PNRR. Istruzione e Lavoro tra le massime priorità, ma sul serio!

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Fiorella Farinelli su Rocca n.09 1° maggio 2021
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Scatenò un putiferio, nel 2012, l’invito ai giovani di Elsa Fornero a non fare i «choosy» (esigenti, in inglese, ma anche schizzinosi). A sbrigarsi, insomma, dopo scuola e università, a salire sul treno del primo lavoro disponibile, anche se non proprio quello sognato, perché è con l’esperienza che si trova la strada. È scendendo in strada che si impara il viaggio. Ma che succede se il primo treno e il secondo, e poi anche il terzo e il quarto non ti offrono che il solito stage, il solito lavoretto a termine, il solito succedersi di attività malpagate in cui non si impara niente e si accumulano frustrazioni? Travolta dalle contrarietà, la ministra del lavoro del governo Monti fu costretta a spiegare, puntualizzare, ridimensionare. Ma quell’indicazione, che è di buon senso nelle economie dinamiche, quelle che l’«ascensore sociale» ancora ce l’hanno, suonava malissimo negli anni bui della grande recessione innescata dalla crisi finanziaria del 2008, che ha bruciato in tre anni un milione di posti di lavoro.
Altro che «choosy», altro che schizzinose incontentabilità, era il lavoro a mancare, o almeno il «buon lavoro». Anche oggi, del resto, l’invito della professoressa Fornero è da prendere con le pinze, sebbene alcune ripresine produttive e occupazionali ci siano state dal 2012 ad oggi (prima della pandemia) che non hanno però granché agevolato l’inserimento lavorativo dei più giovani. Ed è questo il vero dramma. Pur non ignorando, perché la realtà è sempre assai di più di una foto in bianco e nero, che i giovani italiani hanno pochissimo interesse a certe aree di lavoro. Non solo quello «senza diritti» della fatica maggiore e dei peggiori salari, anche quella dei mestieri sempreverde e ben remunerati della manualità esperta, tappezzieri, idraulici, elettricisti, fabbri, falegnami, corniciai, giardinieri. Mentre in altri lavori, pur richiestissimi dai settori innovativi della produzione e dei servizi, tanti non possono entrarci (e le imprese si lamentano dell’irreperibilità di certi profili professionali) perché usciti da scuole e università senza le competenze tecnologiche e gli specialismi adatti. Senza, in moltissimi casi, neppure una vaga idea di cos’è il mondo del lavoro (che dire, in proposito, dell’intervento demolitore dell’alternanza studio lavoro da parte del ministro gialloverde Bussetti, che nessuno ha avuto finora la buona idea di correggere?).

lo stato dell’arte
Nel 1997, i giovani occupati erano sei milioni, nel 2020 si sono ridotti a quattro. Cosa c’è dietro la disoccupazione o l’inattività giovanile di oggi? E come si spiega l’alto numero di giovani che non sono nei percorsi dell’istruzione né della formazione per il lavoro, non lavorano, e il lavoro spesso neppure lo cercano? Il sociologo Luca Ricolfi sostiene che sono i frutti acidi di un’Italia divenuta «società signorile di massa», in cui i peggiori lavori sono riservati ai nuovi schiavi (gli immigrati) mentre la non occupazione dei propri figli è sostenuta, e perfino alimentata, dalle risorse familiari di un ampio ceto medio con alte aspettative, mezzi bastevoli e grande fiducia nelle proprie «conoscenze».
C’è del vero, in quest’analisi spietata, ma anche uno specchio deformante. Sono proprio i Neet (Not Education, Employ, Training), i
15- 29enni intrappolati nel triste limbo del non lavoro e della non formazione, a raccontare un’altra storia. Dell’Italia, e dei suoi giovani. Della sua economia e del suo sistema di istruzione e formazione. I Neet, intendiamoci, ci sono in tutta Europa, ma in
Italia sono molti di più. Nel 2020 sono il 23,2%, quasi il doppio del 12,5% medio Ue (con la Germania sotto il 9%). Un tasso troppo alto, il più alto dell’Europa a 27, per non rinviare alle carenze strutturali che segnano il nostro Paese. Dalla scarsa valorizzazione del ‘capitale’ umano in un’economia produttiva che perde tanto e cresce poco, ha pochi comparti innovativi, è in grandissima parte fatta da piccole imprese (ma anche l’impiego pubblico ha rinunciato da tempo a tecnici di alto livello) alla fragilità ed inefficienza dei percorsi formativi. Una differenza che non è dunque solo quantitativa. Se infatti nella maggior parte dei paesi europei a contrassegnare l’area Neet sono i giovani con poca istruzione, nel caso italiano quelli con la sola licenza media (21%) sono una parte minoritaria. Il grosso è fatto di diplomati e laureati, e più numerosi i primi dei secondi.
Di questo gap tra istruzione e lavoro ci sono altri riscontri, come il fatto che anche chi lavora è spesso in over education, cioè ha un’istruzione superiore alla prestazione, mentre parecchi laureati che in Italia dovrebbero accontentarsi di lavori precari e malpagati trovano migliori inserimenti professionali emigrando all’estero. Per tornare ai Neet, è comunque evidente che la sacca in cui finiscono non è fatta solo di indisponibilità soggettive o di cattive abitudini. Lo confermano i divari territoriali, le disparità di genere e quelle etniche. Nel Mezzogiorno povero di «buon lavoro» (che non sia quello pubblico), i Neet sono più del doppio che nel Nord. Le donne, in tutte le aree territoriali, sono più dei maschi. Gli stranieri, dieci punti in più degli italiani autoctoni, sono sovrarappresentati. Nella sacca ci sono, talora intrecciati, tutti gli ingredienti dello svantaggio, comprese le difficoltà a raggiungere una piena integrazione – in un Paese che non vuole integrarli – anche dei figli dell’immigrazione che in Italia sono andati a scuola, e ci sono magari anche nati. Quanto alla ricerca attiva del lavoro, gli analisti dell’Istituto Toniolo dicono che a farla è solo il 36% (il 32% non la fa ma si dichiara disponibile a lavorare, oppure cerca lavoro ma non è subito disponibile ad accettarlo), e che tra chi il lavoro non lo cerca sono ovviamente di più quelli che hanno minore istruzione.
Ci saranno anche i pigri, insomma, anche chi non trova poi così male essere mantenuti da genitori e nonni, ma tra i due milioni di Neet, un numero imponente e in ulteriore crescita negli ultimi due anni, sono tantissimi gli ‘scoraggiati’. Quelli paralizzati dalla penuria di prospettive, quelli che non sanno dove rivolgersi, quelli che dai lavori in nero hanno imparato che non vale la pena di darsi troppo da fare per cercarne altri. Capita, qualche volta, anche alle donne che perdono il lavoro. Trovarne un altro? Troppo difficile.

rinnovare il sistema educativo
L’Italia, si dice, non è un paese per giovani. Spreca, dilapidando il futuro, le energie e le intelligenze delle giovani generazioni. Tutto vero, ma la bella retorica non aiuta ad uscirne. Il campo d’azione principale, si sa, è quello per un nuovo sviluppo economico-produttivo ad alta intensità di occupazione. Se ci saranno efficaci strategie ci sarà anche nuovo lavoro, ma gran parte di esso richiederà, oltre a una solida istruzione di base comprensiva di competenze linguistiche e digitali, buoni e diversi livelli di preparazione tecnico-professionale. Non è un orizzonte lontano a cui preparare solo chi oggi è bambino, è un’urgenza anche per la riconversione professionale di tanti lavoratori adulti che stanno per essere travolti dalle trasformazioni
indotte o accelerate dalla crisi pandemica. Perciò l’altro campo è il rinnovamento del sistema educativo, imprigionato in impostazioni culturali e formative d’altri tempi, nell’idea sbagliata che il sapere generalista e teorico è più nobile di quello
tecnico e professionale, nel modello sequenziale secondo cui prima viene l’istruzione e poi la qualificazione professionale. Una logica educativa, e relative pratiche didattiche, tutt’altro che innocenti rispetto ai tanti ragazzi che abbandonano precocemente, che non conseguono diplomi e qualifiche, che dopo il diploma non se la sentono o non sono in grado di affrontare i lunghi studi universitari, che quando all’università ci vanno poi la lasciano a metà (se il tasso di abbandono scolastico è il 14,5%, cinque punti sopra la media Ue, sono quasi il 40% la quota degli immatricolati che non si laureano).
Molti, troppo spesso i più poveri per background socio-culturale, hanno altri interessi, vorrebbero entrare presto nel lavoro, sono insofferenti di curricula prevalentemente teorici. Il sistema di istruzione e formazione per loro fa poco e niente. Se non fosse così, i Neet che con la sola licenza media non possono aspirare a un ‘buon lavoro’, sarebbero da tempo il target principale dei Centri di istruzione degli adulti, della formazione professionale regionale, dell’apprendistato formativo, di
una mobilitazione delle diverse risorse del sistema per tirarli fuori dalla sacca in cui. sono precipitati. Di un approccio formativo ‘duale’, quello in cui si impara mettendo insieme teoria e pratica, in aula e in contesti operativi. Con professori ma soprattutto con formatori che vengono dal lavoro, e lo conoscono. Ma non succede se non per pochi, più attraverso progetti che in un sistema stabile, qualificato, socialmente apprezzato come lo sono i ‘nobili’ licei. Scriveva Don Milani che la nostra scuola non si accorge di quelli che perde, e sessant’anni dopo è ancora vero.

per un approccio educativo duale
Di questo nuovo sistema c’è urgente bisogno, è nel programma del presidente Draghi. In Europa si chiama VET-Vocational Education Training e nei paesi in cui è solido e attrattivo – Germania, Austria, Svizzera, Regno Unito, Olanda, Lussemburgo, Francia, Spagna – ci sono meno abbandoni, meno disoccupazione giovanile e meno Neet, e una forbice più stretta tra istruzione e lavoro. Ci sono anche più giovani con titoli terziari universitari e non (in Italia i 25-34enni laureati sono solo il 28%, la media Ue è 44%, in Gran Bretagna il 50% e oltre). La scelta, fin dagli anni Settanta, è stata di collocare la VET tra l’università (in quelle lauree triennali professionalizzanti che la nostra università non ha finora voluto attivare, con la felice eccezione dell’area sanitaria) e canali non accademici comprensivi dell’apprendistato formativo ‘duale’. Da noi – dove il lavoro non ha la dignità formativa delle discipline insegnate in aula – solo dieci anni fa è faticosamente decollata la parte alta del sistema. Sono gli Istituti Tecnici Superiori che in percorsi biennali post diploma incardinati sull’apprendimento on the job e in stretto rapporto con i fabbisogni delle imprese, formano tecnici di alto livello che nell’83% dei casi trovano rapidamente lavori coerenti. Ma è ancora un microsistema, territorialmente disomogeneo perché affidato a iniziative e norme regionali, poco finanziato, limitato a sole sei aree economico-produttive, scarsamente noto agli insegnanti e ai giovani. Così succede che gli Its hanno oggi 18.000 iscritti mentre le Fachhochschulen tedesche ne hanno 880.000. La buona notizia è che il Recovery Plan investe più di 2mld per decuplicarne gli iscritti. La cattiva è che ancora non si delinea una revisione dei canali professionalizzanti di livello secondario, gli istituti tecnici e professionali, e soprattutto la formazione professionale regionale, che funziona bene in solo otto Regioni e che, pur salvando dagli abbandoni tanti giovani (300.000 iscritti) rilasciando qualifiche e diplomi, è da insegnanti e famiglie considerato un canale di serie C cui indirizzare per lo più i ragazzi con carriere scolastiche difficili o problemi personali e sociali. Rivalorizzarlo e riqualificarlo, è invece decisivo, per costruire l’intera filiera professionalizzante in modo organico, integrato, omogeneo. Passa anche da qui una maggiore equità sociale del sistema educativo e la riduzione del gap tra istruzione e lavoro.
Non è, con tutta evidenza, questione di investimenti solo economici. L’eccessiva e crescente ‘licealizzazione’ del nostro sistema di istruzione è segno di un Paese culturalmente vecchio, e di un’educazione che non sa offrire a tutti uguali opportunità di sviluppo di vocazioni e talenti inevitabilmente diversi. Rileggere, anche qui, le parole di Don Milani.
Fiorella Farinelli
mini_01-rocca-9SCUOLA E LAVORO – ROCCA 1 MAGGIO 2021

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