Riflessioni
Emozioni, culture perdute
di Raniero La Valle.
[segue]
“Ma c’è un altro prezzo che dovrebbe pagare una società che volesse invalidare, considerandolo infantile e mitico, il pensiero stesso di Dio. Essa dovrebbe infatti fare i conti con la sua cultura e, almeno in Occidente, ben poco resterebbe in piedi del suo passato, ben poco resterebbe plausibile della sua storia, della sua arte, del suo immaginario, della sua estetica. L’arte, in tutte le sue forme, che per quasi due millenni è stata egemonizzata dal pensiero di Dio, e dalle inesauribili storie generate dalla sua immedesimazione perfino carnale nel mondo, perderebbe la sua causa, la sua razionalità, la sua sfida contro la caducità. Certo, resterebbero le cattedrali e i musei, ma, appunto, come documenti di un passato decaduto dalla vita, come sepolcreti di oggetti spodestati di ogni significato.
Ci sono delle emozioni che non si ripeterebbero mai più. Io ricordo l’emozione di quando nella Galleria Tetr’jakov di Mosca mi imbattei nell’icona della Trinità di Rublëv. Nelle sue copie fedeli l’avevo vista innumerevoli volte in ogni parte del mondo, come oggetto di contemplazione, di preghiera, di culto.
È l’icona madre della Chiesa russa. Raffigura la Trinità come era percepibile nell’Antico Testamento, nelle sembianze dei tre personaggi sconosciuti che si presentano alla tenda di Abramo in Hebron, e a Sara che ne ride, novantenne com’è, annunciano la nascita di un figlio, Isacco, da cui verrà poi Israele e quindi la chiamata a tutte le genti. I tre personaggi sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma tutti e tre hanno il volto umano, sono indistinguibili tra loro; forse è riconoscibile il Figlio, al centro della scena, per il suo mesto sorriso nel contemplare, poggiato sulla mensa all’incrocio dei loro sguardi, il calice con l’agnello che annuncia la sua passione e morte e dietro al quale si innalza l’albero della vita. In un’interpretazione non sacrificale (perché molte sono le letture dell’icona) nella coppa ci sarebbe invece il vitello grasso, imbandito per l’ospite che arriva, per il figlio che torna alla casa della madre e del padre, per lo straniero che viene accolto e non respinto, per la convivialità tra i «fratelli tutti», per il banchetto dei popoli giunti alfine a unità: ma le due interpretazioni sono in realtà una sola, sono la stessa cosa.
Le icone non sono solo un genere pittorico di speciale raffinatezza e bellezza; esse hanno la particolarità di essere pensate come opera umana, sì, ma compiuta con lo zampino di Dio. L’iconografo prega prima di dipingere e anzi, col dipingere prega, a volte settimane e anni prima di mettere su tavola un’immagine che in ogni caso non descrive, non rappresenta il divino, ma vi allude, lo evoca. Cancellato Dio nell’età post-teista, tutto il mondo dell’icona finirebbe nel non-senso, né potrebbe esserci più un iconografo umano, dandosi per perduto l’iconografo divino. E nella Trinità di Rublëv, dissolto il supporto divino, anche i volti umani svanirebbero, perdita di Dio e dell’uomo allo stesso tempo.
Intanto l’icona dipinta dal monaco Andrej Rublëv per il monastero di San Sergio di Radonez continua a mostrarsi nella Galleria statale di Mosca. Avvicinandosi per la Chiesa russa il millenario della sua nascita avvenuta col battesimo del principe Vladimir di Kiev nel 988, il leader sovietico Michail Gorbačëv cercò consiglio sul dono che potesse farle per la ricorrenza. Consigliammo di restituire alla sua sede l’icona della Trinità perché potesse tornare alla venerazione dei fedeli. Ciò non avvenne, e ora essa è ancora lì, e da lì si partecipa a tutti, credenti o non credenti, che preghino o no.”
————-
[…] sterminate terre russe e fa un gesto sempre invocato e desiderato dalla chiesa: il dono dell’icona della Santa Trinità di Andrej Rublev, dono che il Patriarca Kirill accetta senza esitazione con un ringraziamento che è conferma […]