17 gennaio: Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico-cristiano
di Brunetto Salvarani, su Rocca 1/2022.
Da alcuni decenni, ormai, assistiamo a un boom d’interesse, in Italia, per l’ebraismo e la cultura ebraica nelle sue variopinte sfaccettature. Questo, si badi, a dispetto della scarsa presenza di ebrei nel nostro Paese (il loro numero non raggiungerebbe i trentamila, con appena ventuno comunità). I segnali spaziano dalla passione letteraria per l’epopea yiddish di I.B. Singer, quella mitteleuropea di J. Roth e quella israeliana del trio Oz-Yehoshua Grossman al successo delle performance teatrali di un Moni Ovadia e delle installazioni artistiche del compianto Lele Luzzati; fino alla celebrazione della Giornata della memoria il 27 gennaio dal 2001 e di quella per la valorizzazione del patrimonio ebraico, dal 2000. Potremmo dire che, oltre al debito verso il grande codice biblico, ci stiamo rendendo finalmente conto di come le radici profonde della nostra modernità affondino ampiamente nel pensiero e nella visione del mondo di Israele.
l’intuizione di Carlo Maria Martini
A fronte di tale scenario, ci si dovrebbe stupire constatando quanto ancora poco sia penetrata, nel tessuto delle nostre comunità cristiane, la dimensione del dialogo con gli ebrei e l’ebraismo cui pure esorta caldamente la dichiarazione conciliare Nostra aetate. Probabilmente, il motivo principale di tale difficoltà è che la provocazione di Israele alle chiese solo apparentemente riguarda un aspetto specifico delle chiese stesse, i loro rapporti con Israele. Se si va oltre le apparenze, infatti, dobbiamo riconoscere che essa mette in discussione tutta una modalità di essere Chiesa, la sua autocomprensione e persino la sua dimensione missionaria. E c’è chi ritiene, al riguardo, che la forma più sottile di antiebraismo persistente fra i cristiani sia il considerare l’area dei rapporti ebraico cristiani come un’area specialistica e limitata della fede cristiana. La riflessione, in realtà, ha un’enorme portata. Come intuì il cardinale Carlo Maria Martini, che quasi quarant’anni or sono, nel 1984 a Vallombrosa, si era spinto ad avvertire come, dopo il concilio, il tema delle relazioni ebraico-cristiane si sia fatto decisivo per il futuro della Chiesa: «La posta in gioco non è semplicemente la maggiore o minore continuazione vitale di un dialogo, bensì l’acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne deriveranno sul piano dottrinale, per la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della Chiesa e addirittura per la sua missione nel mondo d’oggi». Un passo lucidamente profetico, quello martiniano, su cui le parrocchie e le diocesi potrebbero utilmente meditare, in occasione della prossima Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico-cristiano, trentatreesima della serie, fissata come da moderna tradizione ecclesiale per il 17 gennaio.
la radice santa della fede cristiana
Per ragionare sul senso di tale Giornata, prendo le mosse da un ricordo personale.
Il mio primo 17 gennaio fu nel 1991, e ne conservo una memoria speciale perché – dovendo nell’occasione tenere una relazione per un’iniziativa a Reggio Emilia – attraversai la centralissima piazza Prampolini, dove m’imbattei in un sit-in pacifista di giovani che protestavano contro la ventilata Guerra del Golfo: che in effetti ebbe inizio, purtroppo, proprio quella notte. Così, sin da allora ai miei occhi le ragioni di un incontro indispensabile fra cristiani ed ebrei s’intrecciano con la centralità geopolitica della regione di cui fa parte Israele, e della necessità di una pace duratura con i palestinesi in Medio Oriente. A due anni prima risaliva la felice intuizione della Cei che, grazie soprattutto all’impegno del vescovo di Livorno Alberto Ablondi (scomparso nel 2010) e di Maria Vingiani, fondatrice del Sae (Segretariato Attività Ecumeniche), morta quasi centenaria esattamente due anni fa, in linea con il quarto paragrafo della
dichiarazione conciliare Nostra aetate chiamarono le chiese locali a vivere una Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico cristiano, appunto il 17 gennaio di ogni anno. Data scelta non a caso, ma per ragioni teologiche e simboliche: a ridosso della tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che si svolge dal 18 al 25 gennaio, con la doppia intenzione di evidenziare la priorità dell’incontro con Israele, radice santa della fede cristiana, su qualsiasi pur apprezzabile sforzo ecumenico, e l’impossibilità che quest’ultimo produca effetti concreti senza un costante invito a porsi alla scuola di Israele.
Affinché il dialogo cristiano-ebraico non sia un impegno solo di vertice nella chiesa, o di alcuni gruppi o movimenti più sensibilizzati, ma diventi coscienza ecclesiale di base. In vista di una fruttuosa celebrazione di essa, non andrebbe mai dimenticato che lo scopo della Giornata non è di pregare per gli ebrei, ma di iniziare i cristiani al rispetto, al dialogo e alla conoscenza della tradizione ebraica, in sintonia con la svolta, sopra citata, del Vaticano II. Sarebbe opportuno, pertanto, che diocesi e parrocchie promuovessero nell’occasione momenti di approfondimento lungo questi due filoni complementari: la riflessione sul vincolo particolare, anzi unico, che lega chiesa e Israele, da un lato; e l’esistenza viva e attuale del popolo ebraico, dall’altro.
17 gennaio 2022. «Realizzerò la mia buona promessa»
Per il prossimo 17 gennaio 2022, concluso il cammino sulle Dieci parole e quello sulle Meghillot (i Rotoli), la Commissione episcopale della Cei per l’ecumenismo e il dialogo ha pubblicato un messaggio intitolato «Realizzerò la mia buona promessa» (Geremia 29, 10), versetto particolarmente in sintonia con il tempo complesso che stiamo attraversando: si trova nel contesto della Lettera agli esiliati di Babilonia (29, 1-14).
Il profeta Geremia, qui, reinterpreta l’esilio vissuto dal popolo ebraico quasi si trattasse di un nuovo esodo, un nuovo inizio per la sua gente: Israele si trova in mezzo ai pagani, ben distante dalla terra della promessa, senza il tempio, ma è proprio in quella situazione drammatica dal punto di vista economico, sociale e religioso che potrà ritrovare il senso autentico della propria vocazione. Moltiplicarsi nella terra del nemico, mettere radici nella situazione e nel Paese in cui ci si trova a vivere, favorire la pace e la prosperità di tutti, anche di chi ci è stato nemico, ripartire dalle cose fondamentali e semplici della vita (lavoro, relazioni, casa, famiglia…), ecco la ricetta paradossale che Dio ora affida ai suoi. Beninteso, con una promessa per il futuro: chi sceglie di conservare tutto e resta attaccato a un passato glorioso ma trascorso, ascoltando la voce dei falsi profeti, rischia di perdere anche se stesso, mentre chi è disponibile a perdere ogni bene materiale riavrà i suoi giorni e anzi li conquisterà come bottino di guerra, dimostrandosi in tal modo il reale vincitore.
Geremia
Chi fu il profeta Geremia? È una buona occasione per conoscerlo meglio! Nato ad Anatot (villaggio a 6 km a nord di Gerusalemme) attorno al 650/640 a.C., era figlio di Chelkia e membro di una famiglia sacerdotale
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Marc Chagall Abramo e i tre angeli – 1966, Nizza, Musée National Marc Chagall
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che prestava servizio al tempio, e visse prevalentemente nella capitale di Giuda. Ancor giovane, fu nominato profeta nel tredicesimo anno del re Giosia, nel 627/626. Esercitò il suo compito prima nella sua cittadina natale, provocando l’ira di familiari e compaesani per il suo messaggio controcorrente, poi si spostò a Gerusalemme, profetando sotto il regno di Ioiakìm e di Sedecia. Di fronte a quest’ultimo, lo ammonì ripetutamente a non rivoltarsi contro Babilonia: la rivolta però scoppiò. Accusato dai ministri di corte di diserzione e passaggio al nemico, Geremia fu imprigionato in una cisterna, dove sarebbe dovuto morire di fame e di stenti. Sedecia, tuttavia, lo spostò in un carcere meno duro, dove poté ricevere del cibo, fino a quando fu rilasciato, dopo la definitiva caduta di Gerusalemme (587). I babilonesi lo liberarono dalla prigione affidandolo al loro governatore della regione, Godolia. Dopo l’assassinio di questi, molti ebrei fuggirono in Egitto, portando con loro lo stesso Geremia e il suo segretario, Baruc. Al di là delle rovine e catastrofi annunciate, il suo messaggio non può essere semplicemente ridotto a quello di un classico profeta di sventure. C’è, certo, da parte sua un’acuta coscienza del male, legato alla ribellione dell’uomo contro Dio: la sfiducia nell’umanità, tuttavia, è in lui bilanciata dalla speranza nel Signore che salva ed è fedele fino in fondo. Nonostante i rovesci del destino e della storia.
alcune piste di riflessione
In occasione della Giornata del 17 gennaio, mi permetto di suggerire alcune piste di riflessione. I deportati ai quali parla la Lettera di Geremia avevano sicuramente una duplice tentazione: perdere ogni speranza e costruire una comunità chiusa, distaccata. Nella pandemia, come credenti, abbiamo avuto le stesse tentazioni: perdere la speranza e chiuderci in comunità sempre più autoreferenziali. Le stesse tentazioni le proviamo di fronte alla situazione di esculturazione del fenomeno religioso (o, per lo meno, del cristianesimo): rischiamo di perdere la speranza e di creare comunità sempre più autoreferenziali. Geremia ci invita invece a stare positivamente dentro la realtà, a mettere radici, anche nella realtà ostile, e a starci in modo generativo. Ecco la sfida odierna per le religioni: uscire dal rischio della depressione e dell’autoreferenzialità difensiva per essere generative, capaci di lavorare per la costruzione della società e generare speranza. Come cristiani e come ebrei possiamo aiutarci ad affrontare tale sfida.
In seconda battuta, è interessante imparare da quei deportati, persone che avevano perso tutte le loro sicurezze legate alla madrepatria. A loro il Signore promette: «Cambierò in meglio la vostra sorte» (29, 14), testo che si può anche tradurre: «Comincerò nuovamente la vostra vita». Il Signore lavora per rigenerare, per far ricominciare. La sua promessa resta costante nella storia, Egli è fedele e non ha abbandonato il suo popolo. Oggi le nostre comunità ebraiche e cristiane hanno bisogno di vivere alla luce di questa certezza, così come Israele era, in esilio, chiamato a reinventarsi da capo stili di vita, codici comportamentali, linguaggi. Con coraggio, senza paura, accettando il rischio dell’incertezza: anche se il nuovo, in genere, fa paura e ci rende spaesati. Elie Wiesel, premio Nobel per la pace 1986, che ha conosciuto da vicino in prima persona l’abominio della Shoà, ha cercato così di spiegare il senso della lettera di Geremia per il popolo deportato: «Siccome siete nella Diaspora, fate qualcosa per darle significato. Altrimenti rischierete la disperazione, e la disperazione non ha posto nella storia ebraica». Ecco, allora: l’altro, il nemico, il babilonese, il nomade, lo straniero, il diverso è il migliore dei maestri possibili sulla scena; è colui che ci permette di capire chi siamo davvero; è colui che ci mette alla prova e in tal modo è capace di plasmarci. Fino a farci diventare donne e uomini nuovi.
Alla fine, il brano di Geremia ci ricorda che quei deportati si daranno da fare per una nazione straniera, lavorando e investendo energie. Come a evidenziare che colui che viene da fuori è sempre una potenziale risorsa per un Paese. Che lo straniero è una benedizione e che l’ospitalità, tema centrale nelle tradizioni ebraica e cristiana, può essere lo stile con cui i credenti stanno nella storia.
Oggi, la pandemia in atto ci sta costringendo a rivedere gli stili della nostra presenza sociale, in realtà largamente in crisi già ben prima di due anni fa. Una situazione che, in modo differente, tocca e interpella tanto gli ebrei quanto i cristiani. Quello di Geremia è dunque un testo che, se letto a due voci nella Giornata del 17 gennaio e più in generale valorizzato come punto di partenza per il confronto tra ebrei e cristiani, ci può aiutare a collocare la nostra esperienza di fede nella presente stagione: come ama sottolineare papa Francesco, un vero e proprio, e radicale, cambio d’epoca.
Brunetto Salvarani
IL POLIEDRO
ROCCA 1 GENNAIO 2022
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