata anche un gravissimo errore di Putin perché in tal modo ha adottato e legittimato la dottrina della guerra preventiva enunciata dal suo principale avversario, gli Stati Uniti d’America. Sono stati infatti gli Stati Uniti di Bush a teorizzarla nella “Strategia della sicurezza nazionale” del settembre 2002, un anno dopo la tragedia delle Torri Gemelle dell’11 settembre. In quel documento si affermava che “la migliore difesa è un buon attacco”. Una volta concepito il mondo come un composto formato da Stati per bene e “Stati canaglia” e minacciato dal terrorismo, la conseguenza era questa: “non possiamo lasciare che i nostri nemici sparino per primi”. Ciò poteva andare bene durante la guerra fredda quando “la deterrenza era una difesa effettiva”, mentre oggi, si affermava, una “deterrenza basata solo sull’attesa di una risposta non funzionerebbe”. D’altra parte, ricordava il Pentagono, “gli Stati Uniti hanno mantenuto sempre l’opzione dell’azione preventiva per fronteggiare una minaccia effettiva alla sicurezza nazionale. Maggiore è la minaccia… e più impellente la necessità di intraprendere un’azione anticipatoria in difesa di noi stessi, persino nell’incertezza del luogo e dell’ora dell’attacco da parte del nemico”. Né si trattava solo di difesa nazionale: la sicurezza nazionale degli Stati Uniti consisteva essenzialmente nel dominio del mondo per il quale si preconizzava un unico modello di società valido per tutti: “ libertà, democrazia, e libera impresa”. “Manterremo le forze sufficienti per difendere la libertà” prometteva il documento, e per dissuadere qualunque avversario dalla speranza non solo di superare, ma anche di “eguagliare il potere degli Stati Uniti”. Questa era anche la ragione per disseminare “basi e stazioni all’interno e aldilà dell’Europa dell’Ovest e dell’Asia del Nord”, cioè in tutto il mondo.
Questa proiezione militare mondiale non riguardava peraltro solo gli Stati Uniti, ma era estesa agli “alleati ed amici in Canada e in Europa”; la NATO a sua volta doveva “essere in grado di agire ovunque gli interessi americani (“i nostri interessi”) fossero minacciati, “creando coalizioni sotto il mandato della stessa NATO, così come contribuendo a coalizioni sulla base di singole missioni”. Infatti la NATO, agendo come un potere sovrano, aveva pochi anni prima fatto una guerra preventiva contro la Jugoslavia per la separazione del Kosovo. E se tutto ciò era stabilito quando, venuta meno l’Unione Sovietica gli Stati Uniti erano passati “da una situazione di contrapposizione a un regime di cooperazione con la Russia” tanto più deve valere oggi quando la Russia è tornata ad essere percepita come nemico e insieme alla Cina viene annoverata tra le “potenze revisioniste” volte a mutare a loro favore gli equilibri internazionali; la strategia della sicurezza nazionale pubblicata nel 2018, sotto l’amministrazione Trump, contemplava pertanto “forze armate più letali” e dichiarava che gli Stati Uniti avrebbero fronteggiato le sfide alla propria sicurezza “al fianco, con e per mezzo dei propri alleati e dell’Unione Europea”.
È in questo quadro che si pone l’estensione della NATO ad est, e l’annunciata acquisizione ad essa dell’Ucraina prima, della Finlandia e della Svezia ora. Secondo la previsione di “Limes”, “se l’America vincerà questa semifinale sbarazzandosi di Putin – fors’anche della Russia – potrà concentrarsi sulla partita del secolo contro la Cina privata dello scudo russo , circondata per terra e per mare”. Si è creata quindi una reciprocità di guerre preventive a cui tuttavia non partecipa ancora la Cina che, secondo Hu Chunchun, professore dell’università di Shangai che ne scrive su “Limes”, afferma “il primato della pace e dell’armonia”.
Questo è il futuro che ci viene prospettato, Ma noi possiamo accettare questo? Possiamo accettare che la guerra accada non per un artificio della nostra cultura ancora così primitiva, ma per una necessità di natura? Possiamo rinunciare al ripudio della guerra? Possiamo adattarci a un mondo dove, come dicono i cinesi, l’Europa (e potrebbero dire l’America) obbedisce alla pulsione che la spinge a volere un solo vincitore definitivo e despota del mondo intero, mentre proprio l’Europa “in questo esatto momento” dovrebbe assumersi la responsabilità storica della pace nel mondo”? Possiamo desiderare un mondo senza la Russia e in lotta contro la Cina? Se non lo vogliamo dobbiamo immaginare e lottare per un progetto alternativo.
(da “Il fatto quotidiano” del 24 maggio)
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matteo-zuppiDavide Ferrari è con Raniero La Valle su fb

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Papa Francesco ha nominato il Card. Matteo Maria Zuppi, Arcivescovo di Bologna, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana.
Nella mattinata di martedì 24 maggio, i Vescovi riuniti in Assemblea Generale hanno proceduto all’elezione della terna per la nomina del Presidente e come previsto Zuppi è stato il più votato nella terna nella quale Papa Francesco ha scelto.
Matteo Maria Zuppi e’ nato a Roma nel ’55, nel 1973, al liceo Virgilio, conosce Andrea Riccardi, il fondatore di Sant’Egidio. “Vicino a casa c’era la fermata di un tram – racconta l’arcivescovo – potevo scegliere se frequentare i salotti del centro o aiutare i bambini del doposcuola in periferia. Riccardi mi convinse a prendere la direzione della periferia.
Frequentare la Comunità e dedicarsi attività al servizio degli ultimi nelle scuole popolari per i bambini emarginati nelle iniziative per anziani e non autosufficienti, per gli immigrati e i senza tetto, è stato probabilmente il percorso formativo fondamentale per Zuppi.
Ma Sant’Egidio compie un salto di qualità di grande rilevanza identificando le vittime delle guerre come gli ultimi della terra ed impegnandosi per far terminare i conflitti e costruire la pace.
La collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio nel 1990, lo porta con Andrea Riccardi, Jaime Pedro Gonçalves e Mario Raffaelli a tentare con successo una mediazione nelle trattative tra il governo del Mozambico e il partito di Resistência Nacional Moçambicana. La sanguinosa guerra civile che durava dal 1975 si spegne. Dopo 27 mesi di trattative si arriva alla firma degli accordi di pace di Roma. Zuppi e Riccardi vengono nominati cittadini onorari del Mozambico e questo capolavoro di pacifismo operoso rimane nella storia. Dal 2000 al 2012 e’ assistente ecclesiastico generale della Comunità di Sant’Egidio.
Dopo una intensa vita di parroco a Roma, dove diviene Vescovo il 27 ottobre 2015, Papa Francesco lo nomina alla sede metropolitana di Bologna e il 5 ottobre 2019 lo crea Cardinale.
Per l’arcidiocesi petroniana si apre una nuova fase tutta improntata sulla presenza discreta ma autorevolissima di tutti i luoghi della solidarietà. Il primo Maggio 2016 sale sul palco della festa dei lavoratori. Non era mai successo. L’anno dopo presenta “Insieme per il lavoro” un progetto che mette in rete il comune di Bologna, la curia, la città metropolitana e le diverse associazioni di categoria con l’obiettivo di contrastare la disoccupazione. “Non ci preoccupiamo di camminare con le scarpe rotte – dice Zuppi – la nostra volontà è che nessuno vada in giro scalzo”.
Dopo i lunghi anni di reazione seguiti alla straordinaria ma anche dirompente stagione del Cardinal Lercaro, Bologna ritrova un Vescovo fra la gente e teso al fare più che al condannare.
Sant’Egidio diffonde sui social le sue parole di fronte alla guerra in Ucraina.”Io resto affezionato alla parola disarmo. Quelli che hanno vissuto la guerra sanno cosa significa l’arma. Sanno cosa provoca, le lacrime che provoca. È questo a cui bisogna pensare. Il bene e il male. E a quel male che può portare alla distruzione totale. Sembrerebbe logico, è logico. Dobbiamo pensare al disarmo, cominciando da noi. Noi stessi siamo armati, anche senza avere armi”.
Zuppi appare a Bologna, subito un figura molto diversa dal tradizionalismo di Caffarra.
Tuttavia una diversità, certo una specificità, di Don Matteo viene in evidenza anche di fronte alle figure nobilissime della vicenda lercariana.
Meno teorico, forse piu’ diretto, con una grande capacità di accettare e farsi accettare. La città e cambiata, i fili della consapevolezza ideologica sono tagliati da tempo.
Zuppi non cerca di riannodarli, ma di dare il senso di una Chiesa che cammina, con modestia ma anche con rinnovata convinzione.
Il modo di essere sacerdote di Don Matteo ricorda, ad un protestante come me attaccato innanzitutto al testo evangelico, la parabola del grano e del loglio.
L’uomo, la donna di Dio, non dividono subito le due piante, l’utile e l’infestante.
Far crescere, non correre a condannare.
Questa forse la missione più urgente.
Saranno questi i caratteri che consentiranno al nuovo Presidente della Cei di lasciare un’orma nella Chiesa cattolica italiana? Che lo aiuteranno a supportare con intelligenza un Papa che ha bandito ogni ambigua prudenza?
Probabilmente per il Cardinale le prove non si faranno attendere.
Davide Ferrari
Bozza di un testo scritto per il giornale STRISCIAROSSA
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