Fine vita – Eutanasia. Documentazione.
Fine vita. Eutanasia – Documentazione.
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- Referendum sulla legge per la legalizzazione dell’eutanasia.
Il sito web dedicato: https://www.eutanasialegale.it/ne
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Il Quesito Referendario
PER L’EUTANASIA LEGALE
Volete voi che sia abrogato l’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1 limitatamente alle seguenti parole «la reclusione da sei a quindici anni.»; comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole «Si applicano»?
Articolo 579 c.p. e relative abrogazioni referendarie
Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio [575-577] se il fatto è commesso:
Contro una persona minore degli anni diciotto;
Contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
Contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno [613 2].
Gazzetta Ufficiale del 21 aprile 2021 con l’annuncio della richiesta di Referendum Abrogativo
Il referendum vuole abrogare parzialmente la norma penale che impedisce l’introduzione dell’Eutanasia legale in Italia. L’omicidio del consenziente, infatti, non è altro che un reato speciale (rispetto a quello di portata generale di cui all’art. 575 cp sull’omicidio) inserito nell’ordinamento per punire l’eutanasia.
Con questo intervento referendario l’eutanasia attiva sarà consentita nelle forme previste dalla legge sul consenso informato e il testamento biologico, e in presenza dei requisiti introdotti dalla Sentenza della Consulta sul “Caso Cappato”, ma rimarrà punita se il fatto è commesso contro una persona incapace o contro una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o contro un minore di diciotto anni.
Per quanto riguarda, invece, condotte realizzate al di fuori delle forme previste dall’ordinamento sarà applicabile il reato di omicidio doloso (art. 575 cp).
L’eutanasia attiva è vietata dal nostro ordinamento sia nella versione diretta, in cui è il medico a somministrare il farmaco eutanasico alla persona che ne faccia richiesta (art. 579 cp omicidio del consenziente), sia nella versione indiretta, in cui il soggetto agente prepara il farmaco eutanasico che viene assunto in modo autonomo dalla persona (art. 580 c.p. istigazione e aiuto al suicidio), fatte salve le scriminanti procedurali introdotte dalla Consulta con la Sentenza Cappato.
Forme di eutanasia c.d. passiva, ovvero praticata in forma omissiva, cioè astenendosi dall’intervenire per tenere in vita il paziente in preda alle sofferenze, sono già considerate penalmente lecite soprattutto quando l’interruzione delle cure ha come scopo di evitare il c.d. “accanimento teraputico”.
È però vero che molti casi ambigui creano condotte “complesse” o “miste” che non consentono spesso di distinguere con facilità se si tratti di eutanasia mediante azione od omissione e soprattutto pongono il problema di una possibile disparità di trattamento ai danni di pazienti gravi e sofferenti affetti però da patologie che non conducono di per sé alla morte per effetto della semplice interruzione delle cure.
Proprio al fine di non creare discriminazioni tra tipi di malati, emerge l’esigenza di ammettere l’eutanasia a prescindere dalle modalità della sua esecuzione concreta (attiva od omissiva).
Per questi motivi si prospetta efficace intervenire con questo referendum parzialmente abrogativo dell’art. 579 cp. Questo per una duplice ragione: innanzitutto intervenendo su questo si può esplicitamente richiamare il concetto di eutanasia; secondo poi la Corte, essendo intervenuta nella sentenza Cappato sull’art. 580 cp, può fare ricadere la disposizione come abrogata in una cornice normativa già delineata dalle sue pronunce in materia. La norma che residua, infatti, ha al suo interno l’espressione “col consenso di lui” il cui significato risulta coordinato alle leggi dell’ordinamento e agli interventi della Corte.
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editoriale Giacomo Costa SJ
Direttore di Aggiornamenti Sociali, novembre 2019
Fine vita: un contributo per una legge condivisa
La data era nota da quasi un anno: il 24 settembre scorso la Corte costituzionale ha proceduto al definitivo [segue]
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La data era nota da quasi un anno: il 24 settembre scorso la Corte costituzionale ha proceduto al definitivo esame della questione relativa alla punibilità, ex art. 580 del Codice penale, dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita. La questione era stata sollevata dalla Corte d’Assise di Milano in relazione all’aiuto prestato da Marco Cappato a Fabiano Antoniani, noto come dj Fabo, nel recarsi in Svizzera per il suicidio assistito, consentito dalla legislazione elvetica. Tale esame, cominciato il 23 ottobre 2018, era stato rinviato per consentire un intervento del Parlamento, come si legge nell’Ordinanza n. 207 del 16 novembre 2018.
L’intervento legislativo non c’è stato e, allo scadere del termine prefissato, la Corte ha deciso; come leggiamo nel Comunicato stampa in attesa del deposito della sentenza e delle relative motivazioni, «ha ritenuto non punibile ai sensi dell’art. 580 del Codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicolo- giche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Le condizioni di non punibilità consistono nel «rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (artt. 1 e 2 della L. n. 219/2017) e [nella] verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente», e sono poste «per evitare rischi di abuso
nei confronti di persone specialmente vulnerabili», in attesa di un intervento legislativo nuovamente invocato con grande forza.
Altrettanto puntuali e previste sono le prese di posizione e le polemiche che la decisione ha suscitato, spesso mediatizzate in modo da amplificare le affermazioni più estreme e ridurre le persone coinvolte e le loro storie di sofferenza a bandiere di schieramenti in conflitto. Bioetica e fine vita sono tornate in prima pagina, producendo nuovamente confusione e sconcerto nell’opinione pubblica. E forse è proprio per non rimanere invischiata in questioni così spinose che la politica, sempre più attenta a non alienarsi il consenso di nessuno, ha preferito restarne alla larga. Ma in questo modo viene meno al proprio compito. Vista l’urgenza, certificata dalla Corte costituzionale stessa, di un nuovo intervento legislativo, vale la pena cercare un modo costruttivo di affrontare le tematiche del fine vita, che permetta a una società plurale di muoversi nella logica del dialogo in vista del bene comune e non dello scontro in cui una parte vince a scapito di altre. In questa linea si pongono le considerazioni che ora svolgeremo, più che in quella di un commento a una sentenza che al momento non è nemmeno integralmente nota.
Di fronte a situazioni inedite
Il punto di partenza non può che essere lo sforzo di prendere contatto con la realtà, liberandosi per quanto possibile da pregiudizi e posizioni ideologiche, in modo da mettere a fuoco che cosa c’è veramente in gioco. La prima evidenza, da non dimenticare mai, è che ci troviamo di fronte a un fenomeno relativamente nuovo, almeno per i tempi di maturazione dell’ethos condiviso. I casi di dilemmi di fine vita si sono moltiplicati negli ultimi anni, ma è tutto sommato da breve tempo che la tecnologia biomedica ci ha messo a disposizione terapie di sostegno vitale capaci di ritardare significativamente la morte, prolungando la vita di un paziente ma senza offrirgli concrete speranze di guarigione o miglioramento, anzi potenzialmente infliggendogli un’agonia più lunga e dolorosa. E coinvolgendo in questo processo anche familiari e persone care.
La conseguenza è che l’apparato di riflessioni e strumenti, etici e giuridici, che ereditiamo dal passato non risulta pienamente adeguato. Come riconosce la Corte costituzionale, siamo confrontati a «situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali» (Ordinanza n. 207/18, n. 8). Affrontare problemi nuovi con strumenti vecchi non può che condurre a soluzioni solo parzialmente soddisfacenti, che anzi possono sollevare nuovi interrogativi e produrre nuove contraddizioni. Questo non significa che partiamo da zero: il patrimonio della riflessione etica e giuridica mantiene il suo valore, ma la sua applicazione non può avvenire in maniera diretta e per così dire automatica. Occorre infatti capire quale sia il modo per tutelare, nella nuova situazione, quei valori che la tradizione ci consegna, spesso incapsulati in norme che oggi mostrano la corda, come nel nostro caso l’art. 580 c.p., la cui formulazione risale al 1930.
Serve dunque un processo collettivo di riflessione e dibattito, che chiama in causa, in maniera differenziata, una pluralità di soggetti. In primo luogo va considerata l’esperienza di chi vive queste situazioni sulla propria pelle: i pazienti appesi alle terapie di sostegno vitale ma senza prospettiva di guarigione, le loro sofferenze fisiche e psicologiche, e quelle dei loro familiari e amici. La loro dignità rivendica tutela assoluta e la profondità della loro umanità non può essere schiacciata, riducendoli a casi clinici o a bandiere ideologiche. Hanno diritto a un ascolto autentico, con tutta la varietà delle loro posizioni: da chi ha scelto di rendere pubblica e mediatica la propria condizione, ingaggiando battaglia contro quella che percepisce come una violazione della propria dignità, a quanti affrontano la situazione nel riserbo e testimoniano la sensatezza umana di opzioni che puntano sulla relazione di cura e di accompagnamento in un percorso a volte molto lungo e faticoso. Nessuna posizione può vantare un monopolio o un primato di autenticità.
Su un altro piano vi è l’esperienza dei medici e del personale sanitario, che è sovente altrettanto straziante: sperimentano infatti la contraddizione tra la potenza degli strumenti di cui dispongono e l’impossibilità di raggiungere la guarigione a cui la loro azione aspira, mentre devono fare i conti con interrogativi radicali sul significato della propria professione e con il timore di ritrovarsi obbligati a compiere atti a cui in coscienza ritengono di non poter acconsentire: quello sanitario è un ambito in cui ciò che è riconosciuto come diritto di qualcuno diventa un obbligo per qualcun altro. A riguardo non possiamo dimenticare che l’Associazione medica mondiale mantiene una posizione contraria alla legittimazione di azioni che diano o aiutino a darsi la morte, e numerosi sono i richiami alla necessità di salvaguardare gli spazi dell’obiezione di coscienza.
Infine, le questioni di fine vita ci mettono in gioco tutti, come singoli e come società. Da una parte siamo consapevoli che chiunque potrebbe trovarsi un giorno in situazioni come quelle che stiamo esaminando, come paziente o come familiare. Ma soprattutto, nel definire lo spettro delle azioni possibili in determinate circostanze, come società da un lato indichiamo l’orientamento di un bene collettivo come il sistema sanitario, in cui investiamo non poche risorse comuni, e dall’altro dichiariamo i valori in cui collettivamente ci riconosciamo. Per questo le tematiche di fine vita suscitano tanto coinvolgimento e tanta passione nella società, ben al di là della cerchia degli specialisti, e le decisioni in ambito legislativo e giudiziario da una parte si radicano nel sentire comune che cercano di interpretare, dall’altra contribuiscono a configurarne l’evoluzione. Alcuni punti di riferimento
La rapida ricognizione appena svolta evidenzia come esista una pluralità di posizioni e di punti di vista legittimati a esprimersi. Non aiuta quindi la serenità del dibattito quando ne viene in qualche modo assolutizzato uno a scapito degli altri, né quando, sulla spinta dei sentimenti, in nome della pietà o del buon senso si prendono scorciatoie ideologiche rinunciando a un approfondimento che appare necessario, vista la posta in gioco. Confrontarsi con la concretezza delle esperienze ci permette di capire che il morire è questione che riguarda singolarmente ciascuno di noi, ma mai puramente individuale, nel senso che accade all’interno di una trama di relazioni, che la progressiva complessificazione dei rapporti sociali rende ancora più ricca ed estesa. Anche se può essere efficace in chiave retorica per forzare il consenso sulla propria posizione, è fuorviante ragionare sul tema del fine vita a prescindere da questa trama di relazioni. Questo principio personalista, che è anche alla base della nostra Costituzione, è l’orizzonte al cui interno non possiamo non situare la comprensione dei concetti chiave del dibattito che la recente sentenza ha suscitato.
Un primo riferimento è senz’altro il principio di autonomia e di autodeterminazione anche in campo sanitario: ricevere cure è un diritto da garantire a chi ne ha bisogno, mai un obbligo che si possa imporre al malato. La tutela di questa legittima autonomia è alla base della legislazione relativa al consenso informato, al diritto di rifiutare le cure o di chiedere la sospensione di quelle ritenute troppo gravose. Di recente, attraverso la L. n. 219/2017, questa tutela è arrivata a comprendere anche i pazienti non più in grado di prendere decisioni o esprimere il proprio orientamento, attraverso lo strumento delle disposizioni anticipate di trattamento. Quest’ultimo caso rende evidente come l’autonomia non sia interpretata quale diritto a esprimere una opzione insindacabile a priori, ma si collochi all’interno di un percorso che valorizza la relazione di cura e l’alleanza terapeutica, al cui interno il paziente è sostenuto nell’arrivare a decidere di sé.
Proprio il principio personalista aiuta a mettere in una corretta prospettiva un elemento che di frequente compare nel dibattito, cioè la rivendicazione del diritto a morire, spesso declinato come diritto a un suicidio medicalmente assistito. Certo non è contemplato dalla nostra legislazione ed è estremamente problematico comprenderlo tra i diritti inviolabili della persona o farlo derivare dal diritto alla libertà personale. Da questi diritti deriva piuttosto l’imperativo alla tutela della vita come base per il godimento di ogni altro diritto, con particolare riguardo per chi è più debole e vulnerabile.
Tocchiamo qui un punto nevralgico, soprattutto in un contesto segnato dalla cultura dello scarto, in cui aumenta la pressione a eliminare chi non è produttivo, mentre la libertà di scelta viene banalizzata e la manipolazione prende forme più sottili e insidiose a cui chi è più fragile finisce per soccombere. È la Corte costituzionale stessa a metterci in guardia contro «una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni [di suicidio] vengono concepite» (Ordinanza n. 207/2018, n. 7). Contro questo rischio ribadisce la legittimità di disposizioni penali che vietino «condotte che spianino la strada a scelte suicide», ma soprattutto ricorda che il primo dovere dello Stato nei confronti delle persone anziane, malate, sole, psicologicamente provate è predisporre politiche pubbliche che garantiscano cure e sostengano un contesto di prossimità e solidarietà, cioè rinforzino quel tessuto relazionale in assenza del quale la rivendicazione dell’autonomia si ritorce contro se stessa.
Tuttavia l’imperativo alla tutela della vita non si trasforma mai nell’obbligo a rimanere vivi a tutti i costi. Anche se spesso confuso con il diritto al suicidio assistito, il diritto alla sospensione delle cure è qualcosa di profondamente diverso. In alcune circostanze appaiono contigui, quasi sovrapposti, e un’espressione vaga come “diritto a morire”, che potrebbe applicarsi in entrambi i casi, crea confusione. Il diritto a rifiutare le cure o a sospenderle, quando ritenute sproporzionate e quindi troppo onerose, tutela infatti sia la libertà sia l’inviolabile integrità della persona, di cui il controllo degli interventi a cui il corpo è sottoposto è un corollario ineliminabile. In questo caso non ci si dà la morte, né si chiede a un altro di darla, ma la si accetta, ricevendo un adeguato trattamento palliativo, inclusa la sedazione profonda, nell’attesa che essa sopravvenga. È un diritto ben attestato nel nostro ordinamento giuridico, a partire dall’art. 32 della Costituzione.
Vale la pena ribadirlo: la distinzione può apparire come una sottigliezza tecnicistica, ma la posta in gioco è così alta da richiedere la massima attenzione. Il diritto al suicidio assistito reclamerebbe la protezione giuridica di un interesse a ricevere aiuto nel porre fine alla propria esistenza, che, come abbiamo visto, risulta difficile ancorare al nostro ordinamento. Ma soprattutto presenta il rischio di una progressiva estensione a casi sempre meno estremi, finendo per legittimare il suicidio come opzione ordinaria di soluzione dei problemi. L’esperienza mostra infatti come, soprattutto in sede giurisprudenziale, sulla base dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, diventi difficile evitare l’allargamento dei criteri di accesso a una certa possibilità – in questo caso quella di essere aiutati a porre fine alla propria vita – solo a determinate categorie di soggetti. Il diritto alla sospensione delle cure contiene invece il proprio limite, non potendosi applicare se non ai casi in cui la sopravvivenza dipende da terapie o trattamenti di sostegno vitale che il paziente considera troppo onerosi, ma non può legittimare alcuna richiesta da parte di chi non si trovi in quelle condizioni.
Da questo punto di vista non è irrilevante una considerazione in merito al contenuto dell’Ordinanza n. 207/2018, che presumibilmente sarà riproposto nella motivazione della sentenza pronunciata lo scorso settembre. La Corte tratta infatti il suicidio assistito come una terapia, e quindi tutela la libertà di scelta terapeutica da parte del paziente consentendovi l’accesso. Ma la somministrazione di un farmaco letale al solo scopo di procurare la morte non può essere definita un atto terapeutico e quindi una delle possibilità tra cui si ha diritto a scegliere. Lo è invece la decisione di sospendere la ventilazione artificiale, attivando contemporaneamente una sedazione profonda e attendendo il sopraggiungere della morte. Ogni trattamento di sostegno vitale che costituisce un intervento terapeutico può essere sospeso: questo non solo risulta perfettamente compatibile con il nostro ordinamento giuridico, ma è un diritto il cui effettivo godimento deve essere assicurato a tutti i cittadini in modo concreto. Per questo la sospensione dei trattamenti terapeutici di sostegno vitale va ritenuta una via più sicura che forme di suicidio assistito, oltre che naturalmente di eutanasia, pur limitate a casi molto particolari. L’esperienza dei Paesi che hanno introdotto nel loro ordinamento questi istituti mostra come, per quanto strette all’inizio, le maglie che consentono di accedervi finiscano inevitabilmente per allargarsi.
La responsabilità di una legge condivisa
Le riflessioni fin qui svolte non si pongono come un commento all’operato della Corte costituzionale, compito che al limite spetta ai giuristi, ma puntano decisamente alla fase che, insieme alla Corte, non possiamo non auspicare che ora finalmente si apra: quella della predisposizione di una nuova normativa che definisca un quadro di riferimento adeguato al nostro contesto, alla luce dei valori la cui tutela è in gioco e delle criticità che sono state da più parti sottolineate.
La combinata lettura dell’Ordinanza n. 207/2018 e del Comunicato stampa dello scorso settembre chiarisce a sufficienza il percorso seguito dalla Corte e il messaggio che essa intende rivolgere al Paese e soprattutto al Parlamento. Afferma in primo luogo che non è possibile gestire le situazioni complesse che la medicina tecnologica rende oggi possibili con uno strumento normativo vecchio di quasi un secolo. Farlo significa rischiare continuamente di ledere interessi e diritti che al tempo in cui la norma è stata redatta nemmeno si immaginava che potessero esistere. Con uguale consapevolezza la Corte ha dichiarato che il proprio intervento, dovendosi limitare alla censura di incostituzionalità di una norma esistente senza poterla emendare, ha una portata ridotta e addirittura rischia di introdurre squarci nel tessuto normativo. Ad esempio, una “depenalizzazione selvaggia” dell’aiuto al suicidio, che la Corte ha scelto di non operare, potrebbe compromettere la tutela di diritti costituzionalmente assai rilevanti e in particolare la protezione delle persone più deboli e vulnerabili da scelte irreparabili.
Resta chiaro, in primis alla stessa Corte, che la sentenza pronunciata in settembre produce un assetto che resta precario: l’intervento legislativo non è dunque meno urgente. Il primo compito che come cittadini abbiamo il dovere di assumerci è quindi stimolare il sistema politico a uscire dalla propria inerzia e farsi carico della questione. L’obiettivo non è quello di avere una legge, ma di averne una buona, che si inserisca nel saldo impianto personalista della nostra Carta costituzionale, tutelando il diritto alle cure e all’assistenza e promovendo forme di prossimità e solidarietà che rendano il riscorso a decisioni estreme una opzione a cui tendenzialmente nessuno senta il bisogno di ricorrere.
In questa linea occorre una più adeguata applicazione della L. n. 38/2010 sulle cure palliative, al momento ampiamente disattesa: alleviare il dolore e far sentire ai malati di essere destinatari di cure anche nelle fasi terminali è di grande efficacia nel contrastare i vissuti di abbandono e di sofferenza in cui spesso si radicano le richieste di eutanasia. Solo così sarà possibile proteggere le persone più deboli e vulnerabili, che è la ratio su cui si fondano sia l’art. 580 c.p., sia le preoccupazioni dichiarate dalla Corte nei suoi pronunciamenti. In sintesi, ben più che a decidere tempi e modi della propria morte, ogni malato ha diritto di percepire che la trama di relazioni che ne ha sostenuto l’esistenza non si sta sfaldando e che la collettività, anche attraverso il sistema sanitario, continua a ribadirgli in modo concreto e credibile: «Noi ci prendiamo cura di te».
Sarebbe irrealistico pensare che l’approdo a una nuova legge dipenda unicamente dalle scelte del Parlamento. Si tratta di una responsabilità collettiva, in cui ciascuno – cittadini, componenti sociali, società civile, istituzioni – deve fare la propria parte, entrando in modo onesto in un dibattito pubblico adeguatamente istruito e approfondito. Per questo è indispensabile un passaggio previo: quello di “deporre le armi”, abbandonando tutti le trincee delle posizioni ideologiche o dei principi astratti e rinunciando a trasformare in vessilli le persone fragili e vulnerabili alla cui tutela la Corte, e soprattutto la Costituzione, ci chiedono di dare priorità. Per il Magistero della Chiesa, questa priorità finisce per diventare una sorta di cartina di tornasole della qualità umana ed etica delle soluzioni proposte, come appare ad esempio dalle parole rivolte da papa Francesco al Comitato nazionale di bioetica (28 gennaio 2016) e all’Associazione medica mondiale (7 novembre 2017).
Si tratta dunque di dar vita a un esercizio di dialogo sociale, che includa la molteplicità di prospettive da cui legittimamente si guarda alla questione, così come tutte le visioni del mondo presenti in una società pluralista. Su altre questioni si può più facilmente accettare la decisione a maggioranza, mentre su questa occorre un maggiore sforzo per la costruzione di un consenso davvero inclusivo. Un passo avanti per tutti potrebbe essere rappresentato dal mettere meglio a fuoco la sottile, ma profonda, differenza tra la sospensione di trattamenti ormai sproporzionati, per tutti accettabile, e l’imposizione di un diritto al suicidio medicalmente assistito, a cui molti sentono di dover resistere, soprattutto in ragione della possibilità che finisca per sdoganare dinamiche di scarto di quanti a una malintesa ideologia dell’efficienza appaiono come un peso per la società. Solo il rispetto e l’ascolto di tutte le posizioni, all’interno dell’orizzonte definito dalla nostra Costituzione, ci consentiranno di arrivare a una legge che potremo autenticamente definire “nostra” in quanto di tutti. Sarà tanto migliore quanto più saremo capaci di impegnarci nel dialogo che la sua elaborazione esige.
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Consiglio Permanente CEI
Card. Bassetti: tra segnali confortanti e inquietudini
Il testo dell’Introduzione del Cardinale Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e Presidente della CEI, ai lavori della sessione autunnale del Consiglio Episcopale Permanente, che si svolge a Roma dal 27 al 29 settembre.
https://www.chiesacattolica.it/card-bassetti-tra-segnali-confortanti-e-inquietudini/
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(…) A fronte di questi segnali non univoci ma carichi di potenzialità, suscita invece una grave inquietudine la prospettiva di un referendum per depenalizzare l’omicidio del consenziente. Autorevoli giuristi hanno messo in evidenza serie problematiche di compatibilità costituzionale nel quesito per il quale sono state raccolte le firme e nelle conseguenze che un’eventuale abrogazione determinerebbe nell’ordinamento. Senza voler entrare nelle importanti questioni giuridiche implicate, è necessario ribadire che non vi è espressione di compassione nell’aiutare a morire, ma il prevalere di una concezione antropologica e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali. C’è una contraddizione stridente tra la mobilitazione solidale, che ha visto un Paese intero attivarsi contro un virus portatore di morte, e un’iniziativa che, a prescindere dalle intenzioni dei singoli firmatari della richiesta referendaria, propone una soluzione che rappresenta una sconfitta dell’umano. Chi soffre va accompagnato e aiutato a ritrovare ragioni di vita; occorre chiedere l’applicazione della legge sulle cure palliative e la terapia del dolore. (…)
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Caso Cappato: depositata la sentenza della Corte Costituzionale sulla punibilità dell’aiuto al suicidio (Corte Cost. 242 del 2019)
Corte Costituzionale, 22 novembre 2019 (ud. 25 settembre 2019), sentenza n. 242 del 2019
Presidente Lattanzi, Relatore Modugno.
22 Novembre 2019 Redazione Giurisprudenza Penale
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