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Pandemia e scenario sanitario internazionale
17-09-2021 – di: Nicoletta Dentico su Volerelaluna*

A quasi due anni dall’inizio del contagio che piega il mondo, e delle inequivocabili pedagogie che assimilano l’emergenza umana all’emergenza sanitaria del pianeta, la salute domina la scena come scacchiera di una partita geopolitica aspra e confusa. L’annunciato nuovo coronavirus – che oramai tanto nuovo non è più – non avrebbe mai dovuto diventare una pandemia. Lo ha dichiarato senza fronzoli il rapporto del Panel Indipendente della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms): la comunità internazionale aveva tutte le competenze tecniche e le regole operative vincolanti per serrare i confini del primo focolaio virale e farne una epidemia circoscritta geograficamente. Non lo ha fatto. La catastrofe sanitaria in cui ci troviamo ancora, con la fame acuita e la crisi socio-economica che fanno da corollario pandemico, è il frutto avvelenato della incapacità dei governi di aderire alle norme del diritto internazionale e di cooperare, come pur accadeva in passato durante la guerra fredda, sul terreno della salute.

Forse sulla scia di questa responsabilità storica non propriamente interiorizzata, la comunità internazionale continua a incontrarsi – non si sono mai visti tanti appuntamenti multilaterali sulla salute globale come nel 2021 – ma nella totale incapacità di andare oltre le formule di circostanza, che sono il metronomo della nostra vita pubblica. Il sostanziale rigetto di un impulso universalistico, sotto l’egida delle istituzioni internazionali deputate a governarlo, si è infilato come un virus nella Babele di iniziative individuali e di strutture che germinano come schegge di un multilateralismo in frantumi.

Qualche esempio? L’Europa ha avviato a gennaio una demarche a favore di un trattato pandemico in seno all’Oms; a maggio la Svizzera ha lanciato il suo BioHub e la Germania il suo l’Hub globale per la intelligence pandemica ed epidemica. A giugno il consigliere scientifico della Casa Bianca, Eric Lander, è partito con l’idea che un vaccino debba essere pronto in 100 giorni dallo scoppio della prossima pandemia e solo qualche giorno fa il presidente Joe Biden, assai poco propenso all’idea di negoziare un trattato, ha proposto un summit internazionale sul Covid-19 e sulle vaccinazioni in concomitanza con la Assemblea dell’ONU a New York. È notizia recente anche il piano di USA ed Europa di resuscitare l’esplosivo Transatlantic Trade and Investment Partnership (notorio come TTIP), dissotterrando il negoziato seppellito nel 2016 per ripescare l’alleanza atlantica in versione anti-Cina. La posta in palio della nuova rotta bilaterale, annunciata prima del G7, non punterà più solo a specifici settori dell’industria, ma all’intelligenza artificiale, alla governance dei dati, agli standard industriali tout court. Il primo incontro del Trade and Tech Council fra Bruxelles e Washington è previsto a Pittsburgh il 29 settembre .

La pandemia insomma ha ridisegnato i contorni dell’ordine internazionale, non solo sanitario, con impreviste forme di protagonismo e pigli di potere debitamente mascherati dalla retorica della interdipendenza, della cooperazione. La comunità internazionale si proietta in un futuro pandemico come fosse un destino a cui non può più sottrarsi. Vero: altre pandemie prosperano silenziose – ad esempio la antibiotico-resistenza, per cui l’Italia vanta il record di casi nel contesto europeo; incombe il pericolo di nuovi salti di specie dei virus, in linea di continuità con le incalzanti zoonosi che hanno marchiato l’inizio del millennio – visto che nessuno sembra intenzionato a mettere in discussione il conflitto irriducibile fra capitalismo e sostenibilità ecologica.

Ma la costruzione di uno scenario di “preparazione e risposta alle pandemie” (pandemic preparedness and response), al posto di una loro futura prevenzione, serve eccome a riconfigurare gli assetti della governance sanitaria mondiale. È una prospettiva munifica di benefici per quanti indirizzano la salute verso pratiche sempre più securitarie e personalizzate grazie a soluzioni tecnologiche non più obiettabili, perché considerate la strada più economica e affidabile per intercettare ogni avvisaglia futura. I cantori di questa strategia, tutt’altro che neutrale, apparecchiano danni ambientali non trascurabili ma soprattutto non trascurabili profitti per l’industria digitale che nessuno controlla, men che meno in tempo di pandemia.

Dal canto loro, è chiaro che le aziende che producono vaccini non hanno alcun interesse ad eradicare la pandemia, casomai puntano a endemizzarla, così da prolungare al massimo la grande abbuffata che Covid-19 ha servito su un piatto d’argento. Uno tsunami di investimenti pubblici e zero rischi d’impresa: in un anno la pandemia ha generato 8 nuovi miliardari farmaceutici, 5 dei quali afferiscono alla start up americana Moderna. L’idea di un Global Health Threats Board and Fund per gestire le emergenze sanitarie, avanzata dal Panel indipendente dell’Oms e dal G20 con la benedizione della amministrazione americana, va dritta in questa direzione: l’ennesimo dispositivo multi-stakeholder per una nuova immuno-politica farmaco-digitale. Con lauti finanziamenti pubblici, l’industria farmaceutica terrà ben stretto il coltello dalla parte del manico per sfornare le tecnologie bioinformatiche e le soluzioni biomediche per future pandemie.

Nell’aprile 2020, la creazione dell’Access to Covid-19 Tool Accelerator (ACT-A) per la ricerca e distribuzione globale dei rimedi contro il Covid – proposto dalla Fondazione Gates con l’estatica accoglienza della Commissione Europea e della presidenza francese, e l’imprimatur della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) – ha decretato la scelta della comunità internazionale di affidare a partnership pubblico-private la gestione internazionale della prima crisi di salute planetaria. Sono entità di diritto privato e densamente popolate da Big Pharma come Global Alliance for Vaccine Immunization (GAVI) e Coalition for Epidemic Preparedness and Innovation (CEPI), che detengono la conduzione operativa della emergenza su scala globale, finanziata dai governi. Con inspiegabile euforia, l’analista brasiliano Carlos Federico Pereira da Silva Gama scrive che il pilastro vaccinale di ACT-A, COVAX, è il trampolino di lancio della nuova governance della salute globale dopo la pandemia. Peccato che COVAX sia «una sorta di banca d’affari che usa capitali pubblici per conformare l’industria della preparazione dei vaccini e il mercato dei consumatori nel Sud del mondo», con grave vulnus per la cooperazione multilaterale, secondo l’ex diplomatico Harris Gleckman.

Nella retrocessione e deformazione del ruolo dello Stato, i governi dei paesi più influenti non risultano quasi più distinguibili dal settore privato, ingabbiati come sono in politiche che generano iniquità, ma condite di parole positive che vengono di volta in volta profanate, sfigurate: People, Planet, Prosperity, Peace and Partnership. L’adesione governativa alle classiche istituzioni sanitarie multilaterali si è friabilizzata con la progressiva istituzionalizzazione degli interessi privati degli ultimi venti anni.

Oggi la surreale incapacità di un impegno governativo adeguato alla razionale pedagogia di Covid-19 non risparmia nessuno. Ne è un recente esempio la sessione ministeriale del G20 salute tenutasi a Roma il 5 e 6 settembre con il banner ufficiale “Together Today for a Healthier Tomorrow” (“Insieme oggi per un domani in miglior salute”). Questa si è conclusa con il cosiddetto “Patto di Roma”, un documento di undici pagine infarcite di aspirazioni altisonanti sistematicamente smentite dalla realtà di apartheid sanitario nella gestione della pandemia. Il ministro Roberto Speranza ha dichiarato che il Patto di Roma «manda un messaggio fortissimo al mondo: che il globo è unito». Ma le fonti raccolte alla vigilia dell’incontro, e il suo svolgimento seguito in diretta dai colleghi del G-20, raccontano di tensioni insanabili all’interno. Soprattutto, ma non solo, fra Stati Uniti e Cina. Tali per cui non si va oltre i luoghi comuni e la vaghezza operativa.

Così, nel secondo anno pandemico, la salute resta terreno di un confronto aspro. D’altronde, la disuguaglianza nella distribuzione e somministrazione globale dei vaccini restituisce una realtà molto netta: la solidarietà resta un miraggio, impigliata com’è nei fili spezzati di un multilateralismo di facciata. L’IMF-WHO COVID-19 Supply Tracker, il dispositivo che fornisce i dati aggiornati sulle linee di approvvigionamento certe o attese di vaccini in rapporto alla popolazione, spiega come Canada, Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Stati Uniti si siano assicurati dosi per una copertura stimata tra 200 e 400% della loro popolazione. Ursula von der Leyen ha annunciato il 70% di copertura in Europa a fine agosto. Ma le 5,3 miliardi di dosi somministrate finora hanno raggiunto solo l’1,6% della popolazione del Sud del mondo, con la prima iniezione. E così 3,5 miliardi di persone attendono la prima vaccinazione, in uno scenario tecnicamente complicato da vaccini Covid inadatti ai paesi con scarse strutture sanitarie – si pensi alla improbabile catena del freddo, o alla necessità della doppia dose in assenza di registri vaccinali centralizzati.

Si contano 4,6 milioni di decessi a causa di Covid-19, ma il numero reale potrebbe essere almeno il doppio, visto che la pandemia è sempre più concentrata nei paesi del Sud globale. Così, mentre COVAX rivede al ribasso le proiezioni di fine anno per la distribuzione dei vaccini, lo iato tra accaparramento vaccinale dei paesi ricchi – oggi concentrati sulla terza dose – e la radicale penuria di vaccini nei paesi impoveriti si aggrava, soprattutto in Africa.

Si stima che la popolazione africana raggiungerà il 60% di copertura vaccinale solo nella metà del 2023 – con una perdita di PIL calcolata in ragione di 2,3 miliardi di miliardi di dollari tra il 2022 e il 2025. Nella sola Italia a presidenza G20 (60,36 milioni di abitanti) sono stati somministrati più vaccini di quanto non siano stati iniettati in tutto il continente africano (1,3 miliardi di persone). Come all’inizio, questa condizione spiana la strada alla cinetica del virus, più ostica in forza delle nuove varianti. E infatti i casi, le ospedalizzazioni, le morti stanno in risalita in molte parti del pianeta. Israele, la nazione apripista per le spregiudicate strategie vaccinali dell’inizio 2021, si ritrova in piena ripresa del contagio con la variante Delta dominante e la Mu che emerge sulla scena: 1.000 casi su 1 milione di abitanti, il numero più elevato al mondo.

Ma il G20 salute non demorde. Neppure il rutilante Patto di Roma, in cui i paesi del G20 si impegnano a fare di tutto, si azzarda a osare un minimo accenno alla concreta misura politica, prevista dal diritto internazionale, che riguarda la sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale (TRIPS Waiver). Fra i suoi Stati membri, il G20 annovera India e Sudafrica promotori della proposta: in febbrile discussione mentre scriviamo al Consiglio dei TRIPS, al WTO. Non basta l’insistenza di diversi governi del G20 in favore del waiver per trovarne un riferimento nel documento della ministeriale: la stucchevole retorica sul vaccino bene comune si incaglia per la seconda volta, dopo il summit sulla salute globale del G20 del 21 maggio, nel silenzio tombale su questa ipotesi di lavoro sostenuta da oltre cento paesi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e da molte istituzioni internazionali.

La sospensione dei diritti di proprietà intellettuale forzerebbe una transizione verso la logica di cooperazione tra Stati, spesso del tutto inconsapevoli dei meccanismi che regolano l’industria farmaceutica. Indicherebbe una possibilità di nuove rotte per immunizzare la comunità internazionale dal feudalismo della economia della conoscenza. Ma no: questo waiver non s’ha da fare, secondo il G20. Né ora né mai.

Anzi, la politica è in piena fase regressiva su questa materia. Covid ha dato alla UE il pretesto per rivedere il Piano di Azione sulla proprietà intellettuale a sostegno della strategia di Ripresa e Resilienza, per indirizzarlo al sconcertante rafforzamento della proprietà intellettuale e alla promozione sperticata delle licenze volontarie come «la via maestra per la condivisione della conoscenza». La stessa cosa sta facendo in Italia il MISE con il piano di riforma della proprietà industriale. Non deve dunque sorprendere la sindrome da rimozione del G20 e del Patto di Roma. Il documento cita sì la necessità di diversificare e rafforzare le produzioni medicali nel Sud del mondo, abbattendo però solo gli ostacoli commerciali e doganali. Il G20 prevede un complesso meccanismo di spinta pubblica alle aziende farmaceutiche perché trasferiscano le loro tecnologie con licenze volontarie che lasciano intatti i monopoli della scienza medica. Uno scenario che si sta dinamizzando da qualche mese, ma anche con vicende paradossali. Alla vigilia del G20 Salute, Ursula von der Leyen ha accettato alla fine di rimandare in Africa milioni di dosi di vaccini anti-Covid prodotti dalla joint venture di Johnson & Johnson e la sudafricana Aspen Pharmacare: erano stati esportati in Europa!

Intanto le decisioni del G20 che contano sulla salute saranno forse prese nella sessione congiunta salute-finanze di fine ottobre. Il sito del ministero della Salute lo annuncia: sarà la sede «per affrontare in particolare la questione fondamentale di come migliorare l’architettura globale della sanità». Spetta dunque alle logiche finanziarie sancire le priorità sanitarie da sostenere, in uno schema di gioco che rischia di ripetere quanto già visto dagli anni ’90 in poi con Banca Mondiale e FMI. Non c’è di che stare tranquilli: uno studio della Initiative for Policy Dialogue della Columbia University segnala uno tsunami di politiche di austerity in arrivo. Le analisi delle proiezioni fiscali del Fondo Monetario Internazionale (FMI) indicano che nuove misure di austerity sono attese in 154 paesi nel 2021 e in 159 paesi entro il 2022 – una pandemia finanziaria che si abbatte su 6,6 miliardi di persone, l’85% della popolazione mondiale, e con una tendenza patologica destinata a durare fino al 2025.

David Quammen ha scritto che non eravamo preparati alla pandemia per mancanza di immaginazione. Forse è questo il vero virus che uccide molto più di Covid.

*L’articolo, tratto dal sito di Sbilanciamoci!, è ripubblicato da Volerelaluna, con cui è in atto un accordo di collaborazione.
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Il Servizio sanitario nazionale è arrivato impreparato all’appuntamento con il COVID-19, penalizzato da anni di de-finanziamento, di tagli dei posti letto e del personale e da politiche che hanno inciso negativamente sulla tenuta dei servizi territoriali e di prevenzione. Ha mostrato le sue debolezze e fragilità. Rapidamente si è sviluppato un generale consenso politico sulla necessità di rafforzare il servizio sanitario nazionale. Ma passata la fase acuta della pandemia, la sanità è ben presto tornata a occupare la parte bassa della classifica delle priorità̀ del paese.
La conferma che non fosse in vista alcun rafforzamento del SSN è arrivata già lo scorso aprile quando il Governo ha reso note le previsioni di andamento della spesa sanitaria pubblica. Se dal 2017 al 2020 questa percentuale era rimasta ferma al 6,6% del PIL (tra le più̀ basse in Europa), impennandosi al 7,3% nel 2021 a causa delle spese COVID, la tendenza programmata negli anni successivi mira decisamente al ribasso: 6,7% nel 2022; 6,6% nel 2023 e addirittura 6,3% nel 2024.
Un pessimo segnale che indica il ritorno allo scenario che, a partire dal 2011, ha penalizzato il SSN, riducendo risorse umane e strutturali, tagliando l’offerta pubblica di servizi, provocando lo scandaloso allungamento delle liste d’attesa e favorendo l’espansione dell’offerta privata, trainata anche dalla diffusione di varie forme di assicurazioni integrative aziendali. La lezione della pandemia non è servita.
Diversi indizi stanno anzi a indicare che è sempre più attuale il disegno di privatizzare la sanità italiana, iniettandovi generose dosi di mercato.
Primo indizio: il personale del SSN al palo
Mentre si registra un grande attivismo per garantire ai soggetti privati l’accesso ai finanziamenti europei nessuna buona notizia arriva dal fronte del personale del SSN che nell’ultimo decennio ha subito una drastica riduzione. E non c’è alcun segnale di inversione di tendenza dati i limiti previsti nella spesa corrente e la mancata rimozione dei vincoli che limitano le assunzioni stabili. Infatti le assunzioni di medici e infermieri, effettuate in emergenza Covid, sono state tutte a tempo determinato. Ed è anche necessario un maggior impegno affinché le Università adeguino la loro offerta formativa alle esigenze della popolazione.
Nel frattempo continua la fuga all’estero del nostro personale sanitario. Nell’ultimo decennio sono 10mila i medici italiani migrati all’estero, che arrivano a rappresentare il 50% dei medici stranieri presenti in Europa. Questa è la priorità assoluta: formare ed assumere alcune migliaia di medici e infermieri nei servizi pubblici.
Secondo indizio: la lentezza nella ripresa dell’attività ordinaria
Durante la pandemia gran parte dei servizi sono stati ridotti o addirittura sospesi, con ricadute negative sulla salute delle persone. La ripresa delle attività ordinarie fatica ora a vedersi, e i pazienti si stanno abituando a evitare le strutture pubbliche, per lo più in ristrutturazione e riorganizzazione. Si ricorre quindi al privato che al contrario, avendo partecipato solo marginalmente alle attività emergenziali, non ha bisogno di grandi ricostruzioni. Il rischio è che i 500 milioni messi a disposizione per smaltire le liste di attesa siano destinati tutti al privato, anziché a rinforzare la ripresa delle attività nel SSN, indebolendo ulteriormente l’offerta pubblica e aumentando il potere di mercato di molti soggetti privati. Così come, i fondi del PNRR per l’assistenza domiciliare integrata rischiano di essere destinati a erogatori privati anziché a rafforzare la presa in carico globale e integrata da parte dei servizi pubblici.

Terzo indizio: concorrenza sleale
Nel marzo del 2021, l’Autorità̀ Garante della Concorrenza e del Mercato rivolgendosi al Presidente del Consiglio dei Ministri con la sua annuale Segnalazione di Proposte di riforma concorrenziale ha sollecitato: “… una maggiore apertura all’accesso delle strutture private all’esercizio di attività sanitarie non convenzionate grazie a … una più intensa integrazione fra pubblico e privato volta ad incentivare la libera scelta di medici, assistiti e terzo pagante”. Vi è anche l’invito a eliminare “… il vincolo della verifica del fabbisogno regionale di servizi sanitari, prevedendo che l’accesso dei privati all’esercizio di attività̀ sanitarie non convenzionate con il SSN sia svincolato dalla verifica del fabbisogno regionale di servizi sanitari”.
Ci auguriamo che il Governo respinga – come accaduto nel passato – una raccomandazione pericolosa che assimila gli ospedali alle imprese. Certamente si tratterebbe di concorrenza sleale il comportamento di un Governo che da una parte apre i rubinetti della concorrenza tra pubblico e privato e dall’altra lega le gambe al competitore pubblico.
Quarto indizio: il modello lombardo è OK
La lezione della pandemia avrebbe dovuto produrre profonde correzioni a un modello di sistema sanitario (dimostratosi fallimentare nella lotta al Covid) che aveva cancellato la rete dei servizi territoriali pubblici, affidando l’erogazione delle prestazioni domiciliari ad agenzie private, e instaurato in campo ospedaliero una concorrenza tra settore pubblico e settore privato, fortemente squilibrata a favore del secondo. Tale modello era il frutto di riforme avviate fin dal 1995 dalla presidenza Formigoni e proseguite con la riforma Maroni del 2015. Tale riforma aveva carattere sperimentale e soggetta, dopo 5 anni, alla valutazione da parte del Ministero della salute, che ha deciso di delegare tale funzione all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Con una stringata lettera del 30 luglio scorso Agenas da il suo OK preventivo alla riforma, dopo che ne sono state annunciate minime, cosmetiche correzioni.
Alla vigilia della predisposizione della legge di bilancio 2022 e della annunciata legge sulla concorrenza, è indispensabile correggere questi indizi e la nostra Associazione presenterà un documento più dettagliato di analisi e proposte per intraprendere la strada giusta che permetta di rafforzare il sistema sanitario pubblico.
14 settembre 2021.
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Il documento presentato in conferenza stampa dall’associazione Salute Diritto fondamentale. Per maggiori informazioni potete utilizzare il sito: https://salutedirittofondamentale.it/.
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In homepage l’immagine “E guarirai da tutte le malattie… ed io, avrò cura di te” (Dio smaterializza la struttura molecolare del Coronavirus COVID-19 sull’Italia e sul mondo per porre fine alla pandemia del 2019-2020), china su graphia, opera dell’artista Giovanni Guida, 2020, tratta da Wikimedia Commons

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