Conflitto palestinesi-israeliani. Oltre un’impossibile soluzione solo politica. Le proposte dei Movimenti ChiesadituttiChiesadeipoveri e di Costituente Terra.
La durezza della risposta armata dello Stato di Israele, ancora rappresentato da un Netanyau ricusato dal suo stesso elettorato, e la passività o la reazione maldestra dell’Unione Europea, degli Stati Uniti, degli Stati arabi e asiatici di fronte a questa tragedia, ci dice che non saranno certo gli Stati, con la loro spietatezza, unendosi o federandosi tra loro, che faranno la pace e daranno impulso a un processo costituente della Terra, ma potranno esserlo solo i popoli e le altre formazioni sociali, potranno farlo le culture, le sinagoghe, le moschee, gli ashram, le pagode e le chiese; è in questa direzione che dovremo lavorare.
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Chiesadituttichiesadeipoveri. Newsletter n. 222 del 15 maggio 2021
SE NON CI SI CONVERTE
Care e cari amici,
A partire dall’11 maggio un giorno dopo l’altro la Televisione ci ha mostrato torri e palazzi di 12 e 14 piani a Gaza abbattersi al suolo con i loro abitanti sotto i bombardamenti israeliani. Le immagini in diretta immediatamente richiamavano alla memoria con impressionante somiglianza le corrispondenti immagini dell’11 settembre 2001 quando furono abbattute le Torri gemelle a New York. Ma mentre allora il mondo si fermò e il compianto fu universale, questa volta nulla si è fermato e pianto non s’è visto.
È la guerra, dicono, ma è impossibile dire quando questa è cominciata. È cominciata il giorno prima, con le migliaia di razzi sparati da Hamas su Israele, tanto più numerosi quanto più inefficaci, più politica che guerra, paurosamente asimmetrici rispetto alla potenza di fuoco israeliana? Oppure è cominciata il 7 maggio quando l’esercito di Israele ha fatto irruzione sulla spianata delle moschee, si è scontrato con i Palestinesi lì manifestanti o in preghiera? O è cominciata quando le famiglie palestinesi povere sono state sfrattate dal quartiere Sheik Jarrah per lasciare le case ai coloni occupanti sionisti? O è partita con la guerra dei 6 giorni del 1967 e la conquista ebraica di Gerusalemme Est? O con la Nakba, o “catastrofe” palestinese, e gli Arabi espulsi dalle loro terre nel 1948? O è cominciata con la Shoà, il genocidio, la lunga persecuzione degli Ebrei?
Non è il caso qui di tentare un’analisi che ci troverebbe divisi. Ma una cosa è certa: che questo lungo inumano conflitto non ha una soluzione politica. E speriamo fermamente che nessuno pretenda o si illuda di dargli una soluzione di forza, che nessuno pensi a una mazzata militare finale. Invece c’è una sola soluzione possibile, e c’è una condizione imprescindibile per una soluzione politica, ed è una conversione.
Per conversione deve intendersi una conversione religiosa, che implica un mutamento della natura ebraica dello Stato di Israele. La natura ebraica dello Stato, nonostante la mascheratura laica, è stata impressa fin dal principio nella formazione statuale israeliana, incorporata nel suo evento fondatore, di fatto poi associata a tutte le sue scelte politiche e militari e dal luglio 2018 è anche formalmente sancita in una legge di portata costituzionale che fa di Israele lo “Stato-nazione” degli Ebrei, nel quale al solo popolo ebraico è riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, gli altri sono un popolo soggetto, da “scartare”, come direbbe la “Evangelii Gaudium”. In forza di ciò in Israele ci sono due cittadinanze e una sola legittimità, la cui fonte è un diritto non di origine umana ma un diritto divino.
Si tratta di una figura storicamente già nota. Tale è stato il regime costantiniano, o meglio teodosiano, in cui si è incorporato tra il I e il II millennio il cristianesimo, tale lo Stato della Chiesa che ancora nell’800 praticava a Roma le esecuzioni capitali alla mazzola e squarto a piazza del Popolo, tale “la cristianità” vigente in Occidente fino al Concilio Vaticano II, tale il regime di cristianità dal quale ora papa Francesco proclama risolutamente la Chiesa essere uscita; ma questo è anche il modello che ancora sussiste nelle velleità e nei sogni dell’estremismo islamico e dei suoi riesumati e falliti califfati.
Uscire da questo ibridismo politico-religioso non è solo la condizione della democrazia e la prima stazione della pace, ma sarebbe anche una straordinaria epifania di Dio, una correzione delle sue fuorviate immagini, una guarigione delle perverse rappresentazioni fornitene da ogni tradizione. Per la religione e il popolo d’Israele, come pur imperfettamente lo è stato per i cristiani, una tale conversione sarebbe un dono inestimabile anzitutto per se stessi, ma anche per l’umanità tutta, oggi alle prese con il compito storico di dare una risposta alla crisi ambientale, di salvare il pianeta, far continuare la storia. Il miglior cristianesimo e il miglior Islam si sono già abbracciati su questa frontiera nel documento di Abu Dhabi del febbraio 2019 in cui insieme essi hanno preso le distanze dall’uso politico della religione, divenuto fonte di “violenza, estremismo e fanatismo cieco”, mentre un documento cattolico dogmatico sul monotesimo e la violenza del 2013 aveva già sconfessato ogni “tentazione di scambiare la potenza divina con un potere mondano” e aveva postulato, come inizio di una nuova storia, l’avvento di “una religione definitivamente congedata da ogni strumentale sovrapposizione della sovranità politica e della signoria di Dio”.
Nel sito un articolo di Domenico Gallo “senza giustizia” [riportato anche di seguito].
Con i più cordiali saluti
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La guerra in Israele
SENZA GIUSTIZIA PER I PALESTINESI
15 MAGGIO 2021 / EDITORE / DICONO I FATTI /
Il 14 maggio ricorreva il 73 anniversario della nascita dello Stato di Israele, ma quest’anno c’è poco da celebrare. La festa dell’indipendenza è coincisa con un’esplosione di violenza, non solo militare, che pervade tutta la società comprese le comunità che convivono nelle cittadine miste come Lod, Aco e Ramble. Se in 73 anni la popolazione di Israele non ha vissuto un solo giorno di pace, evidentemente siamo in presenza del fallimento del progetto politico che ha guidato la nascita dello Stato d’Israele ed il suo percorso storico fin qui realizzato. Un percorso storico che si è sciolto di ogni ambiguità anche da un punto di vista formale con la legge approvata il 19 luglio 2018 con la quale è stata definita la natura dello Stato ed i suoi caratteri fondamentali. Abbandonando ogni remora, sotto la guida di Netanyahu, Israele si è autodefinito come uno Stato etnico-religioso, nel quale l’autodeterminazione “è esclusivamente per il popolo ebraico” e sono stati riconosciuti gli insediamenti dei coloni nei territori occupati come “valore nazionale”. In altre parole è stata “costituzionalizzata” una situazione di discriminazione e di umiliazione del popolo palestinese perseguita con accanimento e con un ventaglio di misure di carattere militare, amministrativo e legislativo. Negli ultimi tempi questa situazione di oppressione è stata resa ancora più dura. Il 27 aprile è stato pubblicato un rapporto di 213 pagine di Human Rights Watch, intitolato “Una soglia varcata. Autorità israeliane e crimini di apartheid e persecuzione” (https://www.hrw.org/report/2021/04/27/threshold-crossed/israeli-authorities-and-crimes-apartheid-and-persecution) in cui viene descritto dettagliatamente il trattamento umiliante e discriminatorio riservato da Israele ai palestinesi nella Cisgiordania occupata, nella Striscia di Gaza bloccata e nell’annessa Gerusalemme est, oltre che agli arabi-israeliani.
Nelle ultime settimane a Gerusalemme si è scatenata una repressione durissima contro la protesta spontanea che si opponeva alle deportazioni e agli “sfratti etnici” dal quartiere di Sheikh Jarrah della popolazione Palestinese, che lì vive da decenni. Ma la provocazione ancora più grave è stata l’irruzione dell’esercito israeliano nella spianata delle moschee. In Italia negli anni del confronto politico rovente fra comunisti e democristiani, veniva agitato lo spettro dei cavalli dei cosacchi che si abbeveravano in piazza San Pietro. In politica i simboli sono importanti e quando colpiscono l’immaginario religioso incidono profondamente nell’identità dei popoli. L’attacco alla moschea di al-Aqsa è stato vissuto dalla popolazione musulmana come una provocazione profonda. Ciò ha consentito ad Hamas di ergersi a protettore dei palestinesi e di tutti i musulmani, inviando un velleitario ultimatum ad Israele a cui hanno fatto seguito una pioggia di razzi lanciati da Gaza e i violentissimi bombardamenti delle forze armate israeliane. Quel che è certo è che nessuna operazione militare potrà porre fine al conflitto e che la straordinaria potenza militare di Israele non potrà garantire al popolo israeliano di vivere in pace. Quando scoppiò la prima intifada nel 1987, seguì una durissima repressione. I soldati israeliani rompevano le ossa delle braccia ai ragazzini di 15/16 anni catturati per “insegnare” loro a non lanciare più le pietre. L’allora ministro della difesa Yitzhak Rabin, commentò la repressione osservando che se i palestinesi si ribellavano solo loro avrebbero sofferto. Purtroppo Rabin, ucciso da un colono il 4 novembre del 1995, sperimentò su se stesso che la violenza contro gli altri si ritorce anche contro di noi. Non è possibile separare il destino di due comunità umane che vivono sotto lo stesso cielo, nel senso che si può infliggere dolore all’altra comunità restandone noi immuni.
L’attacco con razzi compiuto da Hamas è doppiamente sbagliato, non solo perché sul terreno della violenza bellica Israele è mille volte più forte mentre sul terreno politico è un “assist” per consentire ad un leader in crisi come Netanyhau di mantenersi al potere, ma soprattutto perché è un’azione totalmente iscritta nella “pedagogia del dolore”. Cerca di infliggere delle sofferenze ad Israele per “insegnargli” il rispetto dei diritti del popolo palestinese. Senonché l’effetto è quello opposto: più violenze si commettono e più diventa profondo l’oceano di odio che divide le due comunità; più diventa difficile aprire la strada a un percorso di riconciliazione fra i due popoli. Il conflitto che da quasi un secolo dilania la Terrasanta è la prova più tangibile del fallimento di ogni politica che, confidando sulla superiorità delle armi, pretenda di imporre la pace senza costruire la giustizia.
Non c’è pace senza giustizia.
Domenico Gallo
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una Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola
Newsletter n.38 del 15 maggio 2021
Se non ci si converte
Care e cari Costituenti della Terra,
[segue]
a partire dall’11 maggio un giorno dopo l’altro la Televisione ci ha mostrato torri e palazzi di 12 e 14 piani a Gaza abbattersi al suolo con i loro abitanti sotto i bombardamenti israeliani. Le immagini in diretta immediatamente richiamavano alla memoria con impressionante somiglianza le corrispondenti immagini dell’11 settembre 2001 quando furono abbattute le Torri gemelle a New York. Ma mentre allora il mondo si fermò e il compianto fu universale, questa volta nulla si è fermato e pianto non s’è visto.
È la guerra, dicono, ma è impossibile dire quando questa è cominciata. Il giorno prima, con le migliaia di razzi sparati da Hamas su Israele, tanto più numerosi quanto più inefficaci, più politica che guerra, paurosamente asimmetrici rispetto alla potenza di fuoco israeliana? Oppure è cominciata il 7 maggio quando l’esercito di Israele ha fatto irruzione sulla spianata delle moschee, si è scontrato con i Palestinesi lì manifestanti o in preghiera? O è cominciata quando le famiglie palestinesi povere sono state sfrattate dal quartiere Sheik Jarrah per lasciare le case ai coloni occupanti sionisti? O è partita con la guerra dei 6 giorni del 1967 e la conquista ebraica di Gerusalemme Est? O con la Nakba, o “catastrofe” palestinese, e gli Arabi espulsi dalle loro terre nel 1948? O è cominciata con la Shoà, il genocidio, la lunga persecuzione degli Ebrei?
Non è il caso qui di intraprendere un’analisi che ci troverebbe divisi. Ma una cosa è certa: che questo lungo inumano conflitto non ha una soluzione politica. E speriamo fermamente che nessuno pretenda e si illuda di dargli una soluzione di forza, che nessuno pensi a una mazzata militare finale. Invece c’è una sola soluzione possibile, e c’è una condizione imprescindibile per una soluzione politica, ed è una conversione.
Per conversione deve intendersi una conversione religiosa, che implica un mutamento della natura ebraica dello Stato di Israele. La natura ebraica dello Stato, nonostante la mascheratura laica, è stata impressa fin dal principio nella formazione statuale israeliana, incorporata nel suo evento fondatore, di fatto poi associata a tutte le sue scelte politiche e militari e dal luglio 2018 è anche formalmente sancita in una legge di portata costituzionale che fa di Israele lo “Stato-nazione” degli Ebrei, nel quale al solo popolo ebraico è riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, gli altri sono un popolo soggetto, da “scartare”. In forza di ciò in Israele ci sono due cittadinanze e una sola legittimità, la cui fonte è un diritto non di origine umana ma un diritto divino.
Si tratta di una figura storicamente già nota. Tale è stato il regime costantiniano, o meglio teodosiano, in cui si è incorporato tra il I e il II millennio il cristianesimo, tale lo Stato della Chiesa che ancora nell’800 praticava a Roma le esecuzioni capitali alla mazzola e squarto a piazza del Popolo, tale “la cristianità” vigente in Occidente fino al Concilio Vaticano II, tale il regime di cristianità dal quale ora papa Francesco proclama risolutamente la Chiesa essere uscita; ma questo è anche il modello che ancora sussiste nelle velleità e nei sogni dell’estremismo islamico e dei suoi riesumati e falliti califfati.
Uscire da questo ibridismo politico-religioso non è solo la condizione della democrazia e la prima stazione della pace, ma sarebbe anche una straordinaria epifania di Dio, una correzione delle sue fuorviate immagini, una guarigione delle perverse rappresentazioni fornitene da ogni tradizione. Per la religione e il popolo d’Israele, come pur imperfettamente lo è stato per i cristiani, una tale conversione sarebbe un dono inestimabile anzitutto per se stessi, ma anche per l’umanità tutta, oggi alle prese con il compito storico di dare una risposta alla crisi ambientale, di salvare il pianeta, far continuare la storia. Il miglior cristianesimo e il miglior Islam si sono già abbracciati su questa frontiera nel documento di Abu Dhabi del febbraio 2019 in cui insieme essi hanno preso le distanze dall’uso politico della religione, divenuto fonte di “violenza, estremismo e fanatismo cieco”, mentre un documento cattolico dogmatico sul monotesimo e la violenza del 2013 aveva già sconfessato ogni “tentazione di scambiare la potenza divina con un potere mondano” e aveva postulato, come inizio di una nuova storia, l’avvento di “una religione definitivamente congedata da ogni strumentale sovrapposizione della sovranità politica e della signoria di Dio”.
Questo pone un problema politico anche per noi. La durezza della risposta armata dello Stato di Israele, ancora rappresentato da un Netanyau ricusato dal suo stesso elettorato, e la passività o la reazione maldestra dell’Unione Europea, degli Stati Uniti, degli Stati arabi e asiatici di fronte a questa tragedia, ci dice che non saranno certo gli Stati, con la loro spietatezza, unendosi o federandosi tra loro, che faranno la pace e daranno impulso a un processo costituente della Terra, ma potranno esserlo solo i popoli e le altre formazioni sociali, potranno farlo le culture, le sinagoghe, le moschee, gli ashram, le pagode e le chiese; è in questa direzione che dovremo lavorare.
Con i più cordiali saluti
www.costituenteterra.it
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La foto in testa è tratta dalla prima pagina del quotidiano Avvenire di sabato 15 maggio 2021
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