MEDIAMORFOSI potere poteri e società dell’informazione
Potere poteri
e società dell’informazione/1
di Vincenzo Vita su Rocca*
Il sociologo e filosofo francese Pierre Bourdieau (2010) scrive che «il campo del potere» è lo spazio al di sopra e al di là dei campi specifici e sul quale agiscono le forze che muovono per influenzare le interrelazioni fra i vari campi.
Lo studioso tedesco di scienze politiche Thomas Meyer (2003) parla di «mediatizzazione» della politica, introducendo – senza forse immaginare le conseguenze della sua premonizione – una categoria di analisi quanto mai pertinente per descrivere la situazione odierna. È importante introdurre riferimenti generali e «nominare» bene le diverse questioni. Riflettere oggi, infatti, sul nesso dialettico politica-comunicazione è ben diverso rispetto ad altre fasi della comunicazione.
Lasciamo stare la preistoria, segnata dalla transizione dall’oralità alla scrittura. Ma come sarà stata grave la lotta, senza vie di uscita.
Si potrebbe cominciare per comodità dall’età della Galassia Gutenberg, quando i caratteri a stampa limitarono radicalmente il ruolo dei monaci; per arrivare con un balzo veloce all’avvento delle trasmissioni circolari con il tubo catodico e le onde hertziane.
media and politics dai media ai mass media
Anzi. Proprio nella stagione della radio e della televisione raggiunse la sua epifania il tema media and politics. Il sistema informativo, infatti, era pesantemente entrato nei riti e negli usi del consumo di massa, scrollandosi di dosso il suo sapore elitario. Dall’aristocrazia si passava direttamente alla piccola borghesia. In verità, l’ascesa del peso dei media, divenuti mass media, fu facilitato da due fenomeni tra di loro pur assai distanti: per un verso il grande peso assegnato alla radio da Roosevelt per lanciare il New Deal, per un altro la spinta strumentale venuta dai regimi autoritari. Con una differenza sostanziale: negli Stati Uniti il desiderio riguardava l’incremento della spesa pubblicitaria in funzione anticiclica; in Europa fascismo e nazismo si impossessarono di strumenti ritenuti adatti alla propaganda.
Una delle teorie sugli effetti dei media, rovello che ha sempre impegnato la communication research, fu non per caso quella cosiddetta ipodermica, coniata dal suo fondatore Harold Lasswell. Come con una puntura il messaggio entra sotto la pelle. La teoria degli anni quaranta del secolo scorso si attagliava agli stati d’eccezione, ma ne ritroveremo tracce – ad esempio- nella stagione dei videomessaggi di Silvio Berlusconi o del vessillifero Emilio Fede.
La medesima impostazione fu corretta (e sminuita), dalle ricerche dello statunitense Paul Lazarsfeld, mentre una compiuta diagnosi degli usi e gratificazioni dei cittadini-utenti fu offerta dai cultural studies nati e cresciuti negli anni sessanta in Gran Bretagna su impulso di Stuart Hall. Alla base degli studi culturali si ha l’encoding/ decoding model. Hall individua tre tipi di decodifica: dominante (corrispondente al punto di vista egemone), oppositiva (frutto di un’opposta visione del mondo), negoziale (compromesso attraverso il conflitto). Come si vede, la comunicazione diviene un rapporto negoziale, attraversato da lotte ed asperità.
l’agenda setting
Saranno gli approcci dell’agenda setting e dell’agenda building (secondo gli studi del compianto Mauro Wolf) a meglio chiarire il punto: la comunicazione (classica) non influisce in modo diretto sugli orientamenti delle persone, bensì sulla costruzione del clima e delle priorità. Del resto, lo vediamo tuttora nei grandi quotidiani o nella televisione generalista: un tema sale e scende secondo opportunità extra-mediali. Pensiamo al terribile caso di scuola dell’Afghanistan, rimasto in testa alle notizie per un paio di settimane, e poi scomparso.
Naturalmente, stiamo parlando dei media analogici o di quelli digitali derivati a mo’ di copia conforme dai predecessori.
Il lungo periodo del dominio elettronico fa vivere gli alti e i bassi del nesso con la politica o, meglio, con il «campo del potere» definito da Bourdieau. Lottizzazioni partitiche (in primis alla Rai, ma non solo), sventagliata di editori «impuri», intrecci con associazioni non commendevoli connotano il percorso accidentato delle liaison dangereuse.
La riforma del servizio pubblico del 1975 (n. 103) servì da alibi per plasmare l’azienda «a canne d’organo», l’editoria sempre in affanno si posizionava nei pressi di governi e parlamenti, l’esplosione delle emittenti commerciali stravolgeva per un certo limitato numero di anni l’equilibrio, ma senza una vera normativa antitrust, perché la legge n. 223 del 1990 (ministro Oscar Mammì) tutto fu salvo che un’effettiva regolamentazione del settore.
la nuova avventura
tra comunicazione e politica
Peggio che mai, arrivarono nel 1984 i decreti legge chiamati Craxi (allora presidente del Consiglio) in favore delle reti di Silvio Berlusconi.
Lì cominciò la nuova avventura del rapporto con l’universo politico.
Un’opposizione spesso ignara e, comunque, flebile non riuscì a contrapporsi ad un andamento tanto forte da surdeterminare i lustri successivi. Neppure un
referendum tenutosi nel 1995 riuscì a frenare la resistibile ascesa del Cavaliere di Arcore. E neppure ne scalfì il successo la normativa degli anni novanta, di cui
ha la principale responsabilità il centrosinistra, fatta eccezione per la legge n. 28 del 2000 (par condicio) e – almeno nelle intenzioni – per la costituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) con la legge n. 249 del 1997.
Le destre, a cominciare dagli ex ministri Romani e Gasparri, spensero ogni speranza, legittimando definitivamente l’impero del biscione. E il Testo Unico per la
radiodiffusione del 2005 è ancora in vigore.
Proprio con la offensiva congiunta di Fininvest-Mediaset e Forza Italia il contesto cambia, fino a rovesciare l’ordine degli addendi: la comunicazione si fa politica e quest’ultima vive di comunicazione.
il berlusconismo come ibridazione
tra comunicazione e politica
Il berlusconismo non è solo e tanto un fenomeno limitato alla sfera politica, bensì
un modello di ibridazione tra i due livelli.
I videomessaggi superano l’intermediazione giornalistica e costruiscono la relazione tra l’uno e la moltitudine zche diventa
via via uno stile e un criterio. Con numerosi seguaci: da Matteo Renzi a Salvini.
Torna di attualità la stessa sopra citata teoria ipodermica. Ma, ciò che è più importante, avvenne una piccola significativa rivoluzione, capace di cambiare la sintassi del sistema. Lo stile di Berlusconi conquista progressivamente l’egemonia sul
e nel discorso pubblico. Che, per riprendere Meyer, si «mediatizza».
Ma, nel frattempo, sembra svanire la cornice della modernità, per entrare nel territorio ambiguo che il condirettore del Wesley
Media Center Jay David Bolter (2020) chiama «Plenitudine digitale», ovvero – secondo la sua descrizione – «un universo di prodotti (dai social media ai videogiochi, dalla
tv al cinema, e così via) e pratiche (la realizzazione di tutti questi prodotti insieme al
loro remix, condivisione e critica) tanto vasto
e vario che non può essere descritto come un
insieme coerente: la plenitudine accoglie facilmente, anzi ingloba, le forze contraddittorie della cultura alta e popolare, dei vecchi e
dei nuovi media, delle opinioni sociali conservatrici e radicali. I media digitali oggi forniscono un ambiente ideale per questa pienezza. Per la nostra cultura mediale flat in cui ci sono molti punti focali ma nessun singolo centro»…
La storia si prende la rivincita. Il gruppo di comando Fininvest-Mediaset, supportato dal centrodestra, aveva fatto carte false per accelerare l’ingresso su larga scala della decodifica numerica. E non si accorse che perdeva in tal modo la sua centralità, annegata e confusa nella plenitudine. digitale e post-modernità
In verità, l’ambiente digitale non è un mero salto tecnologico, bensì una antropologia culturale, forse il vero avvio della post-modernità. E se, nei vari passaggi, si è parlato (Fidler; Grusin e Bolter) di «Mediamorfosi» o di «Ri-mediazione» – i media non si cannibalizzano, bensì si trasformano – è probabilmente venuto il momento di assumere lo scenario di un cambiamento profondo.
Il digitale (incredibilmente pensato per anni come un aggettivo di televisione) è il linguaggio del capitalismo delle piattaforme
e, prima che sia soppiantato a sua volta dall’informatica quantica, è una sorta di latino-rum delle macchine. È una parola indebitamente legata all’inglese to digit, mentre più semplicemente evoca le dita delle mani e la conta. I nativi digitali ben conoscono la realtà, navigando già alla giovanissima età di 5/6 anni. Si pone, dunque, un clamoroso problema di alfabetizzazione. Perché non basta navigare: è indispensabile conoscere filosofia e funzionamento degli dei pagani che ci accompagnano per tre-quattro ore al giorno di media. Computer, smartphone, cellulari di nuova generazione, tv streaming sono entrati nella quotidianità, attraverso quella che Roger Silverstone ha chiamato domestication. La vittima designata è il palinsesto, mentre prevale il flusso on demand.
C’è un pericolo incombente che attiene alla democrazia effettiva: il pubblico subisce un digital e un cultural divide. Tra chi è in grado di accedere ai servizi a pagamento e chi si deve accontentare del vecchio video generalista con i suoi format antiquati e ripetitivi.
(continua)
Vincenzo Vita
MEDIA MORFOSI
ROCCA 15 GENNAIO 2022
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MEDIAMORFOSI
potere poteri e società dell’informazione/2
Vincenzo Vita
Il Piano di Rilancio e Resilienza (Pnrr)
destina al digitale (termine che ricorre 143 volte nel testo) cospicue cifre,
più di 40 miliardi di euro.
Gli algoritmi dominano le strutture di
calcolo, moltiplicandole all’infinito. Big
Data, Cloud, profilazione divengono le parole magiche.
I social superano le audience dell’electronic age e persino la loro capacità di reperimento delle risorse pubblicitarie.
Ecco, i social, malgrado siano spesso utilizzati secondo schemi televisivi, ovvero
come bacheche, hanno fatto irruzione nelle retoriche pubbliche. Non c’è esponente
politico che non utilizzi Facebook, o Twitter, o Instagram, o WhatsApp, o Tik Tok
per rapportarsi ai referenti sociali.
Un msg ti allunga la vita e ti connette a
una società sempre meno frequentata dal
vivo e poco conosciuta nei sommovimenti
profondi.
La politica è trasmigrata nelle recenti modalità di comunicazione. Spesso acriticamente, come se non fosse chiaro che ogni
click è un regalo incosciente agli oligarchi
della rete e che l’utilizzo massivo degli Over
The Top (da Apple, a Microsoft, a Google, a
Facebook, a Twitter, a Alibaba per estendere la visuale) accresce enormemente il nuovo Potere, quello delle Big Tech, i più ricchi
e finanziarizzati del reame.
[segue]
Eppure, le recenti formazioni politiche hanno costruito – in primis il Movimento 5Stelle, e non solo – la propria fortuna sulla
rete e sulla presunta democrazia digitale.
Sulla dittatura dell’istantaneità.
Dopo la prima età di Internet con la straordinaria invenzione del Www da parte del profetico Tim Berners-Lee, seguì l’istituzionalizzazione della rete, per arrivare alla terza età (cit. Barry Wellman) degli Internet studies.
E poi le ere geologiche non si contano.
Una costante è la scarsa cognizione di causa della politica, che non si accorse nel 1969 del primo dialogo a Los Angeles tra computer, e neppure del primo collegamento italiano della rete il 30 aprile del 1986 nella sede di Pisa dell’ex Centro nazionale universitario di calcolo elettronico del Cnr. Dei mitici e terribili anni Ottanta il dibattito politico tanti aspetti toccò, salvo l’imminente punto di catastrofe
nella e della saga delle tecnologie.
una sorveglianza di massa?
In quest’ultimo labirinto si è insinuata la
logica prepotente della sorveglianza di massa, descritta chiaramente dalla ormai
notissima docente della Harvard Business
School, Soshana Zuboff. Riconoscimenti
facciali, Internet delle cose, sensori disseminati ovunque.
Purtroppo, mentre è cambiato il mondo e
sono mutate le geografie e le frontiere del
villaggio globale (l’era del numerico non
ha né spazio né tempo), tra i poteri determinanti dello svolgimento della matassa
la politica è scesa di posizione. Con l’eccezione di gruppi isolati nei partiti o di figure illuminate come Stefano Rodotà, ideatore dell’Internet Governance Forum nel 2005 a Tunisi (nell’annuale sessione del
World Summit per la società dell’informazione) e del Documento redatto nella commissione speciale della Camera dei deputati Diritti e doveri relativi ad Internet.
lo spostamento del pendolo del potere
Chi conta davvero? Qual è il rapporto tra la sfera che continuiamo a chiamare politica e le tecniche? Per la prima volta, il
pendolo si è proprio spostato.
Le strategie sono in capo ai padroni della rete, capaci di conoscere assai meglio cittadine e cittadini, a partire dai desideri inconsci tracciati nel corso della giornata e rovesciati nei social, vetrine soggioganti di scelte e consumi. Il caso clamoroso di Cambridge Analytica e della profilazione delle persone ad uso elettorale scoppiò, tardivamente. Steve Bannon, stretto collaboratore di Donald Trump, è stato (giustamente) inquisito, ma è verosimilmente il capro espiatorio di un congegno di cui è stato solo un ingranaggio, mentre ha coinvolto una linea di congiunzione vasta e articolata. In verità, i social hanno due
vite: la superficie dedicata al narcisismo di attori politici perfetti interpreti della premonizione di Murray Edelman (1988)
sullo spettacolo della politica (l’altra faccia della politica-spettacolo di Debord); la cantina dark dove si contrattano e smerciano dati ed identità: al minimo per obiettivi commerciali, ma nei gradini superiori per ben altro.
In simili tornanti il dio politico sembra morto. Altrove si discute, altrove si decide. Chi controlla gli algoritmi? Perché i
dati personali vengono espropriati?
Siamo, così appare almeno, all’apice di un processo che – come in una miscela tossica – ha assommato ignoranza e sottovalutazione, con maldestri tentativi di «occupare» i new media secondo i calchi precedenti.
Certamente, l’iniziativa dello Stato è cruciale: dal Cloud della pubblica amministrazione su cui è in atto una procedura di gara, alla vexata quaestio della rete di connessione in banda larga e ultralarga, buco nero di un’Italia seduta in materia sugli ultimi scranni in Europa. E il 5G, evocato con disinvoltura senza tenere in conto gli effetti sulla salute delle onde elettromagnetiche così moltiplicate, non può essere la panacea dei mali. Tuttavia, quest’ultimo caso dell’implementazione della rete dimostra al contrario la tesi della modesta rilevanza della politica ferma alla contemplazione del luccichio delle tecniche
nel veloce movimento futuristico: ancora non è chiaro ciò che intende fare il governo presieduto da Mario Draghi, malgrado un ministro del ramo come Vittorio Colao.
Nel frattempo, l’ex monopolista Tim-Telecom, in cui lavorano oltre 40.000 persone con un indotto di quasi 100.000, rischia di finire come l’Alitalia. Poco si capisce, poi, su ciò che accadrà nelle zone chiamate spiacevolmente «a fallimento di mercato».
Le parolacce del neo-liberismo.
E già, perché la politica sembra aver abdicato alla proposizione di strategie adeguate, come descritto – per citare un caso significativo – dall’opera di Mariana Mazzucato, dallo Stato innovatore in poi. Anzi. Proprio l’economista italoamericana ci invita a non sprecare la crisi insorta con il Covid. Non sarebbe un’occasione per cambiare? In fondo, nell’ultima riunione dell’Igf è emerso sì che ancora 3 miliardi di donne e di uomini non sono connessi, ma il numero è aumentato di 800 milioni durante la pandemia.
l’esigenza di pensieri lunghi e scelte forti
Smart working, smart cities, didattica a distanza meritano approfondimenti non transeunti, cercando di delineare comportamenti non effimeri, sorretti da visioni e
pensieri lunghi.
Naturalmente, la prolungata assenza di regole aggiornate e adatte allo scenario digitale ha comportato inaudite fioriture di storture, mischiate ad atteggiamenti criminosi: dalle fake news, alla violenza simbolica, all’odio diffuso. E, in termini complessivi, sono cresciute clamorosamente le concentrazioni.
Finalmente, qualcosa si muove. L’Autorità antitrust ha comminato una multa salata ad Amazon (1,12 miliardi di euro) per abuso di posizione dominante e Facebook è
inseguita da 48 Stati americani e dalla Federal Trade Commission. Pure Google non sta bene e Alibaba ha parecchi guai in Cina.
Passi in avanti sono intervenuti in Europa. Dopo il Regolamento del 2016 sulla privacy preso a riferimento anche negli
Usa, ecco che un raggio di luce viene dai Regolamenti Digital Services Act e Digital Markets Act ora in fase discendente, in attesa del «trilogo». Così come con il testo dello scorso aprile sull’Intelligenza Artificiale. O con le recenti direttive recepite pure dal nostro ordinamento.
Al riguardo, il governo italiano, supportato da un qualificato gruppo di lavoro, ha varato lo scorso 24 novembre il «Programma strategico» sull’Ia per il periodo 2022-2024. Sono sintomi, c’è da augurarsi, di un risveglio della politica.
Attorno al corpo a corpo tra umano e non umano si gioca una partita storica, nella quale servono creatività culturale e rinnovate culture giuridiche.
Cos’è l’Ia? È un surplus per chi ha e sa o è un’occasione per ampliare – con paletti rigorosi – l’ambito della conoscenza? Avremo maggiore circolazione di saperi e servizi o «robot killer»? Maggiore trasparenza, ovvero un incremento esponenziale degli hackeraggi cibernetici e della sorveglianza autoritaria? servirebbe una grande politica.
Insomma, se la politica non torna grande, non solo soccombe, ma si spegne travolta dall’astuto determinismo tecnologico. E le tecniche, senza una scienza democratica che le guidi e contenga, possono diventare pericolosissime. Ce l’hanno spiegato Norbert Wiener, Alan Turing o Marcello Cini.
Servono scelte forti e impegnative, secondo le linee che anticipò durante la campagna elettorale presidenziale la democratica statunitense Elizabeth Warren: vale a
dire l’urgenza di intervenire sulla proprietà, sul terribile diritto di proprietà. Se è vero che l’informazione e i dati sono – devono essere – beni comuni, può un singolo soggetto – vedi il caso abnorme di Mark Zuckerberg – avere nelle mani una metanazione che raccoglie 2 miliardi e 700.000 utenti? E non è, naturalmente, l’unico caso.
Nel 1982 le autorità scorporarono in sette società l’allora enorme concentrazione di At&T. Nacquero sette Baby Bells e ne beneficiarono il pluralismo e la concorrenza.
Se la politica intende risorgere nel campo dei poteri non può eludere il passaggio di civiltà che viviamo. Basti leggere il numero speciale della rivista Civiltà cattolica dedicato all’intelligenza artificiale e ci rendiamo conto che la riflessione dei credenti ha colto il punto, che tuttora sfugge all’ingiallita impostazione laica. Cui manca una visione meta-fisica, come è meta-fisica l’intelligenza artificiale.
L’etica manca alla politica. E senza l’etica di fronte ai mostri si perdono il corpo e l’anima.
(fine)
Vincenzo Vita
ROCCA 1 FEBBRAIO 2022
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*Vincenzo Vita
giornalista ed esperto di comunicazione, è stato parlamentare in più legislature e sottosegretario al Ministero per la Comunicazione. Fa parte dell’International Institute of Communications. Ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Sassari nel corso di laurea in Scienze della comunicazione e giornalismo. Dal 20 aprile del 2015 è presidente della Fondazione archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico
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