Reddito di cittadinanza
Più risorse ma anche più equità ed efficienza
di Fiorella Frarinelli, su Rocca.
Ritocchi o riforma per il Reddito di Cittadinanza? Con la prossima legge di bilancio dovrebbero venire approvati, oltre a un sostanzioso incremento delle risorse dedicate, anche un pacchetto di modifiche che ne migliorino l’equità sociale e l’efficienza. Il Reddito è la più importante misura di welfare firmata dal governo giallo-verde. Quella che l’allora ministro delle politiche sociali Luigi Di Maio salutò, con pose ed entusiasmi da tribuno del popolo, come «l’abolizione della povertà». Pretendendo per ingenuità, incompetenza od entrambe, di combinarla con virtuose politiche di inserimento lavorativo dei beneficiari. Politiche «passive», insomma, fatte furbescamente passare come «attive».
non si è raggiunta la povertà estrema
I due obiettivi sono stati, dal 2018 ad oggi, largamente mancati. Il primo perché una parte delle persone interessate non è stata neppure intercettata (ad agosto 2021 avevano ricevuto un sostegno 1,37 milioni su 2 milioni di famiglie «povere totali», pochissimi gli homeless, i marginali, gli ex detenuti, la nuvola triste e sfilacciata di chi dorme sotto i ponti o vive di espedienti). La causa principale è l’inadeguatezza dei criteri di accesso e della «scala» di articolazione degli assegni. Ma anche l’aver voluto ignorare che la povertà estrema, quella di chi non è solo senza lavoro ma anche senza casa, senza salute, senza istruzione, senza relazioni, è contattabile e coinvolgibile solo dai servizi sociali dei Comuni, dagli operatori di strada, dai volontari delle associazioni e delle parrocchie, da chi può mettere in campo azioni integrate e convergenti, tutti invece esclusi come attori e supporti inutili dallo spiccato centralismo statalista della norma. Il secondo obiettivo si può invece definire, senza timore di esagerare, un clamoroso insuccesso. Perché solo una minima quota di coloro a cui i Centri per l’Impiego avrebbero dovuto nel giro di pochi mesi offrire un lavoro capace di farli uscire dall’indigenza l’ha effettivamente trovato. Ma i Centri, si doveva tenerne conto, funzionano male per tutti, anche per i non disperatamente indigenti (il 59% dei percettori del Reddito non lavora da anni o non ha mai lavorato, missione dunque difficilissima quella di procurarne l’inserimento lavorativo), e non è affatto sicuro, secondo uno studio della Caritas, che il contratto di lavoro regolare a cui pochissimi sono approdati sia stato frutto degli 11.600 «navigator» per lo più inesperti assunti per affiancare gli 8.000 operatori dei Centri, e non, invece, di una loro autonoma e fortunata iniziativa.
come correggere i limiti
Dietro alle contraddizioni e alle molte storture del provvedimento, ci sono difetti di ideazione e di funzionamento che richiederebbero una profonda revisione, ma le condizioni del Paese non permettono vuoti, discontinuità, tempi lunghi. Avanti, dunque, con i ritocchi, solo un restyling dice la diplomatica lingua dei tecnici. Il Dep, il documento di programmazione che fa da intelaiatura alla manovra economica 2022, dispone un finanziamento aggiuntivo di circa 1 miliardo, con cui si arriverebbe a 8,8 totali, la stessa cifra raggiunta nel 2021 quando i fondi sono stati ripetutamente incrementati per far fronte alle emergenze della pandemia. Ma se col nuovo finanziamento si conferma l’utilità e si estende il campo di intervento di una misura in grado se non di far svanire almeno di mitigare la povertà, in che direzione andranno le modifiche? Come si correggeranno i limiti del provvedimento del 2018, accertati da Banca d’Italia e denunciati da tante inchieste? L’approccio del governo Draghi è stato finora equilibrato e molto pragmatico. Ma non è un mistero che nella sua maggioranza ci siano orientamenti diversi. Alcuni, diffusi trasversalmente nella politica come nella pubblica opinione, sono generati dalla convinzione – un pregiudizio, spesso, ma non senza conferme fattuali – che il sussidio non solo non abbia favorito l’ingresso nel lavoro dei beneficiari o almeno di quel terzo di potenzialmente «occupabili» (due terzi dei 3.027.851 percettori del reddito sono fuori dal lavoro in quanto troppo anziani, deboli, malati, impediti da altre condizioni avverse), ma abbia piuttosto incoraggiato il contrario di quel che si dichiarava nelle intenzioni: la non ricerca del lavoro, il non lavoro, il lavoro in nero. In altre posizioni e opposizioni prevalgono, indipendentemente dal merito, ragioni politiche, ovvero di schieramento, collocazione, consenso elettorale, con una forte polarizzazione tra favorevoli e contrari. Matteo Renzi, per esempio, un occhio a Confindustria e tutti e due al centrodestra, minaccia un referendum abrogativo, peraltro tecnicamente poco fattibile prima del 2025. Mentre la numerosa pattuglia dei parlamentari Cinquestelle tende a difendere sempre e comunque la norma originaria perché il Reddito di Cittadinanza è per loro innanzitutto identità e bandiera. Quanto ai leghisti, tutto o quasi dipende dall’esito della strenua difesa della «loro» creatura, quella costosissima «Quota 100» simbolo, anche qui una bandiera, di inossidabile contrarietà alla legge Fornero sulle pensioni e al suo probabile prossimo ritorno. Non sarà facile, dunque, una soluzione che, salvando quello che c’è di buono nel provvedimento – non abbandonare i poveri a loro stessi – introduca correttivi di quello che proprio non va, e che rischia di produr- re ulteriori tensioni sociali. L’esecutivo, e chi più convintamente lo sostiene, sa bene che oltre al problema di una spesa corrente in deficit che continua a salire, c’è la necessità di sventare il rischio del risentimento dei tanti occupati a tempo pieno che percepiscono salari troppo bassi ma che non sono «abbastanza poveri» per accedere al soste pubblico. Inevitabile, quando, a fronte di salari per lavori a tempo pieno che talora non superano i 900 Euro, il valore massimo del sostegno per persona singola è 780 Euro. Si chiama guerra tra poveri, il peggio che possa succedere. Ma come se ne esce senza introdurre anche da noi quel «salario minimo» così malvisto dalle organizzazioni sindacali, e da parte del padronato?
evitare che vada a chi non ha diritto
Ci sono comunque delle priorità. La prima è evitare che il Reddito vada a chi non ne ha diritto. Sugli oltre 3 milioni di percettori dell’estate scorsa, a ben 123.697 è stato revocato l’assegno per dichiarazioni false, le più frequenti relative alla composizione del nucleo familiare, alla mancata dichiarazione sullo stato di detenzione in carcere, alla presenza di condanne di particolare gravità come l’associazione mafiosa. L’incrocio delle anagrafi nazionali informatizzate sarebbe la via maestra per un controllo preventivo a monte della regolarità delle domande, anche perché scovare i furbetti a cose fatte non basta a recuperare i soldi che sono andati alle persone sbagliate.
rivedere la scala delle assegnazioni
La seconda, molto più importante per l’equità sociale del Reddito, è rivedere la scala in base a cui si assegnano le risorse che pena- lizza le famiglie povere numerose e che non tiene conto delle differenze territoriali di costo della vita. C’è una vistosa iniquità sociale tra i 780 Euro assegnati ai single e i 1.080 assegnati a una famiglia con un figlio minore e, ancora di più, i 1.280 assegnati a chi di figli sotto i 10 anni ne ha 3. È qui, si sa, che la povertà è più terribile e pericolosa, e che bisogna a ogni costo evitare i suoi effetti negativi su istruzione, salute, alimentazione, i danni che generano i «poveri di domani». Tanto più se si considera che il contributo per l’affitto di 280 Euro, costitutivo dell’assegno, è eguale per tutti, mentre le esigenze abitative sono diversissime tra chi è solo e le famiglie di 3, 4, 5 componenti (col costo degli affitti che varia enormemente tra città e piccoli centri, e per aree territoriali). Sono inique anche le clausole ostative che escludono dall’accesso all’assegno una parte delle famiglie regolarmente residenti di provenienza straniera, in cui la povertà «totale» morde, secondo Istat, quasi tre volte di più che nelle famiglie italiane, il 25% contro il 9%.
cambiare le regole di avviamento al lavoro
E poi, sempre che i servizi per l’impiego riescano a diventare più efficienti – grazie al programma Gol sulle politiche attive finanziato con le risorse del Pnrr – sono da cambiare anche alcune delle regole stabilite dal Reddito di cittadinanza relative all’avvia- mento al lavoro. La legge dice che la condizione per percepire il reddito è firmare il «patto per il lavoro», con cui chi è abile a lavorare si impegna a mettersi a disposizione dei Centri, accettando e seguendo programmi di formazione e di ricerca attiva del lavoro e valutando le offerte di inserimento lavorativo. Questi patti, ad oggi, sono stati stipulati solo per il 31% degli inviati ai Centri, una percentuale davvero troppo bassa anche considerando che durante il lockdown furono sospesi gli obblighi di presentarsi ricorrentemente agli operatori. Non solo. In nessuna Regione, in quasi tre anni di attuazione, è mai stata applicata la condizionalità per cui se il lavoro offerto viene rifiutato per tre volte, il candidato al lavoro perde l’assegno. La legge attuale dice infatti che il lavoro si può rifiutare se l’offerta non è «congrua», e la congruità consiste in un contratto a tempo indeterminato che garantisca almeno 858 Euro al mese. Ora, al di là che, a differenza che in paesi come la Germania e la Francia, da noi i Centri per l’Impiego sono regionali mentre ad erogare gli assegni è l’istituto nazionale Inps (col risultato che quest’ultimo può ignorare se il percettore del reddito ha ricevuto o no una proposta «congrua», se ci sono stati rifiuti e quante volte), è evidente che la possibilità di rifiutare infinite volte un contratto regolare, ma a tempo determinato o a part time, non è quello che ci vuole per incoraggiare l’uscita dal sussidio e l’ingresso nel lavoro. Le politiche attive del lavoro sono tutt’altra cosa, impraticabili in Centri per l’Impiego così inefficienti e in assenza di obblighi a far decadere il reddito in caso di rifiuto del lavoro e di incentivi ad accettarlo. In altri paesi a fare la differenza sono, da un lato, i buoni servizi erogati dai Centri, in termini sia di tempestivi e non burocratizzati piani individualizzati di qualificazione professionale e di assistenza alla ricerca attiva del lavoro sia della possibilità per un certo periodo di continuare a percepire il reddito di cittadinanza, inizialmente per intero e poi a scalare, cumulandolo con il salario da lavoro, se inferiore ai minimi definiti dalla legge o dai contratti nazionali. Quanto agli incentivi per i datori di lavoro che accettino di assumere i percettori del reddito di cittadinanza, bisognerebbe sapere che quello che per le aziende serie conta davvero non sono le detrazioni fiscali ma la certezza che il lavoratore che si assume abbia sviluppato le competenze fondamentali per svolgere bene le prestazioni previste. Tutt’altra logica, insomma, da quella tipicamente assistenziale delineata dalla norma italiana.
si riuscirà a raddrizzare la barca?
Ci sarebbe quindi molto da cambiare, nella norma e nelle pratiche attuative, per restituire dignità e valore non solo al contrasto delle troppe povertà ma al mondo del lavoro e ai lavoratori. Non saranno le cronache dei giornali che denunciano ogni giorno furbetti, illegalità, cumuli irregolari tra assegni e lavoro nero a cambiare la situazione. Il sostegno alla povertà vera dev’essere rafforzato ed esteso all’intera platea delle persone e delle famiglie povere, ma le politiche attive del lavoro sono un’altra cosa. Riuscirà il governo Draghi a raddrizzare almeno un po’ una barca mal congegnata che fa acqua da tutte le parti? C’è da augurarselo. È anche da qui che si misura la civiltà di un Paese.
Fiorella Farinelli
ROCCA 15 NOVEMBRE 2021
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Astensionismo e disaffezione: la politica e i ceti popolari
5 Novembre 2021 by c3dem_admin | su C3dem.
Esiste un divario crescente, un vero solco, tra la politica e le classi popolari, e questa è una delle cause principali dell’assenteismo. I partiti di sinistra una volta erano partiti di lavoratori e si interessavano alla vita della gente; ora non più.
Qualche proposta concreta su come la politica possa tornare a coinvolgere la vita concreta delle persone
di Sandro Antoniazzi
Nelle recenti elezioni amministrative il tasso di assenteismo è stato particolarmente elevato; non è un fatto nuovo, perché ad ogni elezione si registra un progresso di questo indice negativo, che non si sa come affrontare. [segue]
A questo va aggiunto un altro dato preoccupante, oggetto di dibattiti e di polemiche: i partiti di sinistra e centro-sinistra registrano perdite di voti nei quartieri popolari, mentre sono maggiormente votati nelle zone centrali benestanti.
Su questo argomento è intervenuto in modo autorevole e risolutivo Thomas Piketty col suo libro Capitale e ideologia, dimostrando che nei paesi democratici occidentali questo fenomeno interessa egualmente tutti i partiti di centro-sinistra da diversi decenni.
Esiste un divario crescente, un vero solco, tra la politica e le classi popolari, una delle cause principali dell’assenteismo.
Trascurando altri aspetti della carenza di partecipazione, mi fermerei su questo, che sembra costituire un dato strutturale: la separazione tra i partiti di sinistra e il popolo.
A me sembra che il problema abbia una causa essenziale evidente.
I partiti di sinistra una volta erano partiti operai, partiti di lavoratori; nelle fabbriche c’erano cellule e sezioni con centinaia di iscritti, sino a quando, almeno, è esistito il partito comunista.
Partito di lavoratori significa un partito dove i lavoratori sono un’ampia parte degli iscritti e dell’organizzazione, che molti dei suoi quadri e attivisti (a volte dirigenti) sono lavoratori, che è presente nei luoghi di lavoro, che il tema del lavoro è una tema quotidiano nella vita del partito.
Il lavoro è tanta parte della vita, un partito dei lavoratori s’interessa così della vita della gente, entra nella loro vita.
Qui sta la vera causa dell’allontanamento: la politica era una cosa che riguardava la vita della gente, ora non lo è più.
Se questo è vero non si tratta tanto di ricercare strumenti partecipativi o preoccuparsi di rivolgersi maggiormente a quest’area, ma di porsi il problema – molto più di fondo – se la politica può ancora coinvolgere direttamente la vita stessa delle persone.
Mi permetto a riguardo di indicare qualche direzione, senza vincoli di esclusività, su cui varrebbe la pena di lavorare.
Un primo tema importante da affrontare sarebbe la partecipazione e la democratizzazione del lavoro: solo se il lavoro non è la pura soddisfazione di una funzione preordinata, ma consente al lavoratore di esprimersi, di decidere, di manifestare e sviluppare le proprie capacità avremo una classe lavoratrice non passiva, ma abituata a ragionare e allargare il proprio orizzonte.
In secondo luogo, l’azione dei circoli politici territoriali è diventata troppo esile e esclusivamente organizzativa: distribuire volantini e svolgere un po’ di propaganda costituiscono le attività principali ed eventuali dibattiti non vanno al di là di uno scambio di idee tra amici.
Per ridare vitalità alle strutture di base bisognerebbe forse pensare a fare dei circoli dei centri di attività più varie: volontariato, sportelli informativi, attività formative e sedi aperte a realtà altre.
In terzo luogo, sarebbe opportuno modificare gli statuti sindacali. Sono stato un attivo sostenitore, a suo tempo, delle norme di incompatibilità tra cariche politiche e cariche sindacali, in un tempo in cui il peso del partito nel sindacato era enorme.
Ma ora questo problema non esiste più ed esiste piuttosto il problema contrario, l’allontanamento dei lavoratori dalla politica.
Andrebbero pertanto riviste queste norme, mantenendo i divieti per le cariche più elevate e togliendole invece ai livelli inferiori, direttivi provinciali e di categoria e consigli comunali.
Oggi questo scambio sarebbe favorevole sia per la politica che per il sindacato.
Sono alcune proposte, altre se ne possono aggiungere: il loro valore sta in questo, che non propongono atti volontaristici di “andare al popolo”, ma suggeriscono al contrario atti concreti, cambiamenti reali, in grado di incidere su una situazione strutturale.
Sandro Antoniazzi
novembre 2021, su C3dem.
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