Ricordando. Il mio amico Pietro Puddu
Pietro non era crepuscolare
di Gianni Loy
Anni fa, Serge Latouche, a Cagliari in occasione di un seminario, mi confidò che dalle sue parti, in Bretagna, per poter diventare amici occorre aver consumato assieme almeno un chilo di sale. L’informazione mi terrorizzò, al momento, perché avrei dovuto fargli compagnia per l’intero fine settimana; mi chiedevo se sarei stato in grado di mantenere con lui una conversazione adeguata e incominciavo la conta alla rovescia del momento della sua partenza. Ed invece, tra una passeggiata sulla spiaggia di Chia e le lusinghe di un isolato ristorante invernale, lungo la litoranea di capo Teulada, il bretone incominciò a confidarsi, sino a confessarmi con quale stato d’animo si avvicinava al momento della pensione e a confrontarsi sui progetti che andava maturando per il futuro.
Finì che, per godere ancora della compagnia di quel vecchio bretone introverso e diffidente alla fine avrei sabotato l’aereo che l’avrebbe dovuto riportar via.
Che dire di Pietro, con il quale, nell’attraversamento di due secoli, ho condiviso appena pochi grammi di sale. Eppure non ho mai dubitato del fatto che amici siamo stati, seppure nei ritagli del tempo, e che amici ancora saremo. Il vantaggio ora è mio, visto che non potrà smentirmi.
Un’amicizia consumata prima nelle adiacenze del suo posto di lavoro e, poi, lungo i viottoli della Marina e di Casteddu ‘e susu. [segue]
Pochi grammi per volta, dedicati a spiare le sensazioni di chi, dopo aver restituito le chiavi dell’ufficio, trascorreva la giornata cercando di abituarsi ai nuovi orari e ad interrogarsi sul futuro.
L’amicizia, per noi crepuscolari, è una sensazione semplice: è quando percepisci che l’amico indugia, che non ha fretta; quando ti accorgi che anch’egli spera che tu possa trattenerti a divagare con lui, e tu lo puoi, perché avverti una sensazione che ti contenta. Quale che sia l’argomento, l’importante è che lo stare assieme sia piacevole: tanto ti basta. Il fatto che Pietro, probabilmente, non fosse crepuscolare, ha poca importanza.
Ma, prima, devo ricordare che non mi è stato mentore solo perché vincevo di qualche anno i miei amici del movimento, che a quel tempo scrutavano l’orizzonte dalla spiaggia in attesa della Pentecoste, salvo poi dover constatare che dal mare – ahinoi – sarebbero arrivati, inaspettati, anche gli tsunami.
Fingevamo di essere alla pari, forse sarebbe piaciuto ad entrambi. Ma non era proprio così. Percepivo che la sua esperienza era più lunga e diversa dalla mia. Ci son cose che si intuiscono, altre che si comprendono col tempo, alcune non le comprenderemo mai, neppure dopo aver consumato chili di sale. Occorre sapersi rassegnare, occorre “saper morire, un poco, ogni giorno, come le cose”.
No. Pietro non era un crepuscolare, sebbene tante passioni abbia visto sfogliarsi, a poco a poco, per ogni cosa che se ne andava.
La sua apparente rassegnazione, la pacatezza esteriore, camuffavano l’inquietudine che covava dentro, l’impazienza, l’ansia, forse persino l’ardire di volersi liberare da quel guscio – la condizione umana – che ci è stato imposto a confine della libertà. Un dono e un limite allo stesso tempo, perché fissa quei “certi deniaque fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum”*.
No. Pietro non è un crepuscolare. Ama contemplare le lunghe ombre della sera, è vero, ma solo per concedere riposo allo spirito guerriero che gli rugge dentro.
Come abbia accompagnato il crepuscolo, il suo ed il nostro, davvero non lo so. La vanagloria insita nelle cose del mondo si affievolisce, la passione si fa diafana. Quando le ombre si allungano, quando ci assale l’unica, genuina, nostalgia, quella che si affaccia sul futuro, allora il ritmo innato della poesia si impadronisce del tempo, sopraffà le faccende quotidiane; quella poesia che si affacciava timidamente nelle nostre conversazioni, ma che era il sale della nostra povera amicizia.
No. Pietro non avrebbe potuto essere un crepuscolare. Oltretutto, gli difettava l’età.
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* Est modus in rebus. – Nota sentenza di Orazio, cui fa seguito (Satire I, 1, vv. 106-107) sunt certi denique fines, Quos ultra citraque nequit consistere rectum «v’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto». È spesso ripetuta per esprimere la necessità di una saggia moderazione e per richiamare al senso della misura. [Vocabolario Treccani]
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Nell’illustrazione: L’effigie della Temperanza di Piero Benci, raffigurante una donna che mescola l’acqua calda e fredda.
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