Vi ricordate quel 24 maggio…
24 maggio e la guerra italico-sabauda nefasta e criminale
di Francesco Casula.
Oggi 24 maggio ricorre il 106esimo anniversario dell’ingresso in guerra dell’Italia. A firmare nel maggio 1915 l’entrata in guerra fu Vittorio Emanuele III (più noto come Sciaboletta) contro il volere della larga maggioranza del Parlamento, d’accordo soltanto con il primo ministro (Salandra) e il responsabile degli Esteri (Sonnino). Si trattò di un vero e proprio colpo di Stato: il primo di una serie, come ricordò il grande Luigi Salvatorelli” (1). [segue] .
Ma vediamo, analiticamente come andarono le cose. Dopo i fatti di Saraievo e la dichiarazione di guerra dell’impero austro-ungarico, l’Italia assume una posizione neutralista, firmando la sua dichiarazione ufficiale il 3 agosto 1914 . “Essa – ricorda Salvatorelli – riscosse consenso pressoché generale nella opinione pubblica e nel mondo politico” (2). Il Parlamento, per la stragrande maggioranza, era contrario alla guerra. Le elezioni del 1913 avevano sancito infatti la vittoria dei liberali, socialisti e cattolici, tutti neutralisti, con questo risultato: Unione liberale (270 seggi con il 47,62%); Partito Socialista Italiano (52 seggi con il 17,62%); Unione elettorale cattolica italiana (20 seggi con il 4,23%).
Dopo la dichiarazione di neutralità il Governo inizia la trattativa con l’Austria, che è disposta a cedere all’Italia il Trentino. Ma forse anche di più. Giolitti infatti il 1 febbraio 1915 in una pubblica dichiarazione ebbe a sostenere che “nelle attuali condizioni dell’Europa, parecchio possa ottenersi senza una guerra” (3). A questo punto avviene il voltafaccia del Governo italiano che conclude le trattative con la parte avversa – con cui le aveva iniziate prima ancora che fosse esaurito in tentativo di accordo con con l’impero austro-ungarico – firmando il Trattato di Londra il 26 aprile 1915, che riservava all’Italia il Trentino, l’Alto Adige e altre concessioni. “Le trattative con le potenze dell’Intesa, – ricorda lo storico Della Peruta – furono condotte nel massimo segreto, con il consenso del re e all’insaputa del Parlamento” (4).
Tanto segrete che neppure Giolitti le conosceva. Il Parlamento comunque per più di tre quinti dei suoi deputati (i «trecento biglietti da visita») continuava ad essere contrario alla Guerra. Il Presidente del Consiglio Salandra, non potendo avere la maggioranza parlamentare sulla sua linea interventista il 16 maggio presenta le dimissioni. Lo Stato Maggiore dell’esercito – evidentemente con la complicità e il sostegno del re, viepiù interventista – aveva nel frattempo organizzato colossali dimostrazioni di popolo (le «giornate di maggio») che assunsero all’annuncio delle dimissioni, aspetto poco meno che di rivoluzione, contribuendo a ciò in prima linea Mussolini, i sindacalisti interventisti e i nazionalisti, sostenuti in modo particolare dai Quotidiani come il Corriere della Sera e dal Giornale d’Italia.
“Nel progressivo orientamento di Salandra verso l’intervento a fianco dell’Intesa giocavano motivi di ispirazione risorgimentale: l’irredentismo, il compimento dell’unità nazionale con la «quarta guerra di indipendenza» e aspirazioni di potenza, il pieno controllo dell’Adriatico, l’espansione nei Balcani” (5). Ma anche un programma impostato sul rinnovato prestigio della monarchia e dell’esercito, sulla difesa della iniziativa privata in campo economico, sul rafforzamento dello stato in senso autoritario, che si incontrava con il progetto politico dei nazionalisti, decisi sostenitori di un programma di espansione imperialistica. Obiettivi tutti condivisi e sollecitati dal re Sciaboletta che dopo aver constatato l’ostilità dei deputati, respinse le dimissioni di Salandra e il Governo presentatosi alla Camera, ottenne quasi senza discussione, pieni poteri (20 maggio).
In realtà, secondo lo Statuto, la Camera era stata chiamata semplicemente a ratificare, anche se a cose ormai fatte, le decisioni del Patto di Londra, frutto della volontà esclusiva del re, di Salandra e di Sonnino. Nonostante l’Italia «reale», rimanesse intimamente contraria o indifferente alla guerra, che non era voluta dalle masse popolari: né dai contadini – tanto quelli organizzati nelle leghe socialiste e cattoliche quanto quelli disorganizzati – né dagli operai dei centri industriali. Ma a fare la guerra saranno chiamati e «coscritti» proprio i contadini che non la volevano: nel maggio del 1917 se ne conteranno nelle trincee ben 2 milioni.
Sottoposti a una ferrea disciplina, con l’applicazione di misure di coercizione e repressione estreme che nel settembre del 1915, l’incapace e inefficiente Generale Cadorna,così specificava: ”Il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi. Chi tenti ignominiosamente di arrendersi e di retrocedere, sarà raggiunto prima che si infami, dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti e da quella dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia freddato da quello dell’ufficiale”. Il 23 l’Italia dichiarò una guerra che iniziò il 24, voluta in modo quasi esclusivo dal re, da Salandra e da Sonnino. Di qui la valutazione degli storici: da Salvatorelli a Della Paruta: si trattò di una “larvato colpo di stato” (6).
Ebbe così inizio la gigantesca carneficina. Sarà il sardo Emilio Lussu, in una suggestiva testimonianza storica e letteraria come Un anno sull’altopiano a descrivere gli orrori di quella guerra. Egli infatti al fronte sperimenterà sulla propria pelle la sua assurdità e insensatezza: con la protervia e la stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili. Una guerra che comportò oltre a immani risorse (e sprechi) economici e finanziari, lutti, con decine di migliaia di morti, feriti, mutilati e dispersi. A pagare i costi maggiori fu la Sardegna: “Pro difender sa patria italiana/distrutta s’est sa Sardigna intrea, cantavano i mulattieri salendo i difficili sentieri verso le trincee, ha scritto Camillo Bellieni, ufficiale della Brigata” (7).
Infatti alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe contato ben 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9. E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come «gesto esemplare» alla D’Annunzio o, cinicamente, come «igiene del mondo» alla futurista, alla guerra non ci sono andati.
Note bibliografiche
1.Angelo D’Orsi, Il Manifesto del 19-12-2017
2.Guido Salvatorelli, Storia del Novecento, volume III Oscar Mondadori, 1957, pagina 570.
3. Franco Della Paruta, Storia del Novecento, La Mounnier, 1991, pagina 26.
4. Ibidem, pagina 26
5. Ibidem. Pagina 24
6. Ibidem, pagina 28
7. Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna, Ed.Laterza, 2002, pagina 9.
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