Che fare?
Il noi mancante e la domanda di politica
di Filippo Barbera, su Volerelaluna
Il sociologo americano Erik Klinenberg in Palaces for the people. How social infrastructure can help fight inequality, polarization and the declin of civic life (Penguin Random House, 2018) sostiene che il futuro delle società democratiche si costruisce non solo, o non tanto, in base a valori comuni, quanto a partire dalla presenza di spazi condivisi. Biblioteche, centri per l’infanzia, librerie, chiese, moschee, sinagoghe, fablab, spazi di coworking, cooperative di comunità e parchi possono costituire contesti in cui le persone interagiscono in modi che hanno conseguenze dirimenti per la qualità democratica della società e, quindi, della politica che questa riesce a esprimere. Sono spazi, questi, in cui le persone si riuniscono per soddisfare contemporaneamente – tramite azioni pratiche – un obiettivo privato e un progetto pubblico. Klinenberg definisce questi luoghi come tasselli cruciali per la nascita e la crescita della “infrastruttura sociale” delle società.
Quando tale infrastruttura è robusta, la qualità democratica delle società è ben salvaguardata; quando è debole, gli individui perdono la capacità di aspirare collettivamente a un progetto comune. La filosofa analitica Margaret Gilbert ne Il noi collettivo (Cortina, 2015) avverte che senza un progetto congiunto non può esistere un attore plurale: senza un orientamento collettivo a un futuro condiviso, cioè senza un impegno comune, non c’è un vero noi, ma solo una somma di “io”. E da una somma di “io”, come dai diamanti, non nasce niente. La classe dirigente della sinistra italiana – con poche eccezioni – si è dimenticata che senza un “noi” orientato al futuro in modo aperto e inclusivo vengono a mancare le basi sociali della democrazia e, di conseguenza, i presupposti per la costruzione di una domanda di politica e, a fortiori, di una domanda di sinistra. Non ogni tipo di società è ugualmente adatta a esprimere una domanda di politica (e un orientamento di sinistra), così come non lo è ogni tipo di organizzazione dell’economia.
Questi temi sono stati dimenticati a favore dell’idea che il controllo – effimero – dell’opinione pubblica sarebbe stato un elemento sufficiente per guidare un’azione politica progressista. Ma l’opinione pubblica non esaurisce la rilevanza della sfera pubblica, dei suoi spazi vivi, dei suoi luoghi concreti, delle sue ramificazioni territoriali. E della loro insostituibile capacità – come evocato in apertura dal richiamo al libro di Klinenberg – di generare progetti comuni e orientati al futuro.
Oggi, ciò che è drammaticamente assente – e che dovrebbe informare le strategie politiche di una classe dirigente di sinistra all’altezza dei tempi – è proprio la diffusa e pervasiva mancanza di meccanismi di costruzione del “noi”, oggi alle corde a favore di un “noi” nativista e impaurito che lascia spazio solo a ripiegamenti sulla propria individualità disperata, facile preda di una politica della nostalgia. Osservazione, questa, corroborata anche dalla ricerca di Bertuzzi, Caciagli e Caruso (Popolo chi? Ediesse, 2019) svolta su un campione di residenti nei quartieri periferici di alcune medio-grandi città italiane. In questo lavoro si legge infatti che il sentimento secondo il quale io partecipo di una condizione comune a quella di altri, cooperando e lottando per cambiarla, sembra ormai assente. Non si individuano né le possibilità, né gli strumenti per farlo. Un vero e proprio “noi mancante”, incapace di costituirsi come soggetto plurale, base sociale per una politica della speranza collettiva. Ciò che è urgente ricostruire è, come la definisce l’antropologo Arjun Appadurai, la capacità di aspirare a un futuro comune dove i bisogni individuali si intrecciano senza soluzione di continuità a concezioni del buon vivere, a modelli di società e a dimensioni collettive. Un “noi” siffatto non può non essere prioritario, oggi, per la classe dirigente che ha ereditato una delle più gloriose tradizioni politiche della sinistra europea.
Un “noi” di questo tipo richiede la presenza di opportunità quotidiane per sperimentarsi come persone in ruoli di cittadinanza, di spazi e luoghi for the people. Ci sentiamo parte di qualcosa di collettivo solo se, in uno spazio dedicato, ci mettiamo alla prova come cittadini. Solo se esistono luoghi terzi dove i problemi e i bisogni individuali qui e ora diventano soluzioni collettive proiettate nel futuro. In quali occasioni, oggi, abbiamo questa possibilità? Quante “opportunità di cittadinanza” ci offre lo spazio pubblico? Quanto spesso abbiamo occasione di sperimentarci, insieme ad altri, in azioni pratiche dove i nostri bisogni trovano soluzioni che chiamano in causa gli assetti sociali più generali? Dove, cioè, un legittimo problema privato – occupazionale, di abitazione, di salute, di qualità della vita – si traduce in una soluzione futura che coinvolge idee, valori e meccanismi di funzionamento collettivi? Pensiamoci: quante volte nell’ultima settimana siamo concretamente stati dei cittadini?
La battaglia per difendere e costruire tali spazi – dalle piccole biblioteche di quartiere aperte fino a sera, ai community center, agli spazi per la gestione dei beni comuni – permettono alle persone di vivere i tempi e gli eventi del “mio”, dell’acquisizione di comfort nella “mia” casa, della salute “mia”, della crescita dei “miei” figli, vivendo nel contempo i tempi e gli eventi della “adesione al noi”. Anche l’apparentemente prosaico atto di fruizione di un bosco, di un giardino o di un cortile in modo condiviso acquista valore simbolico e stabilisce un nesso emotivo-cognitivo con l’ideale della solidarietà collettiva. La battaglia del Labour di Jeremy Corbin per “altri modelli di proprietà” e per “un’economia della vita quotidiana” o la prospettiva dell’economia fondamentale (Economia fondamentale, Einaudi, 2019) trova anche qui la sua ragion d’essere.
Con l’erosione dei pilastri della cittadinanza industriale e con la crisi del capitalismo organizzato non sono venuti meno solo o tanto i corpi intermedi, ma sono venuti a mancare soprattutto i luoghi intermedi, gli spazi della socievolezza quotidiana dove bisogni privati e progetti pubblici si intrecciano senza soluzione di continuità. La sfera privata del consumo e della riproduzione si è schiacciata sulla competizione di status, il cui valore sociale, al di là di quello strumentale, è la distanza guadagnata rispetto agli altri. I vissuti di successo sono gravidi di mitemi che rimandano alle capacità personali, del tutto sganciate dalla collettività di appartenenza rispetto cui non sente alcuna gratitudine e responsabilità. I fallimenti e le deprivazioni sono, al contrario, vissute con rabbia e frustrazione. Donne e uomini che vivono la loro individualità in negativo, come impossibilità di essere riconosciuti come persone e perciò esposti a crisi di autostima, perdita di capacità di aspirare e di inserire “il futuro nel quotidiano” (Il futuro nel quotidiano, a cura di O. de Leonardis e M. Deriu, Egea, 2012). La dicotomia secca vincente-perdente fornisce il criterio sociale di classificazione predominante e la regola di “riconoscimento” è quella sprezzante del winners-take-all. Quale domanda di politica può nascere da una società con una sfera pubblica di questo tipo? Quale rilevanza può avere l’opinione pubblica se gli spazi e i meccanismi di formazione del “noi” sono ridotti a narrative centrate sulle qualità individuali o sulla loro mancanza?
La priorità per una classe dirigente all’altezza dei tempi dovrebbe essere questa. Impegnarsi per ricostruire spazi, luoghi e modalità per sperimentare in modo pratico la capacità di aspirare a un futuro condiviso. Luoghi intermedi, una volta tipici delle fabbriche e della solidarietà di classe, oggi diffusi e radicati nei territori, dalle periferie alle aree interne, nei luoghi dello sfruttamento e in quelli dell’innovazione sociale, dalle nuove forme associative a ciò che resta di quelle tradizionali, ma anche nei luoghi della produzione della riproduzione. Luoghi intermedi capaci di intercettare la domanda di cittadinanza e il policentrismo territoriale, normativo ed esperienziale, caratterizzato da bisogni in parte simili e in parte unici. Un lavoro lungo e faticoso di costruzione politica e istituzionale che non si risolve con una cena tra amici, i cui effetti benefici si potranno vedere solo nel tempo e che, se mai ci saranno, potranno in futuro costituire le basi sociali per una nuova domanda di politica.
Basi che, per essere generative di una domanda di politica emancipativa e di sinistra (F. Barca, Diseguaglianze, Conflitto, Sviluppo, Donzelli, 2021), dovrebbero nascere vicino a conflitti sociali ed economici, a ridosso di controversie sull’uso degli spazi e delle risorse, intorno ad asimmetrie di potere tra “chi ha” e “chi non ha”, vicino alle persone e nei luoghi di vita, lavoro e consumo, accanto alla possibili relazioni tra diritti economici e civili. Tessendo reti di significati tra bisogni quotidiani e soluzioni collettive. Senza però invocare valori pre-costituiti, le cui condizioni di efficacia richiedono condizioni strutturali e organizzative lontanissime dagli assetti socio-politici in cui siamo oggi immersi.
Bibliografia
Collettivo per l’economia fondamentale, Economia fondamentale, Einaudi, 2019
E. Klinenberg, Costruzioni per le persone, Ledizioni, 2019
K. Rawhorth, L’economia della ciambella, Edizioni Ambiente, 2017
È il testo della lezione svolta il 3 febbraio 2022 a Torino nel liceo Gioberti occupato.
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Sulla strada
di Giulio Marcon, su Sbilanciamoci
12 Febbraio 2022 | Sezione: Editoriale, Società
In un momento in cui la transizione ecologica rappresenta una sfida immensa per il lavoro e le produzioni del passato, il dialogo tra ambientalisti e lavoratori è assolutamente fondamentale. E anche l’associazionismo e il terzo settore hanno bisogno di passare dalla verticalità all’orizzontalità, dal professionismo progettante a pratiche dal basso effettivamente partecipate.
Nei mesi preparatori la conferenza d’organizzazione della CGIL, il segretario generale Maurizio Landini ha evocato in più di una occasione la necessità di un “sindacato di strada”. Nell’era della frammentazione e della precarizzazione del mercato del lavoro, una visione verticale e per categorie dell’organizzazione sindacale non funziona più. E’ necessario – e rapidamente – tornare ad una dimensione orizzontale e confederale, si potrebbe dire. In sostanza andrebbe riscoperta la natura sociale e territoriale delle camere del lavoro, o dei lavori, come luogo di organizzazione della mobilitazione e della conflittualità sociale, in cui includere anche soggetti diversi: gli studenti, gli ambientalisti, gli attivisti sociali.
Includere significa fare delle cose insieme e più semplicemente ospitare nei luoghi del sindacato queste organizzazioni o – come hanno fatto alcune categorie in Germania – cooptare come osservatori indipendenti negli organismi sindacali anche rappresentanti delle associazioni ambientaliste. In un momento in cui la transizione ecologica rappresenta una sfida immensa per il lavoro e le produzioni del passato, il dialogo tra ambientalisti e lavoratori è assolutamente fondamentale. Senza questo salto, il sindacato rischia di diventare un’organizzazione di pensionati, di dipendenti pubblici e di poche grandi categorie produttive. In un paese in cui oltre il 95% del nostro tessuto produttivo è di piccole e piccolissime imprese e il lavoro parcellizzato, autonomo e precario arriva alla soglia del 40%, partire dai luoghi di lavoro non è efficace più tanto come una volta; una gran parte di lavoratori non li raggiungi. C’è parecchio cammino da fare, e forse non è neanche veramente cominciato.
Tornare sulla strada è un invito che vale anche per l’associazionismo (quello più organizzato e grande), e non solo per il sindacato. Anche il mondo del terzo settore ha subito nel corso degli anni una involuzione burocratica, corporativa e autoreferenziale, all’insegna di progetti spesso studiati e realizzati a tavolino. Questo ha trasformato – anche in questo mondo – i cittadini in utenti e beneficiari dentro una retorica e un professionismo della partecipazione spesso calata dall’alto, o veicolata dai social.
Anche l’associazionismo ed il terzo settore hanno bisogno di passare dalla verticalità all’orizzontalità, dal professionismo progettante a pratiche dal basso ed effettivamente partecipate. Hanno bisogno di tornare a confrontarsi con l’organizzazione attiva dei cittadini, con i conflitti, con il rammendo di un tessuto sociale che in questi anni è stato devastato. Va ricordato che gran parte del mondo del terzo settore è fatto di piccoli gruppi, composti solo da volontari: si tratta di una realta molto parcellizzata, che non si fa soggettività politica e non ha rappresentanza generale.
Sindacato e associazionismo si trovano dunque a fonteggiare sfide analoghe nell’epoca della disintermediazione e delle sirene del corporativismo e dell’autoreferenzialità: tornare ad essere soggetti capaci di rappresentare l’interesse collettivo e il bene comune di lavoratori e cittadini ammaliati dalla scorciatoia del populismo e di un tornaconto individuale e di corporazione.
Tornare sulla strada è il modo con il quale si riacquista la legittimità in nome della quale si può aspirare ad essere soggetti del cambiamento.
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