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Basta buonismo! Che il PD si impicchi alla sua legge elettorale-truffa regionale!
12 Marzo 2018
Amsicora su Democraziaoggi.
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La sinistra se n’è andata da sé
«L’animo nostro informe». Un’Italia irriconoscibile. La sinistra del 2018 non è stata messa sotto da nessuno. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina
di Marco Revelli su il manifesto. (segue a fine pagina)
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Perché LeU ha fallito come tutta la sinistra
10 marzo 2018
di Luciana Castellina su il manifesto, ripreso da il
manifesto sardo.
L’articolo di Luciana Castellina apparso ieri su il manifesto. Una riflessione sulla crisi della democrazia dopo un voto che ha portato alla ribalta solo un’agorà popolata da individuali grida di scontento o di plauso improvvisato. Un vuoto che i movimenti non hanno saputo riempire.
Sono rimasta zitta fino ad ora per svariate ragioni: 1) perché non avevo voglia di parlare. Come, credo, tutti noi. E siccome non ho incarichi che mi obblighino a farlo, ne ho approfittato; 2) perché sono una vecchia abituata ai partiti, e per dire cosa bisognerebbe fare, aspetto di confrontarmi con la mia organizzazione, Sinistra italiana, che riunisce il suo Comitato Nazionale sabato prossimo; 3) perché – e questa è la ragione più importante – non so che dire.
Quanto è accaduto è andato troppo al di là delle pur negative aspettative che nutrivo, rafforzate dalla esperienza di campagna elettorale fatta in svariate regioni d’Italia.
Parlare, certo, bisogna. Ma vorrei che tutti evitassimo conclusioni frettolose. La crisi, non solo della sinistra ma della democrazia, è troppo profonda per non imporci una riflessione collettiva di lungo periodo. Dico crisi anche della democrazia perché se siamo arrivati a questo risultato è anche perché non c’è più quel tessuto politico-sociale che i grandi partiti di massa offrivano un tempo al confronto, e dunque ad una analisi del presente e a una costruzione collettiva del progetto da proporre.
Un vuoto che i movimenti, che pure hanno avuto ed hanno (quando ci sono, e non è sempre) un ruolo importante, non hanno saputo riempire con reti consolidate di riferimento.
Il solo voto, senza tutto questo, è troppo poco per far vivere la democrazia, porta alla ribalta solo un’agorà popolata da individuali grida di scontento o di plauso improvvisato. È facile dire che si è perduto il rapporto col territorio. Certo che si è perso, perché sul territorio non c’è più vita sociale e ricostruirla è oramai difficilissimo: la gente non ne vuole sapere; gli orari di lavoro non sono più omogenei come quando era naturale incontrarsi alle 7 di sera in sezione (il precariato ha prodotto anche questo guaio); non ci sono più le sedi; i socials, checché ne dicano i miei compagni giovani, non suppliscono, rischiano di diventare solo un noioso ammasso di sfoghi personali.(Ma come si fa a scegliere chi dove rappresentarci, senza aver avuto modo di verificare nel tempo e nel concreto le sue capacità e affidabilità?)
Fra le cose che non so, c’è anche questa: come si ricostruisce una cultura e una pratica collettiva, un rapporto con l’altro, un senso di responsabilità comune, visto che non si possono reinventare più i vecchi partiti e però non si può nemmeno fare a meno della funzione cui essi assolvevano. Quello che so, tuttavia, è almeno questo: che il problema non si può eludere.
Ce lo impone il fatto che viviamo in un tempo di terribili cambiamenti, che stanno già producendo e produrranno anche peggiori mutamenti al nostro modo di vivere e di lavorare, rispetto ai quali il nostro pensiero di sinistra è balbettante.
Non ci aiutano i progetti del passato (né quelli comunisti, né quelli socialdemocratici), ma nemmeno ne abbiamo altri, e solo dire che non siamo liberisti e bisogna combattere la disuguaglianza, è ben lungi dal bastare. Pensare che basti redistribuire più equamente gli stessi beni – obiettivo già impervio – non è più nemmeno sufficiente, occorre – di fronte al disastro ecologico e al mutamento del lavoro – fare assai di più: produrre in modo diverso beni diversi e indurre consumi diversi. Cioè cambiare anche gli esseri umani.
Direte che potevo fare anche a meno di scrivere se era solo per dire che tutto è difficilissimo e noi siano impreparati. L’ho fatto perché mi sento in dovere di un’autocritica. Questa: quando abbiamo dovuto decidere come affrontare queste elezioni io sono stata fra i più convinti sostenitori della proposta Liberi ed Uguali. Ritengo tuttora che non ci fosse alternativa migliore, nonostante i limiti dell’esperienza di cui tutti eravamo peraltro consapevoli.
E però io ho creduto veramente che il distacco dal Pd di un gruppo così consistente e qualificato della sua leadership, si potrebbe dire quasi tutta quella proveniente dal Pci, avrebbe scosso il vecchio corpo cresciuto se non più dentro quella organizzazione ormai sepolta da tempo, ma nella scia di quella cultura e tradizione. Che la rottura di Mdp, insomma, avrebbe portato allo scoperto la contraddizione ormai stridente fra un partito, il Pd, che si definisce di sinistra e però è da tempo espressione di un altro blocco sociale.
E che dunque un gesto così estremo come l’abbandono della “ditta” da parte, non di una frangia, ma di una così consistente parte della storia della sinistra, avrebbe suscitato riflessione, e rinnovata mobilitazione in una base ormai passivizzata. Mi sono sbagliata. Era ormai troppo, troppo tardi
. Quel corpo, quei compagni, tanti dei quali conosco bene per aver così a lungo condiviso con loro tante battaglie, quelli che, pur essendo sempre più scettici verso le ripetute reincarnazioni del Pci, continuavano tuttavia a dire “il partito”, quella storia si è oramai largamente consumata. I loro voti hanno lasciato il Pd, ma si sono perduti nella Lega, nei 5 stelle, nell’astensione, io credo senza entusiasmo, visto che non c’è nulla di consistente nelle promesse alimentate, ma per rabbia e confusione.
Adesso dobbiamo ricominciare da capo. Innanzitutto riprendendo a riflettere insieme, senza farci dominare dall’assillo dell’immediato. (Potremmo dire che, per fortuna, siamo così piccoli da non esser determinanti né nel bene né nel male, anche se nel PdUP dicevamo, giustamente, che, secondo l’insegnamento di Santa Teresa di Lissieux, bisognava comunque comportarsi come se tutto dipendesse da noi.)
Ragionando su come si ricostruisce una rappresentanza sociale, che non si recupera alzando il livello delle proposte, col “più uno” rivendicativo, ma costruendo un soggetto che sia in grado di imporle, un compito oggi reso impervio dalla frantumazione del lavoro, e dunque ormai anche delle culture. Per farlo non basta la protesta, ma sempre più un progetto che renda chiara e convincente un’alternativa. (Per questo il prossimo congresso della Cgil ci interessa tutti, non è solo dibattito interno al suo gruppo dirigente.)
Con chi dobbiamo lavorare? Anche a questo interrogativo non so rispondere, vorrei solo che avviando, come si deve, una costituente che coinvolga tutti quelli che più o meno la pensano come noi, non si buttasse via troppo frettolosamente Sinistra Italiana, un pezzetto piccolo ma prezioso in questo incerto scenario.
Talvolta gli shock sono salutari. Io porto ancora la ferita di quello del 18 aprile 1948. Ma ho anche un ricordo bellissimo di cosa, spontaneamente, senza nemmeno dircelo, facemmo tutti il 19 mattina, dopo l’inattesa batosta del Fronte popolare: uscimmo con al petto il distintivo comunista. Per dire: ci siamo ancora. E ricominciammo davvero da capo, con un po’ di più seria attenzione alla realtà della società italiana.
Erano altri tempi, ovviamente, e questo mio ricordo suona retorico. Ma certo mi piacerebbe che fosse così anche per lo shock che ci ha fatto vivere la sberla del 4 di marzo.
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Questo articolo è stato pubblicato dal manifesto sardo sabato, 10 marzo 2018 alle 12:20 e classificato in Interventi e Opinioni. Puoi seguire i commenti a questo articolo tramite il feed RSS 2.0. Puoi inviare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.
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La sinistra se n’è andata da sé
«L’animo nostro informe». Un’Italia irriconoscibile. La sinistra del 2018 non è stata messa sotto da nessuno. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina
di Marco Revelli su il manifesto.
L’Italia del day after non ce la dicono i numeri, le tabelle dei voti. Ce la dicono le mappe, ce la dicono i colori. Ed è un’Italia irriconoscibile, quasi tutta blu nel centro nord, tutta gialla nel centro sud. Verrebbe da dire: l’Italia di Visegrad e l’Italia di Masaniello.
L’Italia di sopra allineata con l’Europa del margine orientale, l’Europa avara che contesta l’eccesso di accoglienza e coltiva il timore di tornare indietro difendendo col coltello tra i denti le proprie piccole cose di pessimo gusto: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, passando per il corridoio austriaco…
L’Italia di sotto piegata nel suo malessere da abbandono mediterraneo, nella consapevolezza disperante del fallimento di tutte le proprie classi dirigenti, e in tumultuoso movimento processionale nella speranza di un intervento provvidenziale (un novum, qualcuno che al potere non c’è finora stato mai) che la salvi dall’inferno.
L’una attirata dal flauto magico della flat tax, l’altra da quello del reddito di cittadinanza.
In mezzo il nulla, o quasi: una sottile fascia, slabbrata, colorata di rosso nei territori in cui era radicato il nucleo forte dell’insediamento elettorale della sinistra, e che ora appare in progressiva disgregazione, con i margini che già cambiano.
Bisognerà ben dircelo una buona volta fuori dai denti, se non altro per mantenere il rispetto intellettuale di noi stessi: in questa nuova Italia bicolore la sinistra non c’è più. Non ha più spazio come presenza popolare, come corpo sociale culturalmente connotato, neppure come linguaggio e modo di sentire comune e collettivo. Persino come parola. La sua identità politica, un tempo tendenzialmente egemonica, non ha più corso legale. L’acqua in cui eravamo abituati a nuotare da sempre è defluita lontano – molto lontano – e noi ce ne stiamo qui, abbandonati sulla sabbia come ossi di seppia. Disseccati e spogli.
NON È UNA «SCONFITTA STORICA», come quella del ’48 quando il Fronte popolare fu messo sotto dalla Dc atlantista e degasperiana, ma non uscì di scena. È piuttosto un «esodo». Allora il giorno dopo, come dice Luciana Castellina, si poté ritornare al lavoro e alla lotta, perché quell’esercito era stato battuto in battaglia ma c’era, aveva un corpo, messo in minoranza ma consistente, e nelle fabbriche gli operai comunisti ritornavano a tessere la propria tela come pesci nell’acqua, appunto.
Oggi no: la sinistra del 2018 (se ha ancora un senso chiamarla così) non è stata messa sotto da nessuno. Non è stata selezionata come avversario da battere da nessuno degli altri contendenti. Se n’è andata da sé. O quantomeno si è messa di lato. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina. Ha ragione Roberto Saviano quando dice che i blu e i gialli hanno potuto occupare tutto lo spazio perché dall’altra parte non c’era più nulla. Da questo punto di vista questo esito elettorale almeno un merito ce l’ha: ci mette di fronte a un dato di verità. E a un paio di constatazioni scomode: che l’«onda nera» non era affatto illusoria, è stata veicolata al nord da Salvini, ed è stata neutralizzata al sud dai 5Stelle (come fece a suo tempo la Dc).
D’ALTRA PARTE un tratto di verità ci viene consegnato anche dalla catastrofica esperienza del quadriennio renziano. L’opera devastante di «Mister Catastrofe», come felicemente lo chiama Asor Rosa, costituisce un ottimo experimentum crucis. Utilissimo – a volerlo utilizzare per quello che è: una sorta di vivisezione senza anestesia – per indagare che cosa sia diventato il Pd a dieci anni dalla sua nascita, ma anche cosa rimanga delle sue identità pregresse, delle culture politiche che plasmarono il suo background novecentesco, dell’antropologia dei suoi quadri e dei suoi membri, del suo radicamento sociale, del grado di tenuta o viceversa di evaporazione dei riferimenti nel set di tradizioni che definiscono ogni comunità. Matteo Renzi, nella sua breve ma tumultuosa (quasi isterica) esperienza da leader nazionale ha stressato il proprio partito in ogni sua fibra, ne ha rovesciato (e irriso) tutti i valori, ha umiliato persone e idee che di quella tradizione avessero anche una minima traccia, ha rovesciato di 180 gradi l’asse dei riferimenti sociali (gli operai di Mirafiori sostituiti da Marchionne), ha provocato a colpi di fiducia l’approvazione di leggi impopolari e antipopolari, ha rieducato alla retorica e alla menzogna una comunità che aveva fatto del rigore intellettuale un mito se non una pratica effettiva, ha cancellato ogni traccia di «diversità berlingueriana» dando voce al desiderio smodato di «essere come tutti», di coltivare affari e cerchi magici, erigendo a modelli antropologici i De Luca delle fritture di pesce e i padri etruschi dei crediti facili agli amici… Ora, con tutto questo, ci si sarebbe potuto aspettare che, se di quella tradizione fosse rimasto qualcosa, se un qualche corpo collettivo di «sinistra storica» fosse rimasto dentro quelle mura, si sarebbe fatto sentire (“se non ora, quando”, appunto). Tanto più dopo il compimento del gran passo – del rito sacrificale – della scissione. Un esodo di massa, al seguito del quadro dirigente che avevano seguito fino al 2013.
INVECE NIENTE: fuori da quelle mura è uscito un fiume di disgustati, ma è filtrato appena un esile rivolo, una minuscola «base» al seguito di un pletorico gruppo dirigente. Il 3 e rotti percento di Liberi ed Eguali misura le dimensioni di uno spazio residuale. Non annuncia – e lo dico con rammarico e rispetto per chi ci ha creduto – nessun nuovo inizio, ma piuttosto un’estenuazione e tendenzialmente una fine. Dice che non c’è resilienza, in quello che fu nel passato il veicolo delle speranze popolari. Né l’esperienza pur generosa (per lo meno nella sua componente giovanile) di Potere al popolo – purtroppo sfregiata dal pessimo spettacolo in diretta la sera dei risultati con i festeggiamenti mentre si compiva una tragedia politica nazionale -, può tracciare un possibile percorso alternativo: il suo risultato frazionale, sotto la soglia minima di visibilità, ci dice che neppure l’uso di un linguaggio mimetico con quello «populista» aiuta a superare l’abissale deficit di credibilità di tutto ciò che appare riesumare miti, riti, bandiere travolte, a torto o a ragione, dal maelstrom che ci trascina.
SI DISCUTERÀ A LUNGO degli errori compiuti, che pure ci sono stati: delle candidature sbagliate (come si fa a scegliere come frontman il presidente del Senato in un’Italia che odia tutto ciò che è istituzionale e puzza di ceto politico?). Delle modalità di costruzione della proposta politica, assemblata in modo meccanico. Della compromissioni di molti con un ciclo politico segnato da scelte impopolari. Tutto vero. Ma non basta. La caduta della sinistra italiana tutta intera s’inquadra in un ciclo generale che vedo la tendenziale e apparentemente irreversibile dissoluzione delle famiglie del socialismo europeo, e con esse l’uscita di scena della categoria stessa di “centro-sinistra”, inutilizzabile per anacronismo.
PER QUESTO NON BASTA FARE. Occorre pensare e ripensare. Guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. Misurare i nostri fallimenti. Costruire strumenti di analisi più adeguati. Perché questo mondo che non riconosciamo, non ci riconosce più… Come il Montale del 1925 (millenovecentoventicinque!) mi sentirei di dire: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato | l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco | lo dichiari e risplenda come un croco | perduto in mezzo a un polveroso prato», per concludere, appunto, con il poeta, che questo solo sappiamo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
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