Rappresentanze e rappresentatività nel sistema camerale
di M.Rita Longhitano
Come è noto, nell’Italia pre-unitaria esistevano 26 Camere di Commercio, le quali, pur essendo improntate alla legislazione napoleonica, si differenziavano per gli ordinamenti che le regolavano e per le funzioni di cui erano titolari. Nonostante questa disomogeneità, la loro forza e la loro efficacia sociale si era comunque consolidata al punto da far avvertire immediatamente, nel nuovo Stato, la necessità di una regolamentazione uniforme e adeguata alle mutate condizioni politiche.
Con l’istituzione delle Camere di Commercio su tutto il territorio nazionale, il legislatore del 1862 riconosceva l’importanza di questi organismi i quali, nati come libere associazioni, solo dopo le occupazioni francesi erano stati assoggettati ad una legislazione che aveva permesso loro di acquisire alcuni tratti caratteristici delle istituzioni di diritto pubblico. Questo spiega perché il legislatore dinnanzi ai due sistemi – quello francese e quello inglese – che avevano ispirato l’ordinamento delle Camere di commercio nelle principali nazioni, scelse quello francese.
Le Camere a sistema francese si caratterizzavano per essere associazioni obbligatorie, mantenute da imposte e istituite con un atto dello Stato che ne determinava la sfera d’azione. In esse il diritto di voto era limitato e disciplinato. Erano istituti di diritto pubblico con attribuzioni consultive e amministrative che rappresentavano ufficialmente gli interessi commerciali della nazione.
Le Camere a sistema inglese, al contrario, erano libere e volontarie associazioni di commercianti e industriali, finanziate dalle sole quote versate dai soci e, sebbene non avessero una specifica disciplina e nessun carattere di ufficialità, i loro pareri erano tenuti nella dovuta considerazione dalle istituzioni dei rispettivi paesi.
La legge 6 luglio 1862, n. 680, istituiva, nell’Italia appena unita, le Camere di Commercio e arti qualificandole come corpi morali con personalità giuridica propria1. Esse erano caratterizzate da un elemento soggettivo che ripeteva la sua esistenza da un corpo elettorale, erano titolari di funzioni rappresentative e amministrative finalizzate al miglioramento dell’industria e del commercio, e potevano dotarsi di un patrimonio idoneo a conseguire tale scopo. Tutti questi elementi – come ha affermato il giurista Girolamo Cao[2] – erano diretti verso il fine ultimo della necessità economica e tutti erano improntati ad un carattere economico-sociale determinando così il riconoscimento delle Camere operato dalla legge e per essa dal potere esecutivo mediante un decreto reale. Ciascuna Camera, quindi, sebbene fosse regolata dalla legge 680 del 1862 e, poi dalla legislazione successiva, ha avuto origine solo con il Regio Decreto con il quale il Governo, per delega ricevuta dalla legge, riconosceva che particolari interessi e speciali condizioni rendevano opportuna la nascita di una Camera di commercio in un dato territorio al fine di tutelare lo sviluppo del commercio e dell’industria[3].
La legge affidava alle Camere le attività sociali intese a promuovere e assicurare lo sviluppo degli interessi economici. Per ragioni di opportunità, quindi, una serie di compiti di utilità sociale erano stati affidati ad un organismo speciale, composto esclusivamente da commercianti e industriali, che disponeva, nella sfera di azione assegnatagli dalla legge, della libertà necessaria al raggiungimento dei suoi scopi. Se da una parte le finalità di tali organismi rendevano necessaria l’attribuzione di un’ampia discrezionalità, dall’altra era necessario sottoporre la loro attività alla vigilanza governativa che tuttavia si limitava all’approvazione dei bilanci e dei regolamenti interni, oltre che, in caso di accertate irregolarità o per inosservanza della legge, al provvedimento di scioglimento delle Camere.
Per più di sessant’anni le funzioni camerali sono state affidate ad un organismo elettivo e, pertanto, a una rappresentanza commerciale e industriale. Questo perché il legislatore, riconoscendo le attitudini speciali degli esercenti, intendeva attribuire alle Camere la più ampia libertà nella loro costituzione anche al fine di sottrarle alle ingerenze governative e renderle così rappresentanze legittime degli interessi economici del territorio di competenza.
La legge del 1862 ammetteva all’elettorato commerciale tutti gli elettori politici esercenti il commercio, arti o industrie, nonché alcune categorie di preposti quali i capitani marittimi e i capi-direttori di stabilimenti e opifici industriali. Per la poca chiarezza di questa dizione, che nel corso degli anni aveva prodotto numerosi problemi interpretativi, con la riforma del 1910 si arrivava ad uno stravolgimento di tutto il sistema elettorale commerciale, restringendolo agli iscritti nei ruoli dell’imposta camerale e nei ruoli della ricchezza mobile di natura commerciale o industriale ed escludendo i redditi minimi i quali, non essendo soggetti all’imposta, non davano diritto all’elettorato. Il nuovo diritto di voto camerale, quindi, mantenendo la base dell’elettorato politico stabilito dalla legge del 1862, operava una restrizione del suffragio poggiandolo sulla doppia qualità di esercente-contribuente. Tutto ciò al fine di limitare l’elettorato commerciale a coloro che avessero veri interessi commerciali e industriali da tutelare e contribuissero, con l’imposta, al mantenimento delle Camere di commercio.
Le reazioni a tale riforma portarono alcuni a definirla come illiberale, antidemocratica e tendente a creare un rappresentanza di classe aristocratica, auspicando invece che l’elettorato commerciale fosse esteso a tutti gli iscritti nel registro delle ditte reso obbligatorio dalla stessa legge. Il dibattito si concentrava anche sul concetto di rappresentanza di classe che, secondo l’espressione usata dal deputato relatore Elio Morpurgo durante la discussione parlamentare del progetto di legge, le Camere avevano il compito di attuare[4]. In realtà la dottrina più autorevole non ammetteva si parlasse di rappresentanza di classe sia perché – come diceva il giurista Girolamo Cao[5] – il riferimento all’industria e al commercio in generale, fatto dall’articolo 4 della riforma del 1910, estraniava il concetto di classe, sia perché l’elemento politico posto alla base del diritto di voto camerale era palesemente in contrasto con l’intento di tutelare gli interessi di una specifica categoria.
E’ necessario tuttavia riflettere sull’entità della restrizione dell’elettorato camerale. Secondo quanto disposto dall’articolo 16 della legge 121 del 1910 erano stati esclusi i titolari di un reddito inferiore a 542 lire annue i quali, proprio per la ristrettezza dei loro affari, erano stati ritenuti inadeguati ad una funzione elettorale specializzata come quella camerale. Questo anche in considerazione del fatto che si riteneva non fosse possibile paragonare l’esercizio del diritto all’elettorato politico con quello camerale per la presenza di alcuni istituti partecipativi non previsti per l’elettorato politico[6]. I sostenitori delle limitazioni all’elettorato ritenevano anche che il diritto elettorale camerale richiedesse una conoscenza tecnica delle questioni commerciali che, verosimilmente, chi gestiva piccoli affari non poteva avere. In conclusione quindi le limitazioni introdotte dall’articolo 16 non attuavano una rappresentanza di classe aristocratica, ma al contrario si trattava di una restrizione finalizzata a formare una organizzazione elettorale evoluta in grado di saper prescindere dagli interessi di classe.
Oltre ad essere elettori politici e amministrativi gli elettori commerciali dovevano essere residenti in uno dei comuni compresi nella circoscrizione della Camera nelle cui liste dovevano essere iscritti. Questo perché se la qualità di elettore politico, almeno fino all’introduzione del suffragio universale maschile avvenuto nel 1913, teoricamente poteva garantire il possesso della cultura e delle capacità necessarie per avere coscienza degli interessi da affidare alla tutela della Camera, la residenza nello stesso comune nel quale si esercitasse un’attività economica lasciava presupporre una conoscenza immediata degli interessi commerciali e industriali del distretto.
In tema di elettorato l’aspetto più innovativo della legge di riforma stava però nell’aver risolto la questione femminile. La legge sulle Camere di commercio del 1862 limitava il voto femminile alle vedove o separate che avessero figli o generi ai quali affidare la loro rappresentanza. Nel 1910 invece «per ragioni di convenienza sociale ed economica, di equità giuridica e soprattutto per un alto e liberale sentimento di giustizia» – così si esprimevano i relatori della legge – si faceva un primo esperimento di suffragio femminile[7]. Il secondo comma dell’articolo 16 ammetteva all’elettorato camerale le donne imprenditrici in possesso dei requisiti necessari agli uomini per essere ammessi all’elettorato politico e cioè godere dei diritti civili e politici, avere compiuto il 21° anno di età, saper leggere e scrivere e dimostrare di avere almeno uno degli altri requisiti individuati dalla legge quali per esempio il proscioglimento dell’istruzione elementare obbligatoria. Senza entrare nello specifico della condizione femminile nel primo decennio del Novecento che probabilmente vanificava la disposizione di legge, è importante sottolineare come alcuni decenni prima dell’ammissione delle donne all’elettorato politico, la legge camerale, per quanto dalla stessa disciplinato, poneva le donne e gli uomini su un piano di assoluta parità di diritti e di requisiti, ammettendo le imprenditrici anche all’elettorato passivo.
La legge aveva la medesima apertura nei riguardi degli stranieri. Secondo quanto disposto dalla legge del 1862 erano elettori gli stranieri che da almeno cinque anni esercitassero il commercio o le arti e fossero in possesso delle condizioni richieste agli italiani per l’iscrizione nelle liste politiche. Tali requisiti erano stati confermati dalla riforma del 1910 ai quali si aggiungeva l’iscrizione nei ruoli dell’imposta camerale o, in mancanza di questa, nei ruoli dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile di natura commerciale o industriale. La perfetta coincidenza tra l’elettorato attivo e l’elettorato passivo, differenziati dal requisito anagrafico solo nel 1910[8], ammetteva gli stranieri fra i membri delle Camere con una limitazione ad un terzo dei componenti, elevata poi ad un sesto dalla legge di riforma. Tale previsione nasceva dalla considerazione dell’inopportunità di rinunciare aprioristicamente ai validi contributi che anche gli stranieri avrebbero potuto dare e dalla volontà di non discriminare quelle società commerciali che affidavano la direzione dei propri stabilimenti a cittadini di stati esteri; tutto ciò nella previsione di limitazioni finalizzate a garantire la funzione camerale di rappresentanza diretta del commercio e delle industrie nazionali e, per ragioni di dignità nazionale, escludendo dall’elettorato passivo gli stranieri provenienti dagli stati che non accordavano la reciprocità.
Nel 1913, l’introduzione del suffragio universale maschile creava i presupposti per la terza riforma delle Camere di commercio che si concretizzerà con il Regio decreto-legge 8 maggio 1924, n. 750. Subito dopo la Grande Guerra cominciarono a manifestarsi le preoccupazioni per gli effetti che l’apertura dell’elettorato commerciale alla massa degli esercenti avrebbe potuto creare. Si temeva, in sostanza, che i piccoli con la loro azione organizzata potessero contrastare le élites imprenditoriali facendo cadere l’impalcatura di quell’elettorato specializzato ed evoluto che la riforma del 1910 aveva creato.
La riforma Corbino del 1924 per timore di questa espressione democratico-liberale, ne ridisegnava i contorni costruendo le premesse per la soluzione del problema in chiave gerarchico-corporativa attuata dal fascismo[9]. La nuova disposizione introduceva il criterio della proporzionale rappresentanza degli interessi prevedendo che ciascun elettore avesse diritto di votare solo in relazione alla categoria di appartenenza esprimendo tante preferenze quanti erano i consiglieri ad essa attribuiti e non più, come accadeva in precedenza, tante quanti erano i membri eleggibili. Si assisteva quindi ad un capovolgimento degli intenti posti alla base delle legislazioni precedenti. L’obiettivo non era più quello di garantire la funzionalità dell’ente, privilegiando la formazione di salde maggioranze capaci di farsi carico di una visione generale degli interessi del distretto, ma piuttosto quello di evitare il sopravvento della massa dei piccoli esercenti e garantire la presenza di chi sarebbe potuto rimanere escluso.
In attesa di un regolamento di attuazione, il Regio decreto-legge 8 maggio 1924, n. 750 prevedeva lo scioglimento dei consigli camerali e la nomina di un commissario governativo al quale affidare la rappresentanza dell’ente. Si intravedevano comunque i primi attacchi alla tradizionale autonomia delle Camere che andavano concretizzandosi in un aumento della burocrazia e in un ingiustificato intervento tutorio del Ministero nell’amministrazione degli enti[10]. Al consiglio elettivo si affiancava la giunta eletta a sua volta dal consiglio di cui avrebbe esercitato i poteri nell’intervallo delle sue riunioni. In realtà i ritardi nell’adozione del regolamento e nella predisposizione delle nuove liste elettorali commerciali, sommati alla velocità con cui il fascismo si faceva strada, impedirono alla riforma Corbino di avere una concreta attuazione catapultando le Camere nella prima fase della ristrutturazione fascista. Per effetto della legge 18 aprile 1926, n. 731, le Camere assumevano la denominazione di Consigli provinciali dell’economia e natura rappresentativa cessando di essere le legittime rappresentanze degli interessi economici del distretto di competenza. La loro costituzione infatti non sarebbe più avvenuta per elezione ma per designazione da parte delle istituzioni, delle associazioni e dei sindacati di categoria. Dell’impostazione individualistica di impianto liberale restava una flebile traccia nella definizione degli aventi diritto a partecipare ai consigli poi definitivamente spazzata via dal decreto 1071 del 1927[11]. La presidenza dei Consigli provinciali dell’economia era affidata al Prefetto affiancato da un vice-presidente scelto tra i componenti del consiglio che assumeva la presidenza della giunta. La figura del prefetto chiamato a presiedere il Consiglio esprimeva un legame con lo Stato rafforzato, nel 1927, dall’istituzione degli Uffici provinciali dell’economia diretti da un funzionario dello Stato che fungeva anche da segretario del Consiglio provinciale. Come ha detto il costituzionalista Antonio Amorth questa riforma «rispondeva, in sostanza al disegno di inquadrare le ex Camere di commercio entro il nascente Stato corporativo di cui esse subiscono gli adattamenti sia nella mutazione delle modalità costitutive della rappresentanza, scaduta da elezione diretta a designazione dei rappresentanti, sia nella comparsa a loro fianco di Uffici statali»[12]. Finalità che sarà completamente attuata con la legge 18 giugno 1931, n. 875 con la quale nasceranno i Consigli provinciali dell’economia Corporativa poi modificati nel 1937 in Consigli provinciali delle Corporazioni. Con il Regio decreto-legge 28 aprile 1937, n. 524 non si apportava soltanto una modifica della denominazione dell’ente ma si faceva un ulteriore adeguamento all’ordinamento corporativo includendo nel comitato di presidenza – l’organo che sostituiva la giunta – il segretario federale del Partito nazionale fascista che ne assumeva la vice-presidenza. La fascistizzazione era stata completata.
Terminata la seconda guerra Mondiale, ad appena un anno dall’armistizio, il decreto legislativo luogotenenziale 21 settembre 1944, n. 315 ricostituiva le Camere di commercio, industria e agricoltura. Si chiudeva così la lunga parentesi del periodo fascista durante la quale l’ente, inquadrato nello Stato corporativo, aveva perso i suoi tratti più caratteristici.
Le categorie produttive speravano che presto la Camera potesse esser loro restituita come vera e diretta rappresentanza degli interessi commerciali e industriali. Questo sarebbe potuto avvenire solo con la ricostituzione del consiglio elettivo, previsto dalla norma del 1944, ma in realtà mai attuato.
Nel frattempo la leadership dell’Ente era stata affidata, provvisoriamente, ad una Giunta composta da un presidente di nomina governativa e da quattro membri nominati dal prefetto in rappresentanza dei commercianti, degli industriali, degli agricoltori e dei lavoratori. Una provvisorietà che con i tratti di un commissariamento permanente durerà per cinquant’anni fintanto che riforma del 1993 tenterà di restituire le Camere agli imprenditori.
La legge 29 dicembre 1993, n. 580, definendo le Camere enti autonomi di diritto pubblico, permette loro di recuperare la propria autonomia attraverso l’attribuzione della titolarità e dell’esercizio di poteri riconosciuti dall’ordinamento statale per la realizzazione dei loro fini. Lo scopo delle nuove Camere è quella di svolgere funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese curandone lo sviluppo nell’ambito delle economie locali. Per la prima volta la legge afferma l’esistenza di un interesse proprio delle imprese, cioè di quella collettività che alla Camera di commercio fa riferimento e che, come corpo rappresentato, ne sta alla base. In questo modo si sottolinea che la Camera di Commercio è un’istituzione, e non un’associazione, la cui attività non è rivolta a vantaggio dei singoli associati ma, in generale, al sistema delle imprese.
L’autonomia di cui godono le Camere si sviluppa in varie dimensioni ma il riconoscimento della potestà statutaria ne costituisce sicuramente l’aspetto più qualificante. La legge 580 esprime la volontà del legislatore di rendere l’ente camerale sempre meno dipendente da strutture sovraordinate, anche se poi, gli stessi vincoli indicati dalla legge limitano di fatto la portata di tale potestà. Nonostante tutto lo statuto è uno strumento di autogoverno che permette alle Camere di tenere conto delle specificità territoriali e adattare, nei piccoli spazi lasciati dalla legge, l’ordinamento e la struttura dell’ente alle esigenze locali. La massima espressione dell’autonomia statutaria è contenuta nel comma 5 dell’articolo 12 che consente ai consigli già costituiti con il metodo designativo di optare per un sistema di tipo elettivo prevedendo tale opzione nello statuto. Si tratta di una scelta fortemente innovativa che lascia alle stesse organizzazioni imprenditoriali, presenti nelle Camere attraverso i loro designati, la valutazione sul sistema da adottare per la composizione degli organi. In definitiva, se il metodo designativo è obbligatorio per la costituzione del primo consiglio non lo è per quelli successivi che possono essere rinnovati con l’elezione diretta dei componenti da parte dei titolari o dei rappresentanti legali delle imprese iscritte nel Registro. Confermando implicitamente che la collettività che fa riferimento alla Camera è quella delle imprese, la legge ammette l’elezione diretta solo per i loro rappresentanti e non per quelli dei lavoratori e dei consumatori per i quali si provvede comunque per designazione da parte delle organizzazioni sindacali e delle associazioni di tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti.
Come si è visto la legge non esclude che le Camere possano tornare ad essere le rappresentanze legittime degli interessi generali del sistema delle imprese. La rappresentanza infatti è un modo di collegamento tra una collettività e l’ente o l’organismo esponenziale di tale collettività, realizzata attraverso lo strumento dell’elezione. In altri casi, il legame tra la collettività e l’ente è costituito dalla nomina, dalla designazione o da altre forme di scelta e preposizione, che essendo meno forti fanno degradare la rappresentanza in rappresentatività[13].
Con un legame forte o con un legame debole le Camere sono comunque espressione della stessa collettività cui si rivolge la loro azione. A questo si aggiunge la previsione dell’art. 13 comma 2 che, escludendo la presenza in Consiglio di un numero notevole di persone in ragione della loro investitura e rappresentanza politica, pone il sistema di rappresentanza degli interessi realizzato dalle Camere come rigidamente alternativo a quello politico. In questo modo si riconosce la posizione privilegiata delle Camere per l’interpretazione degli interessi e delle esigenze del sistema delle imprese che deriva dalla vicinanza con la collettività di riferimento. Secondo la dottrina più autorevole la qualificazione di autonomie funzionali operata dalla legge Bassanini deve essere letta proprio in questa ottica di rappresentanza o di rappresentatività con la quale, attraverso una democraticità settoriale o funzionale si dà voce al sistema delle imprese[14].
Recuperata l’autonomia, recuperato, almeno teoricamente, il ruolo di rappresentanza funzionale ciò che ancora non è stato superato è la rigidità derivante dal criterio della proporzionale rappresentanza degli interessi che deve essere rispettato non solo nel caso di designazione-rappresentatività ma anche nel caso di elezione-rappresentanza. Nel prevedere la possibilità di elezione diretta del Consiglio, la legge dispone infatti che le relative modalità prevedano la ripartizione proporzionale per liste e per settori delle rappresentanze provinciali oltre all’attribuzione del voto plurimo in relazione al numero dei dipendenti e all’ammontare del diritto annuale. Se quest’ultima disposizione può richiamare alla mente la riforma del 1910 che, come si è visto, limitava l’elettorato commerciale agli esercenti che potenzialmente avevano una migliore visione d’insieme degli interessi del sistema e nel contempo contribuivano al mantenimento delle Camere, non si comprende come mai, nella stessa ottica, non si sia superato il criterio della rappresentanza proporzionale, almeno nel caso di una consultazione elettorale.
1 La legge 6 luglio 1862, n. 640 non attribuiva alle Camere la qualifica di enti pubblici, che sarà introdotta solo con la riforma del 1910 forse anche al fine di eliminare ogni dubbio circa la loro natura giuridica suscitato dal silenzio della legislazione previgente.
2 Cfr: g. cao, Le Camere di commercio nel diritto amministrativo italiano, Roma, Tip. Camera dei Deputati, 1911, pag. 68.
[3] Per Camera di Commercio di Cagliari questo è avvenuto con il R.D. 31 agosto 1862, n. 814.
[4] Cfr: Atti parlamentari – Legislatura XXIII – 1. Sessione – Tornata 1 marzo 1910, pag. 5519.
[5] Cfr: g. cao, Le Camere di commercio nel diritto amministrativo italiano cit., pag. 78 ss.
[6] La legge 20 marzo 1910, n. 121, all’art. 5 lettera l) prevedeva che le Camere potessero convocare in assemblea generale determinate categorie di elettori del distretto camerale, per l’esame di speciali questioni di interesse commerciale ed industriale.
[7] Cfr: t. perotta, Le Camere di commercio e industria: commento, note ed appunti, Pesaro, Cooperativa Tipografica, 1911, pag. 63.
[8] La perfetta coincidenza tra l’elettorato attivo e l’elettorato passivo prevista dalla legge 6 luglio 1862, n. 680 era stata leggermente differenziata dalla riforma del 1910. Per essere eletti consiglieri era necessario infatti aver compiuto il 25° anno di età, e non più il 21°, e risiedere da almeno un anno in un comune compreso nella circoscrizione della Camera.
[9] Cfr: g. paletta (a cura di), Dizionario biografico dei presidenti delle Camere di commercio italiane, 1862-1944, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, pag. XXIX ss.
[10] Cfr: La 4. Assemblea delle Camere di Commercio italiane a Rovereto, in «La Sardegna Commerciale», n. 1 novembre 1924.
[11] Gli articoli 4, 5 e 6 della legge 18 aprile 1926, n. 731 individuavano in modo analitico i membri di diritto e i membri rappresentanti designabili dalle istituzioni ed associazioni della provincia aventi finalità attinenti alla competenza dei consigli dell’economia e dai sindacati. Cfr: g. paletta (a cura di), Dizionario biografico dei presidenti delle camere di commercio italiane, 1862-1944, cit., pag. XXX-XXI.
[12] a. amorth, Le Camere di commercio dall’unità d’Italia alla riforma , in r. gianolio (a cura di), Le Camere di commercio fra Stato e regioni: prospettive di riforma nei recenti disegni di legge, Milano, Giuffré, 1979, pag. 35
[13] Cfr: s. cassese, Le Camere di commercio e l’autonomia funzionale, Roma, Unioncamere, 2000, pag. 11
[14] Ibidem, pag 21 ss.
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