Come la classe politica sarda ha interpretato la propria funzione: “addestrare” il mercato alla debolezza e la società tutta alla dipendenza dall’incentivo, alla debolezza, che è debolezza di iniziativa, di progettualità e, infine di autonomia.
(Dal sito vitobiolchini.it) Continua il dibattito sui temi della crisi sarda. Il sociologo Marco Zurru prosegue il ragionamento da lui stesso iniziato (“Imprenditori deboli e incapaci di fare rete. Anche per questo la Sardegna è periferia d’Europa”), ampliato poi da Silvano Tagliagambe (“Basta con l’illuminismo applicato, contro il declino dell’isola servono partecipazione e identità locali”), e arricchito da Roberto Bolognesi (“In Sardegna nessun benessere senza il bilinguismo perfetto”: Bolognesi argomenta e Tagliagambe risponde!). Non spaventatevi: l’intervento è lungo ma molto, molto chiaro e leggibile. Grazie a Marco per la sua generosità! [v.b.]
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Con la consueta limpidezza di pensiero e piacevole capacità di declinarlo in argomentazioni di ampio respiro, Silvano Tagliagambe è riuscito a mettere in evidenza sia l’importanza cruciale delle dimensioni di identità, reti, comunicazione, fiducia, capitale sociale e capitale umano nelle possibilità di innovazione e sviluppo locale dei territori, sia alcune delle difficoltà importanti della dialettica tra comunità locali epolicy makers che, con queste e non su queste, dovrebbero decidere l’articolazione e la gerarchia degli interventi di tipo economico, sociale, culturale, urbanistico, e così via… Insomma, in tutto ciò che trova pregevole sintesi nella categoria di “sviluppo”.
Il discorso è stato poi ripreso e parzialmente “piegato” da Roberto Bolognesi sul versante dell’importanza del processo di dissolvimento dell’identità dei giovani isolani, grazie al silente e acritico assoggettamento degli adulti nel mancato utilizzo della lingua sarda nella comunicazione in famiglia. Insomma, i giovani sarebbero stati “scaraventati in un vacuum linguistico, culturale e identitario riempito alla bella e meglio dal cosiddetto Italiano Regionale di Sardegna, dalla scuola e dalla televisione”. Un non meglio precisato “sistema di valori condiviso” trova, nel ragionamento di Bolognesi, il suo punto di rottura “tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, con l’avvento della scolarizzazione di massa, l’emigrazione di un terzo dei Sardi, la campagna militare e mediatica contro il “banditismo” e la susseguente – e conseguente – adozione dell’italiano, da parte dei genitori, nell’allevamento dei figli”. In modo consequenziale a tale processo centrato sulla fondamentale importanza della lingua, Bolognesi fa discendere una serie di conseguenze dirette, tra cui: le difficoltà di un terzo dei giovani sardi nella capacità di comprensione di un testo in lingua italiana; il record sardo di dispersione scolastica e di ritardo; gli altissimi volumi di disoccupazione giovanile.
Sia per Tagliagambe che per Bolognesi, gli interessanti ragionamenti si chiudono con un auspicio e una prospettiva di cambiamento degli attuali equilibri. Il primo, nel richiamo alla “sfida posta oggi alla classe politica e ai responsabili del governo dei sistemi sociali dall’esigenza, sempre più sentita, di fare della partecipazione ai processi decisionali e della condivisione degli obiettivi di gestione del territorio, innovazione e di crescita la base di una nuova cultura diffusa, di un nuovo “senso comune” e di un nuovo modello organizzativo, più efficaci e rispondenti alle esigenze ormai indifferibili alle quali occorre far fronte se si vuole evitare di cadere in un declino che si profila sempre più incombente e minaccioso”. Il secondo nella speranza di maggiore benessere nell’isola grazie alla realizzazione del bilinguismo perfetto e dell’autogoverno culturale.
Ora, oltre la quota complessiva dei giovani che abbandonano prematuramente gli studi, la descrizione e l’analisi delle difficoltà di un territorio sul capitale umano sono descritte anche da tanti altri indicatori: il tasso di abbandono alla fine del primo e del secondo anno delle scuole secondarie; il livello di istruzione della popolazione di età 15-19; il tasso di scolarizzazione superiore; la quota di adulti che partecipa all’apprendimento permanente; la quota di laureati in scienza e tecnologia; il livello di istruzione della popolazione adulta, e così via…
Anche utilizzando uno solo di questi indicatori (il tasso di abbandono nel biennio delle scuole secondarie), l’Istat ci dice che: la Sardegna non è sempre stata la “pecora nera” tra le regioni italiane; il fenomeno presenta un andamento sinusoidale nel tempo (con uno spazio importante di riduzione del fenomeno durante l’esperienza del governo Soru e una crescita drammatica in questi ultimi anni); è sostanzialmente un grattacapo di tutte le regioni del Mezzogiorno, ma anche di alcune del Nord (provincia di Bolzano, ad esempio) dove il lack del bilinguismo perfetto non è un problema da decenni; è aggredibile con politiche specifiche. (http://www-958.ibm.com/software/data/cognos/manyeyes/visualizations/tasso-abbandono-biennio-iiaria/comments/b6b390d85a4411e1b4cc000255111976)
Insomma, per farla breve, se la dimensione linguistica isolana è un elemento fondamentale dell’architettura culturale e identitaria di un territorio, ha ragione Tagliagambe a ricordare come non sia possibile legare in modo semplice e diretto alcuni processi socio-culturali: il capitale umano soffre nell’isola non solo a causa delle difficoltà di diffusione e di utilizzo del bilinguismo perfetto, ma perché il flusso di idee e di progetti finanziati in merito si è affievolito fino a prosciugarsi quasi del tutto.
Dunque le fragilità – del capitale umano, del capitale sociale, del mercato, etc. – sono di natura complessa e interrelate tra di loro, e se ha ragione (e ha ragione!) Fernand Braudel quando parla di longue duréeper evidenziare la persistenza nel tempo delle ragioni e regioni di peculiari processi socio-economici nello spazio sociale, bisogna cercare di mettere in evidenza alcuni fondamentali punti di rottura nel nostro più o meno recente passato. A suo modo l’ha fatto anche Bolognesi; io andrò un po’ più indietro nel tempo.
A mio modo di vedere, per indagare meglio quella che ho definito la debolezza della nostra classe imprenditoriale (del mercato), il punto di partenza può essere un passaggio, o meglio le conseguenze – sulla società, l’economia, la classe politico amministrativa – delle modalità peculiari con cui si è computo uno spostamento, il traghettamento della società sarda dalla condizione di arretratezza rurale degli anni immediatamente successivi al dopoguerra fino alle comode spiagge della modernità.
È vero, e lo ricordano diversi autori che si sono occupati di questo movimento, della isolana “Grande Trasformazione”, come scriverebbe Karl Polanyi (il fratello del Michael citato da Tagliagambe), che il caso sardo è per tanti versi simile a quello di tante regioni dell’Europa del Sud e, a maggior ragione, del Mezzogiorno italiano. Ma la particolarità è che, sin dagli anni ’50, a differenza delle altre aree, l’Isola aveva una chance in più, e nella “cassetta degli attrezzi” si adagiava lo strumento dello Statuto Speciale, un congegno che avrebbe potuto consentire in maniera più autonoma dalla politica romana di scegliere alcune direzioni, della politica economica, della crescita e, soprattutto, dello sviluppo.
Allora risulta meno vano illuminare le difficoltà e fragilità isolane di oggi analizzando i passaggi delicati con cui si è compiuta la modernizzazione della Sardegna, cercando di evidenziare – certo, in modo molto schematico – come, anche a distanza di tempo, il complesso gioco dei diversi attori e il differente peso della loro responsabilità e del potere nell’indirizzare il “traghettamento”, nel gestirlo e manovrarlo, abbia delle conseguenze durature e forti; abbia, in un certo modo, plasmato le contemporanee capacità e incapacità imprenditoriali del mercato, l’autonomia (poca) e la dipendenza (molta) della società civile tutta, le inesperienze e la fragilità del ceto amministrativo, il potere della classe politica e dei suoi attori. Di fatto, alla fine sarà pesante l’eredità del dispiegamento di quello che Antonio Pigliaru chiamava la “forza dell’imprenditore politico”, che ha edificato e riprodotto i propri spazi “addestrando” la debolezza degli altri ambiti, del mercato, della società civile e, infine, della pubblica amministrazione, sua principale complice.
Infatti, il “gioco della modernizzazione” concede ruoli specifici dove vince (e ha vinto) chi risulta meno debole, ovvero chi ha più risorse economiche, di conoscenza, tecnologiche, o maggiori rendite nelle posizioni di mediazione da mettere in campo. In molti paesi sono stati gli attori economici ad accompagnare il passaggio della società da economie in gran parte di sussistenza (basate su reciprocità e redistribuzione) a economie sviluppate regolate dal mercato: è stata l’industria un potente veicolo di modernizzazione, il gioco del mercato, la forza dei territori saturi di capitale sociale e fiducia, a spingere verso combinazioni sempre diverse delle risorse e delle relazioni tra le persone, in contrapposizione alla stabilità senza tempo della comunità tradizionale; è stato il mercato a diffondere elementi universalistici, per cui chi lavora all’interno del quadro di mercato non si comporta in modo differente a seconda che abbia a che fare con amici o sconosciuti; è stato il mercato a diffondere la razionalità come conseguenza della necessità di puntigliosi calcoli del dare e avere e di scelta meditata tra differenti opportunità; è stato il mercato a diffondere il contratto, che obbliga le parti per contenuti specifici, solo per quelli e non per altri; sono sempre stati l’industria e il mercato a diffondere l’idea e la prassi del cambiamento come regola, come normalità, a distribuire premi in conseguenza del merito personale e della responsabile organizzazione verso standard di efficienza produttivistica.
Non così in Sardegna, o almeno, non esattamente secondo questo schema e con l’aggiunta della presenza invasiva di un attore al posto di altri, degli “apparati statali” – come li chiama Antonio Mutti – che si costituiscono in luogo del capitale e al posto di questo – sostituendolo – hanno deciso, diretto, programmato e, infine, fallito (con durature conseguenze).
Agli occhi dei relatori parlamentari la Sardegna rurale degli anni ’50 appare arretrata, povera, scarsamente popolata, isolata con l’esterno e al proprio interno a causa della fragilissima e squilibrata rete viaria, con pochi centri urbani, una popolazione per metà dedita allo sfruttamento stentato e poco razionale di terre per lo più frammentate e “brucate” da una pastorizia che rende l’agricoltura subordinata a questa; un terziario che per metà è pubblico e per un terzo composto dalle attività commerciali; l’industria, oltre quella mineraria del Sulcis in forte crisi già dal dopoguerra, è per lo più composta da unità piccole e piccolissime di taglio prettamente artigianale e, per quasi la metà, interne al comparto edile.
L’attività economica si concentrava dunque in settori scarsamente dinamici e utilizzava tecniche produttive tradizionali e consolidate: con un bassissimo livello di accumulazione di capitale – sensibilmente inferiore alla media nazionale – con investimenti concentrati in opere pubbliche e opere di sistemazione agraria, con un basso livello di produttività e un consistente flusso migratorio, il sistema economico isolano era del tutto tagliato fuori dall’imponente processo di trasformazione e di sviluppo che in quegli anni caratterizzava l’economia italiana. Tutti gli indicatori delle condizioni di vita segnalano tratti di fragilità e sottosviluppo e raccontano un’isola povera ma non meno povera e statica di altre aree del Sud Europa.
È storica questa debolezza della borghesia, antica e, per alcuni (come Sotgiu, Boscolo e Brigaglia) funzionale alla forza di altri pezzi del paese: una borghesia debole e dipendente. La sua debolezza economica affonda le radici dei caratteri della transizione dal feudalesimo al capitalismo che, in Sardegna, ha comportato una debole presenza e una labilità economica della grande proprietà terriera, oltre che una scarsa dinamicità dell’industria. Ed è sulla base di questa fragilità che si pongono le basi della suadipendenza territoriale interna, per cui l’isola svolge negli anni ’50 diverse funzioni economiche a favore delle regioni Nord-Occidentali e Centro Orientali: fornisce loro risorse agricole e forza lavoro per l’industria e funge da mercato di sbocco dei manufatti, beni di consumo e beni di investimento, ivi prodotti.
Il circolo vizioso “povertà-spopolamento-denutrizione-scarso popolamento-mancanza di manodopera specializzata- scarsità di industrie- povertà e sottosviluppo” è sotto gli occhi di tutti: ed è questa evidente fragilità dell’attore economico, questa sua responsabile incapacità a porsi come soggetto attivo nell’accumulazione di capitale, propulsore di sviluppo autonomo, che pone le basi e le premesse ideologiche, tesse la filosofia di fondo per l’intervento esterno sul sistema economico, esterno e soprattutto statale e parastatale. È proprio la piena consapevolezza e riconosciuta debolezza del mercato, un mercato che non riusciva – e non sarebbe riuscito – a produrre autonomamente l’accumulazione di capitale necessaria per avviare un processo di sviluppo, che definisce e impone l’idea di un massiccio intervento pubblico.
Certo non era uno strumento originale; la necessità dell’azione statale nell’economia era abbastanza diffusa negli anni ’60 in tutto il paese e, dunque, la classe politica isolana non faceva altro che attingere quello che era disponibile sul mercato delle idee. Ma in quello che ho definito come “il gioco della modernizzazione”, la classe politico-amministrativa isolana non ha avuto nessuna possibilità di definire diversamente le linee e le opzioni di fondo della modernizzazione: il peso delle decisioni verso lo “sviluppo squilibrato” e l’intervento per “poli di sviluppo” degli anni a cavallo tra i ‘60 e ’70 segnerà fino ai giorni nostri non solo il tessuto economico, ma pure quello sociale, politico e amministrativo di tutta la regione.
Con l’elaborazione di un Piano di Intervento Pubblico (Piano di Rinascita) incominciò, dal punto di vista economico, una storia davvero nuova per la Sardegna; sarà la circostanza determinante, per gli aspetti negativi e quelli positivi, delle trasformazioni dell’economia, della società regionale. Le vecchie fragilità – del mercato, della società e della burocrazia, vengono “frastornate” dalla velocità di un cambiamento indotto ed eterodiretto dalla borghesia di Stato. Ed è questa classe politica o “borghesia regionale” che diventa il fondamento e la fonte della contemporanea debolezza del mercato e della società civile.
In modo sintetico e schematico, si può solo ricordare la filosofia iniziale dell’intervento pubblico nel sistema economico isolano, la sua discrepanza tra le finalità del Piano e la sua attuazione pratica nella creazione dei poli petrolchimici, le relative trasformazioni indotte nel tessuto socio-economico che seppur difformi dai risultati attesi ci sono state e continuano a confermare che esistono, come le chiama Sebregondi “delle differenze tra sviluppo inteso come autopromozione civile ed economica della società e crescita intesa come andamento in progressione del reddito e dei consumi, andamento che può essere scisso dall’incivilimento e dall’auto responsabile promozione”.
Nella concreta attuazione, la classe politica locale ha costruito la sua funzione di classe egemone, ha definito per gli anni a venire la fonte primaria della “dipendenza addestrata” del mercato e della società civile. Questa borghesia regionale ha funzionato come arbitro della penetrazione di ingenti e fondamentali risorse finanziarie pubbliche nel tessuto economico, meccanismo di “accumulazione forzata” e non più sostituto temporaneo di uno sperato sviluppo endogeno, ma rodato ed essenziale strumento di potere in mano a chi media con le fonti finanziarie centrali dimenticandosi della qualità progettuale e concentrandosi essenzialmente nella quantità di risorse da strappare al Centro.
Il Piano (nella sua logica fondamentale e nell’intento di introdurre un meccanismo anomalo ma temporaneo di accumulazione, i “prerequisiti del mercato”) era e doveva essere lo strumento fondamentale, il congegno pubblico, per innestare un processo di sviluppo generale dell’intero sistema economico dell’isola.
Esiste però una notevole discrepanza tra le finalità originarie del Piano e la sua attuazione pratica: i fondi della Legge 588 avrebbero dovuto avere carattere straordinario e aggiuntivo; ma hanno finito per essere parzialmente sostitutivi delle altre fonti pubbliche di finanziamento, pur non essendo completamente utilizzati (dei 1800-2000 miliardi previsti inizialmente, ne furono stanziati solo 618 e, infine, spesi soli 197), la destinazione dei fondi registra una difformità tra la distribuzione prevista e quella attuata, con un maggior riguardo – che poi sarebbe diventato percorso unico e privilegiato per la modernizzazione – all’industria piuttosto che al sostegno e alla valorizzazione delle risorse locali (soprattutto quelle agricole e quelle piccole e medie unità industriali della trasformazione); le “zone omogenee”, chiave del possibile intervento diffuso, si restrinsero fino a diventare nuclei, poli industriali di sviluppo nelle sole aree di Cagliari e Sassari (poi arrivò Ottana).
Come scrive stupendamente Lelli, con una “Sardegna spezzata in due”, industria fu infatti, industria chimica e petrolchimica, una delle poche a negare la diffusione dello sviluppo per le caratteristiche che le sono proprie (alta intensità di capitale e speculare bassa intensità di lavoro, difficoltà ad indurre sviluppo “in avanti ed indietro”, secondo la teoria di Hirschmann) e per le conseguenze che di lì a poco sarebbero arrivate dalle dinamiche internazionali, gli shock petroliferi del 1973 e 1975.
Ora, esiste una corposissima letteratura che indaga sul processo di modernizzazione sardo, le sue peculiarità, il ruolo giocato da diversi attori (politici e non), le cause del suo fallimento, etc.. ma a me preme metter in rilievo i tratti generali di questo modello e le sue conseguenze durature.
Se è vero che la classe politica puntò tutto sull’industria chimica, addensata in tre poli, se è vero che il processo di industrializzazione fu esogeno (non sorgendo dalla crescita dei ceti imprenditoriali autonomi); ha avuto una estensione troppo limitata o è stata interrotta alla sua genesi anche dalle crisi internazionali, non ha prodotto le modificazioni attese sul piano della struttura del sistema economico, ha consentito il rigonfiarsi di un terziario precoce, in parte parassitario e in massima parte autoreferenziale e poco attento alla funzione di servizio per l’attività di produzione, ha distrutto le precedenti competenze professionali locali, insomma è stato solo un processo incompiuto, una “industrializzazione mancata”… è anche vero che ciò che non è mancato è la trasformazione di altri ambiti della vita dei cittadini, la sfera dei consumi, lo stile di vita e la struttura delle aspettative.
È proprio grazie allo scambio dei ruoli tra mercato e classe politico amministrativa, al permanere di questo equivoco di fondo nell’assunzione delle distinte funzioni di produzione e regolazione, che si costruisce e permane la forbice tra la “mobilitazione dei consumi e quella della produzione”, come dice Sapelli, per cui la struttura produttiva, la tensione razionale all’efficienza, l’organizzazione e il calcolo razionale delle opportunità tipica dell’imprenditore e del lavoratore, non seguono lo stesso ritmo di cambiamento e la stessa direzione del mondo dei consumi e dello stile di vita che, all’opposto del primo si modernizzano compiutamente.
È proprio la distinzione tra “crescita e sviluppo”, per cui la Sardegna assomiglia – secondo la fortunata metafora di Savona – a quella che si può chiamare una “pentola bucata”: una volta innescato il meccanismo degli incentivi pubblici nella convinzione che il mercato da solo non potesse svolgere un adeguato ruolo di accumulazione per lo sviluppo, la classe politica che gestisce l’importante flusso finanziario verso l’economia, allarga le sue competenze, struttura storicamente e riproduce nei rivoli molteplici degli enti parastatali o pararegionali la sua funzione di mediazione e di arbitro della penetrazione finanziaria, garantisce relativamente alti consumi non corrispondenti alle possibilità concretamente attuabili senza il sostegno pubblico: la società sarda consuma, ma i beni e i servizi, soprattutto i beni, non sono prodotti in loco; le imprese locali non vedono ulteriori spazi al già ristretto mercato e così via, in un circolo vizioso di reciproche convenienze; la classe politica trova la legittimità della propria riproduzione nella capacità di ampliare o mantenere identico il livello quantitativo dei finanziamenti che arrivano dall’esterno (sia Roma o Bruxelles); la società è soddisfatta del livello dei consumi e dello stile di vita conquistato; l’imprenditore sa che gioca quasi sempre in un mercato protetto dal notevole flusso di incentivi pubblici senza l’onere dell’assunzione piena del rischio, senza il peso del disciplinamento, del temperamento dell’impulso irrazionale dell’arricchimento verso un guadagno rinnovato nel tempo.
Allora l’atteggiamento di chi frequenta il mercato può essere duplice: “mera speculazione, atteggiamento di rapina verso le persone e le cose, azione una tantum per arricchirsi”, oppure azione economica che trova la sua fondatezza nell’utilizzo degli incentivi pubblici; una classe di imprenditori per cui l’obiettivo fondamentale consiste nel generare per la propria famiglia un reddito che consenta una vita dignitosa. Ma pur sempre di debolezza si tratta, non è spirito imprenditoriale autentico, desiderio di espandere continuamente l’attività produttiva, di conquistare sempre nuove quote di mercato, di far crescere le dimensioni e il potere della propria impresa; non è un impegno quotidiano per costruire una realtà economica durevole e dunque costretta, in un mondo di competizione, a un continuo cambiamento e innovazione.
Se a ciò, alle molteplici distorsioni di una modernizzazione incompiuta, al peso di una mancata industrializzazione non tanto e non solo nelle strutture produttive, nei capitali fissi e nelle quote di addetti, quanto nella cultura che l’industrializzazione spesso è riuscita a diffondere nel suo ambito di produzione, si somma una scarsità e inadeguatezza del capitale sociale presente nell’isola (ovvero quella struttura delle relazioni tra persone, zuppa di sostanza fiduciaria, che consente alle persone di riconoscersi ed intendersi, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi reciprocamente e di cooperare per fini comuni) e una scarsa differenziazione sociale, allora il quadro storico delle debolezze della borghesia imprenditoriale isolana si chiude, rinnovandosi però rispetto al passato, perché trova la spinta fondamentale alla propria azione nell’utilizzo degli incentivi pubblici piuttosto che nell’accumulazione di capitale o nella conquista del mercato.
In questo quadro è la classe politica che ha assunto, nella storica trasformazione del clientelismo dei notabili a clientelismo burocratico o organizzativo, un ruolo dominante: la sua funzione si sposta progressivamente dal versante del governo dello sviluppo e del controllo dell’accumulazione a quello dell’erogazione della spesa. Il meccanismo di legittimazione della classe politica non è legato alla sua capacità progettuale, ma al modo in cui essa distribuisce la spesa pubblica fra le diverse categorie di fruitori. In tal senso si può parlare di “debolezza addestrata” di tutti gli altri ambiti della vita sociale ed economica dell’isola: nel gioco delle reciproche convenienze, dove tutti ci hanno guadagnato qualcosa e non vi sono attori con spinte autentiche per il cambiamento, per la classe politica era necessario e funzionale alla riproduzione del suo spazio di potere acquisito “addestrare” il mercato alla debolezza e la società tutta alla dipendenza dall’incentivo, alla debolezza, che è debolezza di iniziativa, di progettualità e, infine di autonomia.
È in questo quadro che si sono sviluppate recentemente quelle pratiche di negoziazione e progettazione partecipata richiamate da Tagliagambe: chi può dimenticare le faticosissime quanto esaltanti e affollatissime riunioni durante l’epoca della “progettazione integrata”? O ci possiamo dimenticare le recenti trame di relazione tra diversi segmenti sociali ed economici dei territori, che soggiacevano la possibilità di portare a casa i finanziamenti dei Patti Territoriali? O, ancora, chi non ha mai partecipato alla costruzione della programmazione unitaria ed integrata dei servizi socio-sanitari alla persona, ad uno dei tavoli dei diversi PLUS (Piani Unitari dei Servizi alla Persona) previsti dalla LR.23/2005?
In molti casi sono solo gli stakeholders, purtroppo, a far sentire la loro voce e il perimetro della partecipazione si ferma al personalissimo interesse a breve di questi. In altri casi, come nella elefantiaca e sfortunata quanto retoricamente potente “macchina da guerra” della progettazione integrata di Pigliaru e Soru, il meccanismo si ingolfò molto prima del finanziamento delle idee elaborate dal e raccolte sul territorio; il dissolvimento della più preziosa, rara e fondamentale risorsa dei processi di partecipazione collettiva alla costruzione del bene pubblico, la fiducia delle persone, è stato enorme e, purtroppo, ancora se ne pagano le conseguenze.
I Patti Territoriali in Sardegna sono stati quasi tutti collusivi, con gli attori economici e politico-amministrativi impegnati a fingere una armonica quanto incolore rete di cooperazione costruttiva utile solo a “portare a casa” il malloppo del Ministero. Insomma, personalmente – non avendo la pretesa di detenere ricette a disposizione – sono convinto che la strada per la costruzione di buone politiche locali di sviluppo sia anche quella descritta da Tagliagambe, anche se uno sguardo agli esiti recenti di pratiche simili non è molto incoraggiante e la strada da compiere per colmare deficit importanti nei diversi tipi di capitale utili a tal fine mi appare incredibilmente lunga.
Marco Zurru
Dipartimento di Scienze Sociali e delle Istituzioni
Università degli Studi di Cagliari
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