Verso il Sinodo sui cammini sinodali
EDUCARCI AL CONFRONTO
di Simona Segoloni* su Rocca
Dopo tanto parlare di sinodalità e dopo lo stile voluto da papa Francesco per le ultime assemblee del sinodo dei vescovi, la prossima assemblea di quest’ultimo si occuperà specificamente proprio della sinodalità, di come cioè la chiesa possa essere sinodale, tema che va ben al di là del sinodo dei vescovi che pure di essa è un’espressione qualificata. A tema viene messo il modo di essere chiesa e si è strutturato un cammino lungo e articolato su vari livelli per cominciare non solo a pensare, ma a vivere uno stile sinodale, di reciproco ascolto. Molta è la letteratura disponibile (1), significativi i pronunciamenti magisteriali (basti ricordare la costituzione Episcopalis communio e il documento della Commissione teologica internazionale) (2) e, anche se non mancano i problemi (in modo particolare come raccordare i principi teologici e spirituali che la sinodalità porta con sé e l’ordinamento canonico e le prassi concrete) (3), si può cominciare (o continuare) a provare.
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la «provocazione» di papa Francesco
In questo clima arriva anche l’annuncio del cammino sinodale italiano.
Si tratta di una risposta alla «provocazione» di papa Francesco, riallacciata al Convegno ecclesiale di Firenze che ha visto proprio nell’intervento del papa il punto di riferimento più significativo. Già questo avvio però mette sul cammino sinodale italiano un’ipoteca di non facile gestione: in che modo un evento ecclesiale che deve portare alla partecipazione e al discernimento condiviso può essere indetto per obbedire al vescovo di Roma? Nonostante i continui riferimenti alla sinodalità «dal basso» (anche se sarebbe interessante poi vedere che cosa si intenda veramente) sembra che questa sinodalità parta dall’alto: il papa addita la sinodalità come cammino per la chiesa del terzo millennio, portando a più piena maturazione la recezione dell’ultimo concilio, indice – come sua prerogativa – il sinodo della chiesa universale su questo argomento e provoca le chiese italiane a fare altrettanto, ma non si può fare a meno di domandarsi se le chiese italiane abbiano raggiunto la medesima consapevolezza del papa.
La differenza di impostazione fra i due sinodi (o meglio, come detto, fra un sinodo e un percorso sinodale) è netta e credo possa essere rivelativa della mens con la quale si vuole celebrare l’evento. Nel primo caso infatti abbiamo in questione proprio la forma e lo stile della chiesa: il nodo nevralgico è la chiesa stessa, come essa debba essere per vivere la propria identità e la propria missione. La parola non compare, ma potrebbe considerarsi un sinodo sulla riforma della chiesa, perché la sinodalità è da considerarsi una forma altra rispetto all’attuale, di fatto ancora sostanzialmente immutata dalla riforma gregoriana. Al contrario il sinodo italiano non ha nemmeno un tema definito e, di qualunque cosa si parlerà, comunque non dovrebbe riguardare la forma ecclesiale (già mons. Brambilla nella conferenza stampa sul sinodo spiegava che non si parlerà – per esempio – di donne o di questioni riguardanti i ministri ordinati, come stanno facendo le chiese tedesche), ma piuttosto si vogliono individuare insieme gli orientamenti pastorali per il tempo difficile del post (speriamo) pandemia.
In questo modo non si discute dell’unica vera questione: la chiesa e il suo modo di essere. E allo stesso tempo, mantenendo il sistema come è, cioè non sinodale, si vuole fare un percorso sinodale. L’impresa si fa ardua. Nel leggere i documenti a disposizione si coglie il reale intento di coinvolgere quante più persone possibile, di valorizzarle, di dare voce a idee e forze ecclesiali troppo spesso nascoste, ma tutto questo solo per ricavare suggerimenti, idee e prassi in vista di una nuova operatività ecclesiale, in un momento difficile. Come se le difficoltà del momento – fra l’altro – dipendessero dalla pandemia. Magari questa è stata il cannocchiale di Galileo che ci ha permesso di vedere ciò che c’era anche prima: la crisi della chiesa italiana è importante, riguarda molti aspetti e chiede il coraggio di vere domande e veri cambiamenti. La pandemia non ne è certo la causa. Possibile che di fronte ad un cambiamento d’epoca, di fronte a crisi mondiali – che il papa ha descritto senza mitigarle sia in Laudato si’ che in Fratelli tutti – le chiese italiane non debbano interrogarsi su come vivono, sulle proprie strutture, sui ministeri, le relazioni, il modo di presenza pubblico? Quando la storia ha subito delle svolte significative la chiesa ha sempre modificato la propria struttura – pensiamo alla svolta costantiniana a quella gregoriana e a quella tridentina, solo per fare qualche esempio – forse anche oggi questo è il problema più urgente, altrimenti qualsiasi idea, azione o energia ecclesiale potrebbe finire per essere vanificata da una forma di chiesa incapace di collocarsi evangelicamente nel contesto odierno: non era questo il senso profondo di Evangelii gaudium, così decisiva proprio per il Convegno di Firenze? Non era in fondo l’intento del concilio, secondo molti ancora disatteso, tradotto così da Paolo VI: ecclesia, quid dicis de te ipsa ?
Senza porre questo tema, lo stesso evento (o percorso) sinodale rischia di non essere realmente posto in essere. Proprio perché, come accennato, la struttura sinodale non è ancora quella della chiesa – e infatti proprio per questo il sinodo universale la mette a tema – tentare un evento sinodale senza porre in questione la chiesa stessa, se non nel tema almeno nelle procedure di preparazione e celebrazione dell’evento stesso, rischia di renderlo impossibile. E infatti ad una prima – sicuramente troppo veloce – impressione, questo percorso delle chiese italiane sembra (ma poi vedremo) assomigliare tanto ad un convegno ecclesiale allargato e diffuso sul territorio.
cosa dovrebbe essere un sinodo?
Se quanto detto fin qui esprime il dubbio che non si sia partiti col piede giusto, questo – sempre che sia vero – non esclude che si possa comunque celebrare un sinodo e che si possa imparare a farlo strada facendo. Mi sembra però che sarebbe opportuno ricordarsi alcuni elementi fondamentali che oramai la teologia – e anche il magistero – hanno messo a fuoco perché si possa dare un’esperienza sinodale.
Sinodale, infatti, nonostante le norme canoniche, non può essere equiparato (come ancora accade anche da un punto di vista normativo) a meramente consultivo, se con consultivo si intende che chi ha la responsabilità di discernere e decidere può ascoltare il parere di altri, ma solo per aiutare il proprio processo di discernimento e di decisione. Gli organi consultivi così intesi vengono spesso sentiti come frustranti e inutili: qualunque cosa si dica rimane ininfluente su ciò che viene deciso. E cercare di correggere la
delusione con la bontà, cioè con generici richiami alla comunione, al dialogo e al rispetto reciproco, è una cura peggiore della malattia: il punto è – di nuovo – il modo di essere chiesa e le concrete possibilità di farlo. Non sono in gioco i sentimenti e nemmeno la conversione personale – sempre auspicabile – ma piuttosto una modalità di essere chiesa che non impedisca di vivere come un corpo solo, considerando la stragrande maggioranza dei membri come non significativi in ordine alla parola, alla testimonianza, al discernimento e alle decisioni. La sinodalità mette in discussione l’attuale struttura ecclesiale perché consiste nella consapevolezza – e nella convinzione credente – che lo Spirito sia presente quando i credenti e le credenti, condividendo ciò che sono in base ai carismi e ai ministeri ricevuti, in un processo libero e schietto, riescano a convenire su ciò che dobbiamo credere e
fare, anche se le responsabilità rimangono differenziate.
È una questione di fede, non di strategie.
Perché la chiesa ha preso le decisioni più importanti e definito il proprio credo nei concili? E perché questo è accaduto anche in tempi in cui le gerarchie assolute erano l’unico modo noto di governo anche in ambito civile? Perché la chiesa sa di essere un corpo animato dallo Spirito e che lo Spirito parla in lei proprio nel momento in cui viene assecondato, cioè quando si lascia che stringa i credenti in un’unità, che li rivolga gli uni verso gli altri, li rinnovi, li faccia esprimere francamente. Non si può sapere cosa lo Spirito dice alla chiesa se non radunando la chiesa. La natura di queste assemblee ha assunto diverse conformazioni, ma il dato di fede fondamentale non è venuto meno: il popolo intero è depositario di ciò che è da credere e possiede la capacità di discernere dove andare, la direzione concreta viene indicata da ciò su cui riusciamo a convenire.
Si capisce che questo è esattamente l’opposto del lasciare che a decidere siano solo i responsabili «più alti in grado», ma è anche estremamente distante dal limitarsi a chiedere un parere ad altri che non siano questi ultimi. Lo Spirito – e quindi la possibilità di discernere e decidere – non è un esclusivo possesso episcopale né presbiterale ed è reso presente dall’unità della chiesa al punto da potersi affidare a ciò che questa unità decide.
Un sinodo (e ogni processo sinodale) allora non dovrebbe limitarsi ad una ampia consultazione, ma dovrebbe consistere nella possibilità di un ascolto reale e multidirezionale. Non si dovrebbe trattare solo di chiedere ai credenti – a quanti più possibile – che cosa pensino, ma di mettersi gli uni di fronte agli altri (vescovi, altri ministri e laici) per parlare e ascoltare reciprocamente, domandarsi e correggersi. Per arrivare ad una decisione condivisa infatti le dinamiche del sinodo dovrebbero essere tali da permettere un confronto che possa modificare le convinzioni di alcuni (o di molti): è chiaro che ciascuno entra in un’assemblea sinodale con le proprie idee sull’argomento da discutere, ma in un reale confronto, con la tensione di arrivare ad una condivisione, queste idee si metteranno in movimento e nel circolo virtuoso del reciproco ascolto diventeranno qualcosa d’altro. Alcune verranno confermate e rafforzate, altre abbandonate. Non è questo che è successo in concilio? Quanti vescovi hanno testimoniato il proprio cambiamento di idee e di spiritualità grazie alle discussioni vissute in aula e fuori da essa?
conclusione
Non so se le chiese italiane siano pronte a vivere qualcosa di simile. Non sembra esserci un argomento per il processo sinodale, non sembra essere in questione lo stile ecclesiale, non è chiaro nemmeno se ci sarà un’assemblea plenaria (o più assemblee) dove possa darsi l’ascolto reciproco capace di plasmare il pensiero di tutti verso qualcosa di condiviso. Non è certo se riusciremo nell’impresa, quindi, ma siamo chiamati a provarci. Già sarebbe molto avere chiaro che cosa c’è in gioco e che cosa dovremmo provare a fare, perché anche nel caso – non augurabile – che non dovessimo riuscire, potremo sempre riprovare in seguito, più maturi e consapevoli. E potrebbe comunque questo essere un primo passo – i primi sono sempre vacillanti – verso una chiesa sinodale.
*Simona Segoloni,
docente stabile di teologia sistematica all’Istituto Teologico di Assisi, dove insegna ecclesiologia, mariologia e teologia trinitaria. È vicepresidente del Coordinamento teologhe italiane (Cti)
Note
(1) Indichiamo un solo volume che contiene non solo numerosi contributi di qualità, ma una abbondante bibliografia per approfondire diversi aspetti sul tema: Battocchio Riccardo, Tonello Livio, Sinodalità. Dimensione della chiesa, pratiche nella chiesa, Edizioni Messaggero – Facoltà teologica del Triveneto, Padova 2021.
(2) Repole Roberto, Coda Piero, La sinodalità nella vita e nella missione della chiesa. Commento a più voci del documento della Commissione teologica internazionale, Edizioni Dehoniane, Bologna 2019.
(3) Su questo argomento e sulle diverse esperienze sinodali si può vedere in numero 2/2021 di Concilium intitolato «Sinodalità plurali»
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