L’innovazione nella politica ritrovata nel passato.

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Il partito sociale. Un’idea sempre attuale
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23 Luglio 2021 by c3dem_admin | Su C3dem.
di Sandro Antoniazzi.
E’ un vero peccato e una grande perdita per la coscienza collettiva del paese che la rigida separazione tra ideologie contrapposte abbia a lungo impedito di apprezzare adeguatamente l’apporto culturale di persone appartenenti a file avverse.
Molte prevenzioni sembrano oggi cadute congiuntamente al parallelo venir meno delle ideologie.
In questo spirito vorrei richiamare l’attenzione sull’esperienza di Osvaldo Gnocchi Viani, socialista umanitario vissuto a Milano nella seconda metà dell’ottocento e nei primi anni del novecento, il cui rilevante contributo di pensiero merita di essere conosciuto e valorizzato ancora oggi.
Gnocchi Viani (Viani è il cognome della madre che Gnocchi, femminista ante-litteram, aveva aggiunto a quello del padre) non è certo una figura di secondo piano: è stato il fondatore della Camera del Lavoro di Milano, della Società Umanitaria, delle Università Popolari e del Partito Operaio Italiano (predecessore del Partito Socialista).
Aveva una visione molto ampia del socialismo, che considerava rivolto all’intera umanità; era in questo un socialista integrale (integralista, nel linguaggio del tempo): lo era innanzitutto sul piano delle diverse correnti, che lui chiamava scuole, e che, a suo parere, potevano tutte concorrere democraticamente alla comune battaglia (era però critico della corrente “autoritaria” – quella marxista – perché temeva la centralizzazione e analogamente, dopo aver visitato la Germania, diffidava del socialismo tedesco, rigido e gerarchico, mentre le sue preferenze andavano a un socialismo articolato e decentrato).
Era poi socialista integrale perché pensava che il socialismo riguardasse ogni aspetto della vita umana (filosofia, religione, diritto, economia, arte, politica) e per realizzare tale progetto riteneva che non fosse sufficiente la classe lavoratrice; un obiettivo così grande richiedeva il concorso di una pluralità di forze.
Comprendeva l’importanza del fattore economico, ma era reticente ad attribuirgli un ruolo preminente e considerava un pericoloso errore motivare l’iniziativa delle masse con la leva degli interessi materiali.
Per lui la questione operaia era solo una parte della più ampia questione sociale: le classi lavoratici non sono tutto il consorzio umano e non solo i lavoratori sono “irredenti”.
Il fine ultimo era quello, enunciato dall’Internazionale, della realizzazione di un’unica Grande Famiglia Umana, una visione ottimistica di affratellamento e di cooperazione, che confliggeva con la tesi darwiniana della lotta permanente fra gli uomini per la loro sopravvivenza.
Per perseguire questo scopo era importante partire dal basso, trasformando la coscienza dei lavoratori e dei cittadini.
Non si trattava solo di elevare il livello di istruzione, ma di dotare i lavoratori di una capacità critica, per essere in grado di comprendere il funzionamento della società, resistere all’ambiente intellettuale dominante e non essere subalterni ai capi politici, compresi quelli socialisti.
Occorreva contrastare un ambiente sociale che condiziona le persone e che forma la “sedicente opinione pubblica”, vero ostacolo al rinnovamento sociale.
Per essere un soggetto attivo la classe lavoratrice aveva bisogno di una cultura alternativa e anche di una morale che non fosse quella individualistica imperante.
La borghesia si era affermata perché era riuscita a imporre la propria cultura; per cambiare la società era necessario affermare una moralità diversa, perché solo un’umanità migliore avrebbe potuto realizzare una società migliore.
Così Gnocchi Viani non teme di sostenere che è necessario un rinnovamento interiore (pensiero tanto caro ai cattolici) e dimostrare una coerenza di vita: gratuità, disinteresse, sobrietà, sacrificio.
E’ decisamente contrario alla scuola autoritaria perché, con una visione lungimirante del futuro, riteneva che la dittatura di una classe tendeva sempre a risolversi nella dittatura di pochi, se non di uno solo.
Ma era anche critico della visione, propria dei parlamentari socialisti, della conquista del potere, perché essa limita l’orizzonte ideale e politico a ciò che si riesce a ottenere in sede parlamentare, facendo venir meno la forza insostituibile del movimento, cioè l’iniziativa e la volontà di riscatto dei lavoratori.
La sua concezione dei partiti politici (partito socialista compreso) è del tutto concorde con le critiche odierne: formano una casta (usa proprio questo termine), sono separati dalla base, limitano l’intera azione politica alle sole manovre parlamentari.
I partiti hanno una logica gerarchica, perché il governo è sempre governo di pochi.
Il partito politico soprattutto è lontano dalla questione sociale, non è in grado di gestirla, mentre la questione sociale è il fondamento della politica della classe lavoratrice.
Per questo Gnocchi Viani oppone al partito politico, il partito sociale, che ha alla sua base il principio associativo, il quale è orizzontale, solidaristico, cooperativo, federativo.
Il partito sociale è quello che ha il popolo come fine e dunque è per il potere diffuso e opera nella vita “pubblica”, non in quella “politica”, che è propria dei partiti politici e del loro modo di agire verticistico.
E ancora: i partiti politici pensano alla demolizione della vecchia società, sostenendo i principi liberali e individualisti propri dell’illuminismo, mentre i partiti sociali si dedicano a un’opera innovativa, la costruzione della società di domani.
E poiché l’alienazione economica e quella politica e culturale dei lavoratori vanno tutte assieme, altrettanto devono andare assieme la liberazione economica, l’autogoverno e l’arricchimento delle idee proprie.
La sua visione ideale rifuggiva pertanto dalle visioni governative e stataliste (considerava lo Stato “una bottiglia di vino cattivo”) per preferire, in alternativa, un sistema federativo di Amministrazioni comunali, nelle quali sarebbe stata possibile una partecipazione attiva dei cittadini.
Sarebbero molte le considerazioni che si potrebbero fare sulla nostra realtà attuale, stimolati dalle idee di Gnocchi Viani. In questa sede mi limito a due.
Innanzitutto, mi sembra che siamo troppo succubi di come funziona il sistema attuale: globalizzazione, comunicazioni di massa, multinazionali, Google, Amazon, ecc…; diamo tutto per scontato e rischiamo così di perdere la grande tradizione delle nostre municipalità.
Se è giusto accogliere e affrontare la dimensione mondiale come componente ormai normale della nostra vita, questo non deve avvenire negando e distruggendo la realtà umana, civile e culturale delle nostre città e dei nostri territori.
In secondo luogo, mi sembra che ci sia troppa arrendevolezza sul piano culturale e dei valori, quasi ormai rassegnati, per la sproporzione di forze, ad accettare di tutto.
Forse Gnocchi Viani era troppo idealista e viveva in una società più semplice.
Ma non è ora di riprendere una battaglia culturale più critica rispetto a tante tendenze che si diffondono?
Quando in Francia, all’inizio dell’ottocento, Pierre Leroux coniava la parola “socialista” non aveva in mente un partito, ma semplicemente un termine che era il contrario di “individualista”.
Si trattava di due parole equivalenti: l’individualista è colui che guarda all’interesse proprio, il socialista colui che guarda all’interesse comune, collettivo.
Non si potrebbe ritornare oggi all’uso originale e vedere di formare più “socialisti” e meno “individualisti”?

Sandro Antoniazzi
luglio 2021
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Sulla figura di Osvaldo Gnocchi Viani ha molto indagato Pino Ferraris. Di queste ricerche diamo conto in diversi articoli del nostro periodico: https://www.aladinpensiero.it/?s=Pino+Ferraris
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Contributi al dibattito su “Crisi del Welfare ed economia civile”. Il pensiero di Pino Ferraris
ferraris pino LIBROape-innovativa Proseguiamo nel riproporre le riflessioni di Pino Ferraris (anche con la mediazione di altri che ne hanno studiato il pensiero), utilizzando la documentazione pubblicata dalla news online “Controlacrisi” per ricordarne la figura all’indomani della sua morte avvenuta il 2 febbraio 2012. I contributi teorici di Pino Ferraris mantengono una straordinaria validità per affrontare oggi la crisi che attraversiamo drammaticamente e che è crisi insanabile del capitalismo, indirizzandoci nella ricerca di soluzioni diverse anche da quelle in buona parte fallimentari dei modelli storicamente attuati del socialismo reale. Pino Ferraris negli anni 70 frequentava spesso la Sardegna, spendendosi generosamente nei movimenti della sinistra alternativa, apportando la sua capacità di teorico e ricercatore appassionato e rigoroso, maestro per molti di noi giovani (allora) militanti della nuova sinistra sarda.
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PINO FERRARIS SULLE PRATICHE DI NEO MUTUALISMO E AUTORGANIZZAZIONE

Pino Ferraris fto microConclusione di Pino Ferraris al Convegno sulla Mutualità promosso dalla Società di Mutuo Soccorso d’Ambo i Sessi “Edmondo De Amicis” di Torino –

L’ultimo intervento del rappresentante della Società Operaia di Orbassano ha portato un importante contributo di chiarezza nel dibattito in corso. Evitiamo – egli ha affermato – di identificare le Società di Mutuo Soccorso con le “mutue”.
In questo caso, di fronte alla realizzazione della riforma sanitaria come diritto dei cittadini alla salute, il loro compito sarebbe residuale, modestamente integrativo o pericolosamente sostitutivo di diritti fondamentali.
Nel corso della prima sessione del convegno intitolata “Che cosa ci insegna la storia della mutualità”, Marco Revelli ha parlato di questa esperienza come di una grande scuola di auto-organizzazione e come anello di congiunzione tra la cultura dei mestieri e i problemi degli ambiti di vita e infine come uno storico movimento di costruzione di nuove relazioni sociali basate sul principio di solidarietà. Occorre non perdere mai il senso di questa profonda ed ampia ispirazione delle società di mutuo soccorso.
Nella seconda sessione del convegno dedicata a “Crisi del Welfare ed economia civile” è stata sollevata una domanda molto pertinente: perché oggi c’è una ripresa del mutualismo? Quarant’anni fa si parlava di altre cose. Questo ritorno rappresenta soltanto un tentativo di risposta alla crisi del welfare oppure ha una valenza politica?
Revelli ha affermato che il movimento operaio del 900 ha vissuto di rendita sulla grande ondata istituente di nuove forme associative suscitate nella seconda metà dell’800: il mutuo soccorso, le leghe di resistenza, la cooperazione, le case del popolo, il partito di massa.
Il 900 non ha solo ereditato la rendita di queste risorse associative, ma a partire dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale esso ha anche operato una torsione burocratica, politicista e statalista del patrimonio del movimento operaio ottocentesco.
Qui sta la ragione principale del mancato riconoscimento storiografico del mutualismo: con esso si è rimossa la sua ispirazione autogestionaria, il suo radicalismo democratico, la sua affermazione delle autonomie del sociale.
Il ritorno del mutualismo significa anche e soprattutto ricerca di nuove vie della politica dopo la crisi di socialismi autoritari, di sistemi politici oligarchici e autoreferenziali, dopo le deviazioni del welfare verso forme di paternalismo statale selettivo e clientelare.
Dentro lo sviluppo del volontariato, di movimenti di cittadinanza attiva, di buone pratiche di cittadinanza negli anni 80 e nei primi anni 90, si aprivano possibilità di sussidiarietà circolare (Cotturri) tra istituzioni e associazioni in grado di far emergere una sfera pubblica sociale (che non è il cosiddetto privato-sociale). La stagione dei “nuovi sindaci” prometteva l’articolazione di un welfare locale. Tutto ciò sembrava rompere la rigidità, la selettività, la freddezza burocratica dell’offerta di welfare e aprire varchi all’intervento attivo, competente e propositivo della domanda sociale, rendendo visibili ed esigibili diritti negati o elusi dei cittadini.
E’ possibile rompere il nesso assistenza-dipendenza? E’ possibile che i “destinatari” dell’offerta di welfare diventino anche attori proponenti di una domanda sociale nuova e appropriata? E’ possibile che l’”oggetto” delle pratiche di tutela politica e amministrativa possa entrare sulla scena pubblica come “soggetto”?
E’ in questa ottica che per anni con altri amici e compagni abbiamo lavorato non per tamponare una “crisi” del welfare ma per realizzare un nesso tra “riforma” ed “estensione” del welfare e i valori di autonomia sociale, le pratiche di partecipazione e di solidarietà di un neo-mutualismo.
Oggi sono più prudente nel privilegiare questo rapporto neo-mutualismo e welfare. Non solo perché questo riferimento al welfare mi pare riduttivo, ma anche perché su questo terreno le strade si sono fatte oggi più strette e i percorsi quasi impraticabili.
Come si colloca il neo-mutualismo dentro quell’insieme di pratiche sociali che vengono sommariamente riassunte nella definizione del “terzo settore”?

Recentemente a Roma si è tenuto un convegno dal titolo significativo: Terzo settore, fine di un ciclo. La relazione era di don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capo d’Arco, altre relazioni erano di Giovanni Nervo, di Giuseppe De Rita, di Carniti. Concludeva Giulio Marcon.
De Rita in poche parole ha fissato la situazione: “Oggi il volontariato è in qualche modo uno spazio per anziani generosi, mentre la dimensione più giovanile e anche quella più settorializzata va verso un’altra direzione che approda alla cooperazione di servizi, alle imprese sociali, che sono una cosa molto diversa dal volontariato.”
Una riforma del Welfare richiede non solo la capacità di dare rilevanza sociale e politica al lato attivo, competente e propositivo della domanda sociale, come avvenne con il volontariato degli anni 80 e primi anni 90, ma esige in primo luogo un forte impegno politico generale nel rendere giusta la solidarietà fiscale, nel rendere equa la solidarietà assicurativa. Solo così la solidarietà quotidiana può evitare il pericolo di decadere in una supplenza di diritti negati.
[segue]
Oggi vediamo invece che i cardini del welfare, scuola, sanità e previdenza, sono presi a picconate. Hanno spazio crescente le ibride macchine organizzative, che sono un misto di degradato parastato e di cattiva imprenditorialità, cui viene affidata l’esternalizzazione dei servizi sociali.
Cooperative e imprese sociali, fondazioni bancarie, iniziative caritatevoli e filantropiche accompagnano il progressivo smantellamento del sistema pubblico di garanzie e di protezione sociali.
Il cosiddetto terzo settore non ha più niente a che fare con il volontariato e con la cittadinanza attiva. L’attuale “Forum del terzo settore” rappresenta la congiunzione traversale tra la Compagnia delle Opere, la Lega delle Cooperative e le Fondazioni bancarie. Questa è la realtà. Il resto è letteratura.
Quando Vendola nella sanità pugliese internalizza migliaia di soci di pseudo-cooperative degli appalti, non attacca un sistema di solidarietà ma fa semplicemente un’opera minima, indispensabile di moralizzazione e di garanzia di efficacia della sfera pubblica.
Con ciò non dico di abbandonare la prospettiva di un welfare locale attivo, di una sussidiarietà circolare che promuova la domanda associata. Ma occorre prendere atto dello stato delle cose, degli errori fatti, ripensare il futuro e avere ben chiaro che le minoranze attive del volontariato sono nate e vivono per rendere esigibili, effettivi i diritti sociali e non per coprire ideologicamente la regressione dall’universo dei diritti alla supplenza della benevola elargizione o alla deriva del “mercato sociale”.
Detto questo vorrei riprendere un discorso più generale e di carattere storico per dire la mia opinione sul vostro dibattito circa reciprocità, fraternità, altruismo e dono.
Sul piano storico vorrei marcare con forza la valenza del mutualismo nel determinare quella rottura nella storia sociale europea determinata dalla contemporaneità genetica dell’insorgere dell’idea di solidarietà e la nascita del moderno movimento operaio e socialista. Una data simbolica: il 1848 parigino, quando i giornali operai modificano la triade libertà, uguaglianza e fraternità sostituendo quest’ultima con la parola solidarietà.
Nell’Enciclopedia di Diderot il termine “solidarietà” è illustrato in sette righe che riprendono il concetto di “obbligatio in solidum” del diritto romano. Essa è definita come “la qualità di una obbligazione nella quale più debitori si impegnano a pagare una somma che essi prendono in prestito o che debbono”.
Parecchie pagine nell’Enciclopedia sono invece dedicate alla parola “fraternità” con una ricostruzione storica che conduce questo termine a due tradizioni: quella dell’unità di sangue tra i “fratelli d’armi” e quella della fratellanza cristiana che unisce attorno al Padre divino.
Di fronte all’insorgere della questione sociale queste due tradizioni evolvono verso la sollecitazione morale all’oblazione dall’alto verso il basso in nome di una comune appartenenza: fratelli in quanto figli della patria, fratelli in quanto figli di Dio. Diventa la parola della carità cristiana e della filantropia massonica.
L’affermazione della “solidarietà” operaia avviene nel 1848 parigino in polemica con la “fraternità”: essa rivendica il valore pratico e ideale del “far da sé solidale” che si contrappone in quanto agire cooperativo al self help individualistico e si oppone, in quanto capacità del far da sé, all’oblazione filantropica e caritatevole.

La solidarietà tra i lavoratori esprime un loro interesse perchè è fondamentale eliminare la concorrenza e impegnarsi in un’azione cooperativa che sola può permettere di superare l’asimmetria di potere che essi come singoli vivono e subiscono nel lavoro e nella società.
E’ un interesse che però esprime un insieme di valori, un sentimento morale radicato in un vissuto comune e si manifesta in proprie regole di comportamento e forme associative. Il concetto e l’esperienza della solidarietà stanno alla base delle molteplici forme dell’associazionismo operaio delle seconda metà dell’800: dal mutuo soccorso alle leghe di resistenza, dal movimento cooperativo alle Case del Popolo.
Il termine di solidarietà richiama la cooperazione tra uguali nonostante la diversità: è un modo di confederare l’eterogeneo.
La prevalenza nel corso del 900 di una concezione monolitica della classe operaia fa declinare l’uso di questo termine nella seconda e terza internazionale.
Non solo non c’è conflittualità tra “diritti sociali” e mutualismo, ma vi è complementarietà. L’apporto del mutuo soccorso, nella fase aurorale dell’ascesa dei diritti sociali, è indubbio.
All’interno della cerchia dell’associazione il vincolo di reciprocità (uno per tutti, tutti per uno) faceva sì che il singolo lavoratore, di fronte alle sventure dell’esistenza, per la prima volta cessasse di rovinare nella condizione del bisognoso che implorava benevolenza verso l’alto, diventando invece un soggetto portatore del diritto al sostegno solidale da parte dell’associazione.
Revelli ha accennato al rapporto tra associazione di mestiere e mutuo soccorso.
Credo che la relazione tra mutualità e resistenza meriti un cenno ulteriore sia per comprendere l’evoluzione delle forme della solidarietà sia perché, a mio avviso, oggi si ripropongono rapporti nuovi tra sindacalismo e mutualismo.
Il primo associazionismo operaio si sviluppa come forma di autotutela rispetto ai gravissimi disagi e alle minacce che l’industrialismo faceva incombere sulle condizioni di vita dei lavoratori (il “flagello dei quattro diavoli”: disoccupazione, malattia, infortunio, vecchiaia).
Il mutuo soccorso viene prima della resistenza e dentro il mutuo soccorso si alimenta la resistenza, cioè la lotta rivendicativa negli ambiti di lavoro.
Un caso di grande ed esemplare rilevanza è la rivolta dei tessitori di Lione del 1831. All’origine di quel moto dal sicuro contenuto sindacale (i lavoratori rivendicavano un aumento delle tariffe) si collocava la presenza e l’attività della Societé du Dévoir Mutuel.
Durante i grandi scioperi biellesi del 1878, che meritarono la prima inchiesta parlamentare, fu la Società Operaia di Mutuo Soccorso dei tessitori di Crocemosso che venne sciolta come responsabile delle lotte.
Insieme a questa relazione stretta si manifesta anche una differenziazione tra la forma di solidarietà mutualistica e la forma di solidarietà sindacale. La solidarietà mutualistica è una solidarietà per, quella sindacale una solidarietà contro. La solidarietà positiva della mutualità si radicava negli ambiti di vita e tendeva a una sorta di pratica dell’obbiettivo da realizzare nel basso e nel presente, mentre la solidarietà negativa dell’azione sindacale operava nei luoghi di produzione per strappare concessioni dall’alto.
Con la statizzazione della mutualità alla coppia mutualità-resistenza si sostituì la coppia sindacato-partito, due organizzazioni di solidarietà negativa di scontro con il padronato e di lotta per la conquista dello stato. L’associazionismo operaio subisce una torsione per così dire combattentistica, in cui prevalgono momenti di centralizzazione, di disciplina e di gerarchia.
Fabbrica e Stato occupano l’orizzonte del movimento operaio mentre gli ambiti di vita (il non-lavoro) vengono abbandonati all’amministrazione pubblica e alla cura domestica delle donne.
E’ nel crollo di questo paradigma che riemerge il mutualismo con le sue pratiche di solidarietà positive, con la sua volontà di costruire nel presente contro il rinvio messianico al futuro, con il suo sforzo di crescita delle capacità di realizzare in proprio, con il suo rifiuto della passività assistita.

Oggi vedo emergere nuove possibilità di riproposizione di questo antico nesso tra mutuo soccorso e lavoro. Il movimento operaio belga della fine dell’800 aveva elaborato il modello del “sindacato ad insediamento multiplo”: nel luogo di lavoro e nella società, nella rivendicazione e nella mutualità. Ad esempio il sistema Gand di raccolta e di gestione sindacale di un fondo per la disoccupazione fu un mezzo potente di mutualità che teneva legati i disoccupati al sindacato e permetteva loro di trovare una nuova occupazione decente. Il sistema Gand (riformato) funziona in modo efficace oggi in alcuni paesi scandinavi.
Il lavoro edile da sempre è stato un caso esemplare di precarietà e di dispersione dei lavoratori: la temporaneità del cantiere che nasce e muore, i frequenti intervalli di disoccupazione, la disseminazione spaziale della mano d’opera. Tra gli edili italiani la mutualizzazione della precarietà attraverso la Cassa Edile sin dai primi anni del secolo scorso è stata uno strumento di tutela mutualistica e di rafforzamento del potere rivendicativo.
Nella attuale condizione di lavoro disperso, precario, non garantito, la mutualità può rappresentare un punto di coesione che, a partire dagli ambiti di vita, ricompone socialità e crea solidarietà dentro il lavoro.
Il sociologo americano Sennet, parlando delle esperienze associative delle segretarie di Boston e dei lavoratori della comunicazione in Gran Bretagna, dice di un “sindacalismo parallelo” (che richiama il vecchio sindacalismo a insediamento multiplo) che fa leva su forme di neo-mutualismo al fine di recuperare coesione e forza rivendicativa.
La Free Lancers Union di New York è un’associazione insieme mutualistica e sindacale di artigiani tecnologici che, mentre si assicurano reciprocamente assistenza tecnica e giuridica, difendono la qualità e le tariffe del loro lavoro.
Dall’inchiesta recentissima del vicedirettore de l’Unità Gianola sulla condizione operaia dentro la crisi attuale, apprendiamo che in provincia di Brescia Camera del lavoro e Caritas hanno attivato una società di mutuo soccorso raccogliendo tra gli iscritti della CGIL un fondo per il microcredito ai lavoratori disoccupati gestito dalla Caritas.
Questi nuovi rapporti tra lavoro e mutualità, a mio avviso, meritano molta attenzione.
Un’area nella quale i problemi del lavoro e della vita si intrecciano in modo inestricabile è quella dei lavoratori immigrati. Qui troviamo esperienze numerose e significative di neo-mutualismo.
L’esperienza friulana dell’associazione “Vicini di casa” mi sembra esemplare. Questa associazione ha trasformato l’antico patrimonio immobiliare e culturale di una rete di latterie sociali di ispirazione cattolica e socialista in un’offerta di abitazioni per operai immigrati che lavorano nei cantieri di Monfalcone. Gestisce l’affitto di 1500 piccoli appartamenti.
Anche l’esperienza dell’associazione torinese di donne immigrate Alma Mater mi sembra che si collochi in una zona intermedia tra mutualità e lavoro.
Nuovi spazi di autogestione di risorse comuni territoriali vengono aperte dalle culture e dalle pratiche ambientaliste.
L’orizzonte si amplia.
Creare esperienze di cittadinanza attiva nelle molte pieghe della società attraverso il far da sé solidaristico della mutualità significa oggi andare con fatica contro-corrente rispetto ad un sistema e ad una cultura politiche che producono passività e deleghe plebiscitarie.
Oggi è possibile creare un nesso tra la filosofia economica contemporanea della capacitazione di Amarta Sen con quello che Osvaldo Gnocchi Viani, padre della Camere del Lavoro, scriveva nello statuto della Società Umanitaria di Milano: ”Lo scopo dell’istituto è quello di mettere i diseredati in condizione di rilevarsi da se medesimi”*.
Creare la condizioni perché le persone siano capaci di sollevarsi e di camminare sulle proprie gambe: questa antica missione del mutuo soccorso resta, ancora oggi, il cuore della azione per la libertà e per la giustizia sociale.
Torino 29 ottobre 2010
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Mariuccia Salvati: L’attualità del socialismo di ieri secondo Pino Ferraris

lampadadialadmicromicro1La rivista online Controlacrisi.org in un articolo del 12 marzo 2012 ha ricordato Pino Ferraris, politico-militante della sinistra e storico scomparso nel febbraio dello stesso anno: “La scomparsa di Pino ci ha privato di un interlocutore e un punto di riferimento assai prezioso. Vi proponiamo la bella recensione dell’ultimo libro di Pino uscita sul numero di febbraio della rivista Lo Straniero diretta da Goffredo Fofi. In coda trovate il link a una registrazione di un intervento di Pino in cui riassumeva il senso profondamento politico del suo lavoro storiografico”. Riproponiamo il contributo per l’attualità delle riflessioni rispetto alle attuali problematiche.
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Partiamo dal titolo, Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, (Edizioni dell’Asino). Un titolo che richiama una traccia di lavoro di Vittorio Foa citata nell’introduzione: l’invito cioè – in tempi di amnesie e rimozioni, di nodi politici e sociali che urgono nel presente – a “sciogliere le ideologie nella storiografia”. È ciò che aveva fatto lo stesso Foa con La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento di cui Ferraris ha ripercorso la genesi nella nuova introduzione alla riedizione del libro per Einaudi del 2009 (la prima edizione era stata pubblicata da Rosenberg & Sellier nel 1985). Uscire dall’ideologia attraverso la storia. In questo c’è tutto l’atteggiamento di uno scienziato sociale, ma anche di un intellettuale che è stato militante e dirigente politico e che non fa lo storico di mestiere. Come spiega in un altro passo dell’introduzione, infatti, la sua non è una opzione asettica di un oggetto di studio, ma una scelta di campo.

Il campo prescelto ha due perimetri: un arco cronologico (racchiuso nella seconda metà dell’Ottocento, tra Comune di Parigi e crisi di fine secolo, comunque nei decenni antecedenti alla Grande Guerra e a tutto quanto ne seguì, come richiama nel finale del primo e dell’ultimo saggio) e un dilemma teorico: è esistito un momento in cui il socialismo è sembrato ai protagonisti delle lotte sociali una meta vicina, già praticabile? E, se è esistito, come è stato sconfitto e, soprattutto, perché è stato rimosso dalla memoria del movimento operaio?

Perché è questa, in sostanza egli ritiene, la ragione per cui la prospettiva socialista è scomparsa dall’orizzonte delle masse popolari in Europa.

I tre saggi che compongono il libro sono rispettivamente del 1992, 1995 e 2008. I primi due sono decisamente storici e direttamente ispirati, nelle linee di fondo, dalla Gerusalemme rimandata, il terzo (pubblicato nel quadro delle iniziative della rivista “Una città”) ha già un obiettivo più legato al presente, e costituisce, in un certo senso, la premessa della raccolta stessa. L’oggetto del primo è un quadro complessivo del sindacalismo europeo delle origini: l’ascesa e la sconfitta, in Inghilterra, Francia e Italia, di un sindacalismo (diverso dal modello tedesco) con alcune caratteristiche comuni riconducibili a quella mouvance che Pino chiama, ricollegandosi a Paolo Farneti, di “politicizzazione del e dal sociale”, mobilitazione e pratiche che si sprigionano direttamente dentro il sociale: un sindacalismo certamente politico, ma distinto dall’organizzazione del partito politico socialista, che nasce invece come depositario di una ideologia da diffondere tra le masse. Socializzare senza statizzare, conquistare sicurezza sviluppando libertà, sono parte di questa mouvance, ma, anche, critica alla democrazia, antistatalismo, localismo. Sarà sostanzialmente la guerra novecentesca a chiudere questa esperienza, introducendo i temi della nazione, della violenza e dell’organizzazione militare applicata alla produzione.

Due riflessioni vengono alla mente, a conferma e chiarificazione di questo passaggio cruciale: la prima è il richiamo, nell’arco di tempo considerato, a un aspetto nuovo e dirompente di quella fase storica, cioè la forte internazionalizzazione del lavoro (mercato, organizzazione) che si accompagna a quella parallela del capitale (non a caso gli storici hanno parlato di una vera e propria “prima mondializzazione” rispetto alla seconda di fine Novecento).

Questa internazionalizzazione è segnata, nella storia del movimento operaio, dalla nascita stessa, nel 1889, della grande organizzazione a cui aderirono tutti i partiti nazionali socialisti e laburisti europei sotto la guida del partito socialdemocratico tedesco: la cosiddetta Seconda Internazionale, per distinguerla dalla Prima, fondata nel 1864 e caratterizzata dalla battaglia vincente di Marx contro Mazzini, Proudhon e Bakunin. È sullo sfondo o dentro questa “organizzazione” (ancora oggi ben nota grazie al fondamentale studio sul partito politico di Roberto Michels, autore attentamente studiato dallo stesso Ferraris) che si svolge il decisivo dibattito tra sindacato e partito, segnato dai contrasti teorici su democrazia e capitalismo, spontaneità e organizzazione: così come è anche contro questa organizzazione (praticamente morta nell’agosto del 1914 allo scoppio della guerra) che nascerà, dopo la fine della prima guerra mondiale, la costola bolscevica e la Terza Internazionale. Il primo e massimo storico della Seconda Internazionale è stato Georges Haupt, che a questo studio ha dedicato la vita e che continuava, in anni di ortodossie contrapposte dalla guerra fredda, a difenderne la struttura tutto sommato aperta sul terreno ideologico, proprio perché egli stesso era stato una vittima della Terza (in fuga dalla Romania, approdò in Francia nel 1958: a lui è dedicato il fascicolo in uscita, 1/2012, dei “Cahiers Jaurès” ).

La seconda riflessione – sempre a conferma di quanto scrive Ferraris – si riallaccia allo studio di C.S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese. Nella sua analisi comparata del 1975 su Francia, Italia e Germania, Maier individuava proprio nella sconfitta delle rivendicazioni dei grandi scioperi del primo dopoguerra, di carattere ancora “ottocentesco”, imperniate cioè sul controllo operaio delle fabbriche (significative le parole d’ordine come: “la mine aux mineurs”, “les chemins de fer aux cheminots”…), la chiave di volta per comprendere il successo negli anni venti della rifondazione corporatista del nuovo capitalismo fordista in tutti i paesi europei, e non solo in quelli fascisti. Dal quadro di Maier è volutamente escluso il caso inglese, che conosce una storia diversa: un eccezionale lungo decennio di conflittualità sociale e di spinta operaia libertaria (1910-1920) che apre al “socialismo dei consigli”. La Gerusalemme rimandata V FoaIn quegli stessi anni, nel 1973, ricorda Ferraris nella introduzione alla Gerusalemme rimandata, Foa, che ha già in mente la ricerca sugli operai inglesi, apre il suo saggio per la Storia d’Italia (Einaudi) – Cento anni di sindacato in Italia – prendendo le mosse dagli scioperi del Biellese, investito dalla meccanizzazione del lavoro tessile. Negli scioperi del 1878 (che sono all’origine della relazione della “Commissione parlamentare di inchiesta sugli scioperi” voluta da Crispi), scrive Ferraris, “la lotta economica assume un potenziale politico dal momento in cui gli operai professionali minacciati nel loro mestiere si fanno protagonisti dell’unità con i nuovi lavoratori poco qualificati e con le donne per un comune controllo sulla prestazione del lavoro”. È la stessa ipotesi di ricerca che guida Foa nella Gerusalemme rimandata: la risposta alla taylorizzazione del lavoro, nell’Inghilterra “officina del mondo”, avviene attraverso un processo in cui la difesa corporativa del controllo del proprio mestiere da parte degli operai specializzati si ribalta in proposta unitaria offensiva di controllo operaio sulla produzione. Ma quella esperienza sarà riassorbita dal laburismo amministrativo e statalista. Si trattava dunque di una Gerusalemme rimandata o sconfitta? Questo fu il rovello di Foa, che scrive di classe operaia inglese pensando a quella italiana – e si direbbe anche di Ferraris, che scrive di ieri pensando al domani.

Il secondo dei tre saggi che compongono il libro è dedicato a Osvaldo Gnocchi-Viani, protagonista e teorico appunto di quel tipo di organizzazione che Maier vede definitivamente superata dopo le trasformazioni economico-sociali imposte dalla prima guerra mondiale, ma che già Giuliano Procacci (in un saggio per la “Rivista storica del socialismo” del 1962) considerava profondamente trasformata a seguito dello sciopero generale del 1904: l’organizzazione basata sulle Camere del Lavoro, caratterizzata dalla compresenza di segmenti diversi della classe lavoratrice, dagli artigiani agli operai ai contadini. Qui, incurante delle sconfitte della storia, e mosso da intenti non storiografici, ma ideali e politici, Pino si va a leggere i numerosi saggi di Gnocchi-Viani, anziché studiare, come è stato fatto anche in maniera meritoria da parte degli storici (Franco Della Peruta, Gastone Manacorda, Stefano Merli, Maria Grazia Meriggi), le reti organizzative. E con questo recupera davvero una memoria teorica perduta. Perché nella versione degli storici, quella lotta (guidata sostanzialmente dai tipografi, come Gnocchi-Viani o Bignami, e da un grande giornale, “La Plebe”) è destinata alla sconfitta in base a una logica della storia che la linea organizzativa ispirata a Marx sa meglio interpretare, soprattutto dopo la crisi sanguinosa di fine Ottocento e l’avvio dell’era giolittiana imperniata sui partiti e i collegi elettorali.

A Ferraris, invece, Gnocchi-Viani appare come l’interprete di un “modello italiano” particolare, basato sulla compresenza, nei movimenti sociali italiani, di lavoratori dell’industria e dell’agricoltura: un fatto che stupiva già Engels nella corrispondenza con Labriola, e più tardi Kautsky, perché in nessun paese d’Europa, eccetto che in Italia, troviamo i contadini sulla sinistra dello spettro elettorale (eccezionalità confermata dal grande affresco comparato di Stein Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti). Ora su questo protagonista dimenticato Ferraris scrive delle pagine bellissime, dedicate soprattutto al suo rapporto con i compagni di lotta, alla sua capacità di ascoltare e di accogliere le idee proprie degli operai. Seguiamo il filo dell’analisi dell’opera di Gnocchi-Viani attraverso i titoli dei paragrafi del saggio, che così si susseguono: Un intellettuale anomalo (anomalo, si osserva, per lo spazio offerto alla emancipazione delle donne e alla condizione dei fanciulli); La terza via: partire dal basso, sulla crisi della Prima Internazionale a seguito della lotta tra sette e scuole, a cui Gnocchi-Viani contrappone un sindacalismo apartitico di base; Partito politico e partito sociale: qui Ferraris rilegge attraverso le opere di Gnocchi-Viani la nascita e l’affermarsi del Partito operaio italiano (Poi), il cui scopo era “organizzare arte per arte le falangi del proletariato”: un partito “apolitico”?

Sì, ma nel senso che: “Nella bancarotta dei vecchi ‘partiti politici’ solo i nuovi ‘partiti sociali’ possono ridare idealità, speranza, progresso all’Italia” (p. 96). Altro paragrafo è dedicato a Le Camere del lavoro, cioè al dibattito su Borse o Camere e alla convinzione di Gnocchi-Viani che nelle Camere, su cui egli scommette, fosse confluita l’esperienza del Partito operaio: per lui, infatti, la Camera del Lavoro rappresentava, ben più del partito, lo strumento “per patrocinare gli interessi dei lavoratori in tutte le contingenze della vita” (p. 114). L’ultima parte del saggio è dedicata all’affermarsi del Partito socialista in Italia che, secondo Gnocchi-Viani (Appunti su socialismo germanico del 1892, lo stesso anno della fondazione del Psi), avviene in maniera troppo “precoce” rispetto allo sviluppo del proletariato moderno e del suo associazionismo economico, con il rischio di importare nel contesto italiano l’inadeguato modello tedesco, a cui rimprovera un eccesso di economicismo, di socialismo fatalista; una modalità di costruzione dall’alto verso il basso (anziché il contrario, come nel Poi).

Il terzo e ultimo breve saggio è quello più orientato a esaminare il ritorno dei movimenti sociali sulla scena globale odierna (con le loro domande di cooperazione politica, a partire dal sociale, mentre i partiti politici sembrano giunti al termine di una parabola) e a cercare nel passato (in questo caso l’esperienza di una sorta di welfare non statalista, ma di tipo cooperativo e mutualistico del Belgio di fine Ottocento) suggerimenti per una nuova politica.

Con riferimento soprattutto a quest’ultima parte del libro, propongo anche qui qualche accostamento tra la riflessione di Ferraris e la storiografia del ventennio passato: il primo e più logico è quello con la storia delle donne in Italia, che, grazie soprattutto a Annarita Buttafuoco e alla rivista “DWF”, ha fortemente rivalutato sia la figura di Anna Maria Mozzoni (la cui “Lega promotrice degli interessi femminili” fu sostenuta con convinzione da Gnocchi-Viani) che la Società Umanitaria, che ancora Gnocchi-Viani contribuisce a fondare e a dirigere tra gli anni novanta dell’Ottocento e il 1908. Quei decenni sono stati fonte di grande interesse non solo per la storia delle donne, ma anche per la storia urbana e municipale e più in generale per la storia della modernizzazione statistica e giuridico-amministrativa dell’Italia giolittiana: pensiamo al ruolo di amministratori-politici in sede locale come G. Montemartini. A. Schiavi, E. Nathan, all’intensità degli scambi tra economisti e sindacalisti riformatori al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico (si vedano gli stretti rapporti dell’Ufficio del lavoro con l’American Federation of Labor). Ma ciò che caratterizza soprattutto quel decennio iniziale del secolo, in cui si coagulano formazioni politiche diverse in una sorta di prospettiva ottimista di crescita, è la cultura delle riforme e l’emergere di una scienza sociale a scopo di riforma, la commistione tra analisi sociale, tra sociologia, diremmo oggi, e militanza progressista (su questo, rinvio a una raccolta di brevi e significativi interventi di giovani studiosi, da me curata in un clima totalmente diverso da quello odierno, nel 1993: Per una storia comparata del municipalismo e delle scienze sociali, Clueb).

Eccoci ricondotti alla figura dell’autore di questo libro, a Pino Ferraris e al titolo del suo libro, Ieri e domani. Perché infatti Pino sa cogliere l’attualità del socialismo di ieri? La risposta è semplice: per la sua grande passione politica e la sua curiosità nei confronti della conoscenza di ciò che di nuovo si muove nella società. Pino Ferraris è originario di Biella, di quelle valli in cui nasce nell’Ottocento la prima industrializzazione e insieme il primo socialismo: qui Terra e telai (titolo di un classico studio di microstoria di Franco Ramella) si mescolano, si sostengono a vicenda, sullo sfondo di una tradizione di associazioni e fratellanza, quella stessa che lui scopre nel tipografo Gnocchi-Viani. Quanto conti in Ferraris il suo essersi formato in quel contesto è rivelato da un episodio da lui narrato di recente per un volume in ricordo di Lelio Basso (curato dal figlio Piero), in corso di pubblicazione.

Nel 1962 Ferraris, chiamato quattro anni prima, a soli 24 anni, a dirigere la federazione di Biella del Partito socialista, invita – in occasione dei 70 anni del Psi e di una straordinaria mostra organizzata sul secolo di esperienze operaie e socialiste del circondario di Biella – Lelio Basso: il dirigente socialista, venuto per un giorno, si ferma due giorni, colpito dalla ricchezza della documentazione e dall’entusiasmo dei giovani: orgoglio di scoprire una passato classista e socialista mentre l’effervescenza sociale riappare, commenta Ferraris. “Scavate nel passato e scrutate nel futuro”, è il messaggio lasciato da Basso in quella circostanza. E in effetti, Ferraris studia le lotte di classe nel biellese: poi su questo stesso terreno incontra, come si è visto, Vittorio Foa, il quale, negli anni settanta, partendo dal biellese scopre l’autonomia e il potenziale politico della lotta operaia (contro lo schema secondo internazionalista della lotta operaia come corporativa) insieme alla proposta unitaria di controllo operaio del movimento inglese: entrambi mossi dalla comune speranza di riuscire a proporre – scavando nel passato – nuove forme associative all’altezza degli anni settanta-ottanta. È con questa commistione che vorrei chiudere: chiedendomi cioè se ancora oggi le scienze sociali nutrite di storia non possano fare da battistrada – come mostra il caso di questo libro o dell’altro recente di Carlo Donolo, Italia sperduta – verso una cultura diffusa delle riforme della politica.

LO STRANIERO, N.140 – Febbraio 2012
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Ascolta il discorso conclusivo di Pino Ferraris alla Festa della Parola alla Snia di Roma sabato 1 ottobre 2011
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- Approfondimenti: Il libro di Pino Ferraris
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* Fondatore dell’Umanitaria di Milano fu Prospero Moisè Loria.
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ferraris pino LIBROIeri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente
di Pino Ferraris
pp. 178

“Quando la maison institutionnelle minaccia di crollare e i saperi dell’ordinaria manutenzione non bastano più nasce l’esigenza di riportare alla luce i disegni e i progetti, i calcoli e i modelli dei costruttori […]. Ogni crisi di rifondazione chiama ed esige il recupero del punto di vista genetico. Oggi è la radicalità della crisi del sindacato e del sistema politico dell’Europa contemporanea che ci costringe a scavare dentro le origini.” I tre saggi del testo interrogano la storia del movimento operaio e socialista delle origini. Rappresentanza degli interessi e orientamento ai valori, ambiti di vita e di lavoro, autonomie confederate e centralizzazione amministrata, statalismo e “far da sé solidale”, azione sindacale e lotta politica: sono dilemmi di una storia complessa troppe volte semplificata e mistificata dentro schemi ideologici. Non rimozione o nostalgia del passato. Ma rifiuto dell’“ideologia del presente” collegando lo sguardo libero e critico sul passato all’invenzione del futuro.

Pino Ferraris è stato dal 1958 segretario della Federazione del Psi di Biella. Nella seconda metà degli anni sessanta è stato membro della direzione del Psiup e segretario della Federazione di Torino. Nei primi anni settanta è stato tra i promotori della costruzione del Pdup. Dal 1977 al 1999 ha insegnato Sociologia presso l’Università di Camerino. Ha scritto saggi di sociologia politica, sociologia del lavoro e di storia del movimento operaio.

Rassegna stampa
“I diavoli dell’Apocalisse” di Goffredo Fofi (“l’Unità” del 25 settembre 2011)
“Compagno Pino, quanto ci hai insegnato” di Valentino Parlato (“il manifesto” del 3 febbraio 2012)
Sito dell’Editore:
http://www.asinoedizioni.it/products-page/libri-necessari-2/ieri-e-domani-storia-critica-del-movimento-operaio-e-socialista-ed-emancipazione-dal-presente/

4 Responses to L’innovazione nella politica ritrovata nel passato.

  1. admin scrive:

    Un commento di Giancarlo Zambelli all’articolo di Sandro Antoniazzi su C3dem.
    Zambelli
    1 Agosto 2021 at 22:52
    Carissimo Sandro, condivido il tuo pensiero politico e culturale. In questa tua analisi mi ci ritrovo perchè ho vissuto l’esperienza sindacale, politica e di impegno sociale dagli anni 50 con tutte le trasformazioni che sono seguite. Quando iniziai a militare nel sindacato si faceva formazione politica, cultura e si condividevano esperienze con lavoratori provenienti da altre industrie. Ricordo gli incontri della Cisl al Courmayeur, poi nel trentino. Erano giorni pieni, ci si alzava presto al mattino e ci si divideva in gruppi per studiare, approfondire e discutere di vari temi. Pippo Morelli era sempre presente a questi incontri. Tanti anni fa facevamo cultura e formazione politica leggendo la rivista dei gesuiti “Esperienze sociali”, il “quotidiano dei lavoratori”. Abbiamo fondato nella bassa reggiana la Lega di Cultura Proletaria che, attraverso il teatro, il cinema, la musica, coinvolgeva e aggregava molti lavoratori. Voglio ricordare la bellissima esperienza fatta con l’MPL e la speranza di una forza politica nuova che dava fastidio ai conservatori. Ora le organizzazioni sindacali hanno smesso di fare cultura e hanno lasciato alla mercè dei social i lavoratori, le parrocchie sono sempre più deserte e se qualcuno tenta di portare avanti un messaggio sociale e politico non conforme alla comune opinione viene messo in un angolo. non vedo grandi prospettive per un futuro migliore quando vedo lavoratori che votano Lega, che non riescono a capire il presente. Le tematiche ambientali sono ancora troppo poco sentite a mio avviso e i sindacati hanno una grande responsabilità anche su questo. Ti saluto con stima. Giancarlo

  2. admin scrive:

    Un commento di Giampiero Forcesi su C3dem.
    giampiero forcesi
    23 Luglio 2021 at 21:08
    Caro Sandro, vedo che sei proprio alla ricerca di smuovere in qualche modo la situazione attuale e le nostre idee, abitudini e pratiche “di sinistra” per innovare il discorso, un po’ guardando a esperienze passate un po’ a sperimentazioni nuove… Una ricerca ammirevole.
    Io, su due punti essenziali – una cultura/morale alternativa e il rigetto dei partiti in nome di una forza sociale che aggreghi dal basso – ho dei dubbi, che non so sciogliere. Quando ero giovane sono stato presidente di un’associazione di quartiere chiamata “Centro di cultura proletaria”, ma col tempo (non lungo) mi sono convinto che di cultura ce n’è una; non nel senso del pensiero unico ma nel senso di un processo di umanizzazione e di civilizzazione in cui entrano in gioco diverse esperienze, tradizioni, scuole di pensiero ma senza contrapposizioni nette; e in particolare dubito che vi sia, o sia perseguibile, una cultura popolare antagonista a quella cosiddetta borghese; penso sia un mito (come Bergoglio poi dice della sua nozione di popolo…). Quanto alla critica dei partiti – certo legittima e comprensibile – a mio avviso si scontra con il rischio, assai forte, di portare, in un modo o nell’altro, ai paradossi dolorosi cui hanno portato le rivoluzioni sociali che conosciamo, cioè a un’inevitabile autoritarismo, alla soppressioni di molte libertà individuali e al conformismo.
    Sono però molto d’accordo sul lavoro sul territorio, nelle comunità locali e nelle amministrazioni locali, per far crescere cittadinanza, solidarietà, bene comune, pur senza contrapposizioni radicali alla presenza, dove c’è, dei partiti politici

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