Investire in Welfare crea nuova occupazione

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di Vanni Tola

E’ opinione diffusa che il welfare, cioè i servizi e le prestazioni sociali, rappresenti per il paese un costo improduttivo o addirittura uno spreco di denaro che va ad alimentare la crescita del debito pubblico. Da tale convinzione traggono origine le scelte di consistenti e progressivi tagli alla spesa pubblica con la convinzione di poter cosi contribuire a ridurre il deficit nazionale.

In realtà investire oculatamente nel Welfare potrebbe significare non solo migliorare la qualità di vita delle persone e delle famiglie ma anche favorire celermente ed efficacemente l’occupazione. L’affermazione è contenuta in uno studio condotto dalla Rete “Cresce il Welfare, cresce l’Italia”.  Un punto di vista diametralmente opposto all’opinione diffusa sul Welfare che, se accolta, porterebbe a un radicale ripensamento delle politiche sociali del nostro paese. I ricercatori della Rete fanno notare che tra il 2008 e il 2012, cioè nel bel mezzo della crisi economica, a fronte di una perdita di occupazione nei comparti manifatturieri di 3 milioni e 123 mila unità (Eu 15), si è registrato un incremento nei servizi di welfare, cura e assistenza, pari a 1 milione e 623 mila unità (+7,8%). E’ indiscutibile l’enorme crescita della domanda di welfare favorita, tra l’altro, dall’aumento della durata della vita e dall’invecchiamento della popolazione. A fronte di tale aumento della domanda alcuni paesi europei hanno agito orientandosi verso un’occupazione formalizzata, pubblica e privata, relativa a tale domanda di servizi. Altri invece, e tra questi l’Italia, hanno delegato il soddisfacimento della domanda di servizi alle famiglie. Naturalmente gli esiti di tali scelte hanno ottenuto risultati differenti sia in termini di qualità della vita che di creazione di nuova occupazione.

La Francia, per esempio, ha scelto di integrare tra loro politiche di welfare e interventi per creare occupazione regolare nella cura e l’assistenza alle persone mettendo le famiglie in condizione di pagare i servizi con sgravi contributivi, voucher, titoli di acquisto. Tale scelta ha fatto emergere dal mercato informale molte prestazioni sociali a domicilio, contribuendo a sviluppare occupazione regolare nei servizi alla persona. Nel 2011 sono state 3,4 milioni (il 13% del totale) le famiglie che hanno usufruito di servizi di cura e assistenza personale, con un incremento rispetto al 2005 dell’8%. E il numero dei lavoratori salariati è giunto a 1,8 milioni.

Scelte analoghe, benché differenti, sono state adottate in Germania. Con l’obiettivo di stimolare l’occupazione dei segmenti marginali del mercato del lavoro e per contrastare il lavoro sommerso, il governo tedesco ha istituito o cosiddetti minijobs (impieghi remunerati per un massimo di 450 euro/mese privi di versamenti fiscali e contributivi) accompagnati dall’introduzione di procedure semplificate per l’assunzione di personale al domicilio da parte delle famiglie, la quali possono beneficiare di sgravi contributivi e fiscali. Anche in questo caso si registrano risultati soddisfacenti. I minijobs attivati nel 2012 sono stati 243 mila incrementando una forza lavoro strutturalmente confinata ai margini del mercato del lavoro. Anche in Germania si è registrato un incremento dell’occupazione nei servizi sociali. Restano ancora da migliorare la qualificazione dell’occupazione creata, il livello salariale spesso ancora basso e le tutele sociali per tali lavoratori ma il risultato, in termini di nuova occupazione, è certamente indicativo.

In Italia invece si evidenziano forti ritardi nello sviluppo dei servizi di cura e, soprattutto, la mancanza di una strategia nazionale di sviluppo del Welfare finalizzata alla crescita dell’occupazione e alla tutela dei bisogni sociali. Nel nostro paese sono più di 15 milioni (il 38,4% della popolazione tra i 15 e i 64 anni) le persone impegnate regolarmente nel lavoro di cura nei confronti di figli coabitanti con meno di 15 anni, altri bambini della stessa fascia di età e/o di adulti anziani, malati, non autosufficienti, con disabilità. La “delega” alle famiglie e l’attribuzione a esse del lavoro di cura sono forse l’elemento di maggiore impatto, nella nostra realtà nazionale. Quest’attività di cura familiare interessa soprattutto le donne, sia in valore assoluto (8,4 milioni di donne contro 6,8 milioni di uomini), sia in termini percentuali (il 42,3% a fronte del 34,5%). Secondo stime dell’Istat sono 240 mila le donne occupate che scelgono il part-time invece dell’orario a tempo pieno per mancanza di servizi all’infanzia adeguati. Sono invece 489 mila Le donne non occupate ostacolate all’ingresso nel mercato del lavoro per mancanza di alternative di conciliazione.

Ma oltre a questo impegno diretto, le famiglie ricorrono spesso a “badanti” o assistenti. La spesa delle famiglie per il lavoro di cura privato, nel 2009, è stata pari a 9,8 miliardi di euro contro i 7,1 miliardi di euro dell’intera spesa sociale dei Comuni registrata nello stesso anno. Ciò ha generato nel nostro paese il fenomeno delle“badanti” che rappresentano ormai l’asse portante del Welfare in Italia. Generalmente lavoro sommerso la cui emersione è fortemente limitata dalla scarsità di adeguate detrazioni e deduzioni fiscali per chi assume regolarmente i lavoratori impegnati nell’assistenza alle persone e alle famiglie.  Anche in Italia l’aumento dell’età media della popolazione genera nuovi bisogni sociali generalmente riguardanti la non autosufficienza. Nonostante ciò non è stata a tutt’oggi elaborata un’adeguata strategia politica per l’autosufficienza e l’assistenza alla persona. Ci si è limiti invece a interventi occasionali e frammentari in tale ambito. Fra il 2008 e il 2012 la destinazione di risorse ai Fondi sociali è crollata del 90%. Solo nel 2013 il Fondo nazionale politiche sociali è stato rifinanziato per un totale di 300 milioni, cui vanno ad aggiungersi 275 milioni di euro per il Fondo non autosufficienza. E per il 2014, al momento, il Fondo nazionale politiche sociali e il Fondo per la non autosufficienza sono azzerati.

E’ evidente che in tale situazione la prospettiva di crescita delle prestazioni di lavoro e la conseguente crescita dell’occupazione nel Welfare non vengono in alcun modo incentivate principalmente per la costante e consistente riduzione della spesa per il sociale. Un vero peccato. Diversi studi qualificati hanno documentato che l’uso della spesa pubblica per creare lavoro (in particolare nei settori ad alta intensità di lavoro e tra questi certamente il welfare dei servizi) ha effetti sull’occupazione molto più alti e in tempi più rapidi rispetto ad altri tipi di misure. Fino a dieci volte superiori rispetto al taglio delle tasse, da due a quattro volte rispetto all’aumento di spesa negli ammortizzatori sociali o alla riduzione dei contributi sul lavoro per le imprese.  Un’occasione da non perdere nella ricerca di nuove soluzioni per superare la crisi economica e il miglioramento delle condizioni  di vita.

** La ricerca alla quale si fa riferimento nell’articolo è stata realizzata dalla Rete “Cresce il Welfare, cresce l’Italia”, disponibile nella versione integrale nel sito: www.cresceilwelfare.it.

Gruppo di lavoro: Andrea Ciarini Sapienza Università di Roma (coordinatore), Roberto Fantozzi Istat e Sapienza Università di Roma, Silvia Lucciarini Sapienza Università di Roma, Anna Maria Simonazzi Sapienza Università di Roma, Emmanuele Pavolini Università politecnica della Marche, Sara Picchi Sapienza Università di Roma, Michele Raitano Sapienza Università di Roma
Vanni Tola

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