No, non è la fine
una Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola
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Newsletter 31 del 17 febbraio 2021
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UNA PAROLA GLORIOSA
Con la soluzione della crisi di governo, l’emergenza in Italia e nel contempo in Europa e nel mondo, ha raggiunto la massima portata. Non c’è dubbio che secondo le categorie tradizionali si tratta di una soluzione di destra o, se si vuole, di un’uscita da destra dalla crisi, tanto più se il suo movente è stato, come si si sta delineando, il “business as usual”, gli affari come sempre nonostante la pandemia. Ma appunto a giudicare secondo le categorie del passato, mentre quello che oggi preme è il presente e il futuro. Non è di destra la scelta del presidente della Repubblica, che ha anzi scongiurato il rotolamento elettorale verso il fascismo; non è di destra che Salvini sia stato personalmente costretto ad abbandonare il sovranismo orbanista o lepenista (la Lega e la borghesia produttiva e egotista del Nord non l’avevano sposato neanche prima); non è di destra che l’on. Giorgia Meloni si trovi collocata fuori dal gioco; non è di destra che il più autorevole o internazionalmente noto come Mario Draghi si sia esposto e prenda decisioni come autore finale. Ma sarebbe di destra il lamento senza vera politica.
Invece nella politica sta oggi tutta la strada. E la politica oggi, non solo per noi, ma per Draghi (Draghi contro Draghi!), per la cultura, per le fedi, per l’economia e per lo stesso capitale, vuol dire una parola che viene proprio dal passato e che abbiamo fatto male a dimenticare. Dal passato infatti non viene solo il male onde noi oggi giudichiamo il presente: economicismo, monetarismo, diseguaglianza, bellicismo, austerità, neoliberismo, indifferentismo, Maastricht (tutte ideologie!), ma vengono anche delle grandissime cose, la Costituzione, il diritto, l’Europa, la tradizione pacifista, per non parlare del cristianesimo. A questo passato va oggi non contrapposta né dialettizzata secondo la cattiva filosofia delle opposizioni, ma va integrata e immedesimata una parola gloriosa che viene fino a noi tra le maggiori eredità del comunismo ma ancora prima dall’umanesimo, e questa parola è l’internazionalismo.
La sovranità non basta e fallisce, l’Europa non basta e da sola fallisce, il Regno Unito esce dall’Unione e si perde, la cosiddetta “America first”, proprio l’America della Normandia, stava rischiando come tale di precipitare nel fascismo e la pandemia irrompente in tanti filoni indipendenti e mutanti e non affrontata insieme rischia di vincere la partita e di sconfiggere anche noi. Nonostante tutte le buone intenzioni e perfino le giuste scelte che potranno fare il governo Draghi, la Commissione Ursula e quanti altri, senza l’internazionalismo, cioè senza soluzioni che oltrepassino il quadro dato, ossia le regioni, le nazioni, l’Europa i singoli ordinamenti e le consuete aggregazioni politiche e geografiche, non potranno trovare risposta né la transizione ecologica, né la transizione sanitaria, né la transizione digitale. Senza la non brevettabilità universale e distribuzione incondizionata dei vaccini, bene comune, senza la messa al bando universale delle armi, senza la decisione unanime sul clima, tutto ciò che di negativo è temuto e previsto, nonostante ogni parziale beneficio in contrario, avverrà.
Come deve essere evidente l’internazionalismo comincia dal condominio. Ma guai al provincialismo o al moralismo o al fai da te di chi dice: “ci basti intanto partire da noi”. La raccolta differenziata non significa niente (è uno sberleffo, un fastidio!) se dietro l’angolo il camion è lo stesso. L’internazionalismo è una politica. È un fare. Atto dopo atto, decisione dopo decisione, fatti dopo scelte, “recuperi” confronti e processi avviati. Di tale internazionalismo noi conosciamo il nome. Si chiama costituzionalismo internazionale, si chiama, quale obiettivo storico e politico, Costituzione della Terra. Esso infatti non vuol dire un potere universale, ma una molteplicità di poteri armonizzati e reciprocamente garantiti sul piano mondiale. Dalle istituzioni sanitarie a quelle giurisdizionali, dall’Organizzazione del Lavoro all’Alta Autorità per il diritto, la libertà e il finanziamento solidaristico delle Migrazioni.
Però questo – “costituzionalismo” – è un nome colto, almeno per ora, non è ancora pronto a entrare come un vento impetuoso nel linguaggio politico, nel discorso popolare, nell’ottusità dei mass media e perfino nei gabinetti raffinati delle stanze dei bottoni. Non è ancora pronto a farsi partito, a essere adottato come programma di partiti. Perciò il suo nome di battaglia, la sua gestione in forma popolare deve avvenire nel nome e nei nomi dell’internazionalismo. È una parola già fondata sul sangue di infiniti martiri, di cui vogliamo ricordare qui un solo nome per tutti, Marianella García Villas,
uccisa in quanto internazionalista dagli stessi assassini dell’eroico vescovo di san Salvadore Oscar Arnulfo Romero. Dunque davvero un nome che rinvia alla testimonianza, alla responsabilità, alla lucidità politica e all’impegno civile di donne e uomini, di laici e religiosi, atei e credenti, deboli e forti, poveri e ricchi.
E dunque internazionale dovrebbe essere l’ambito e l’orizzonte nel quale deve operare, fin da ora, la nostra ancora fragile iniziativa di “Costituente Terra”, alla quale ancora una volta rinnoviamo l’invito a dare sostegno e ad aderire, nelle possibilità proprie di ciascuno.
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In ogni caso “No, non è la fine”, come dice il libro di Raniero La Valle appena uscito in edizione Ebook (a giugno in cartaceo), presso le Edizioni Dehoniane di Bologna.
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Come salvare il Recovery Plan dagli errori della prima fase
Fabrizio Barca
Sbilanciamoci! 15 Febbraio 2021 | Sezione: Nella rete, Politica
Il nuovo governo guidato da Mario Draghi dovrà subito impegnarsi nella finalizzazione del Recovery Plan italiano: tutti gli errori da evitare (e ciò che bisognerebbe fare). Dal sito del quotidiano “Domani”.
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Come salvare il Recovery Plan dagli errori della prima fase
di Fabrizio Barca
13 febbraio 2021 • Tratto da Domani
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Diabolico sarebbe attribuire a singole persone gli errori commessi dal luglio 2020 nella costruzione del Piano, ignorando che la responsabilità è di una cattiva cultura dell’intervento pubblico che sopravvive alle persone. Diabolico sarebbe illudersi e illudere che la soluzione stia nel sostituire tecnici ad altri tecnici senza cambiare il metodo.
Diabolico sarebbe tornare a chiudersi nelle “stanze delle decisioni” senza invece promuovere il confronto dei saperi: quelli dei centri di competenza dello Stato fra di loro e con i saperi espressi dalla società organizzata.
Per generare informazione, per cogliere aspirazioni e soluzioni che sfuggono a una pianificazione statalista, per non compiere ennesime scelte tecniche che dimenticano l’urgenza del contrasto alle disuguaglianze.
Come ha scritto il direttore [Domani] Stefano Feltri, gli errori commessi insegnano che il Piano deve evolversi definitivamente da sommatoria di progetti a strategia-paese. Insegnano, aggiungo, che bisogna occuparsi non solo del menù, ma anche della cucina, dove i piatti prendono forma.
E ricordano che l’essenza di una strategia sta nel combinare una visione emozionante e risultati attesi misurabili: solo così milioni di persone che stanno ricostruendo i propri progetti di vita in condizioni di grande incertezza possono trovare nel Piano alcune certezze attorno a cui sedimentare decisioni. Come i pali su cui è stata costruita Venezia.
LA TENTAZIONE DIRIGISTA
Tutte queste lezioni erano ben note da prima che si cominciasse. Sin dall’inizio del percorso le organizzazioni della società le hanno segnalate in modo insistente e puntuale, ottenendo ascolto solo a dicembre. Un ascolto tardivo, che ha prodotto primi miglioramenti. E allora sia chiaro che solo aprendosi al confronto il nuovo governo potrà scrollarsi di dosso la cattiva cultura dell’intervento pubblico.
Perché insisto su questo punto? Perché ho trascorso troppi anni nelle istituzioni pubbliche per non immaginare la “tentazione dirigista” – talora la propensione – di chi si trova a governare in condizioni di emergenza e i danni che cedere a questa tentazione produce.
La tentazione di nascondere decisioni politiche dentro decisioni tecniche. La tentazione di farlo affidandosi a un mix micidiale di gerontocrazie ministeriali ed “esperti” estemporanei, con il tratto comune della finanza, pubblica o privata che sia.
La tentazione di disegnare dal centro standard e bandi per salute e scuola, mobilità e riqualificazione ambientale, trasferimento tecnologico a Pmi e cultura, uguali per ogni contesto, sopravvalutando i propri saperi e restando cechi ai luoghi e ai saperi della società, della ricerca e dei Comuni. La tentazione di considerare il “partenariato” chiesto dal Codice Europeo come un prezzo da pagare, anziché come il principale alleato per filtrare i progetti e modificarli ampliando la conoscenza.
IL TEMPO DA USARE BENE
Non c’è tempo per il dialogo sociale che chiedo? Tutto al contrario. Proprio il tempo limitato che è rimasto obbliga a questa strada, come parte di due mosse, contemporanee e simmetriche.
Da un lato, occorre mobilitare ogni centro di competenza dello Stato: le università e i centri di ricerca; le imprese pubbliche, a cui affidare in modo esplicito e monitorabile forti missioni strategiche; e poi, il punto debole da rafforzare, i Ministeri, in ognuno dei quali motivare o costituire ex novo, anche con immissioni da fuori, Direzioni Generali del Piano.
Dall’altro lato, appunto, occorre raccogliere le proposte concrete e dettagliate che in questi sette mesi il “partenariato” ha avanzato, obiettivo strategico per obiettivo strategico, valutarle e poi accoglierle o respingerle, motivatamente, in un confronto acceso e informato.
Lasciatemi richiamare, a mo’ di esempio, le “alzate di palla” che il Forum Disuguaglianze Diversità, in alleanza con diverse forze della società, ha messo sul tavolo in questi mesi. E che sono lì pronte a essere usate dal nuovo governo.
Dal lavoro con il Politecnico di Milano (Dastu), nel luglio 2020, in coincidenza con la svolta in Consiglio europeo, nasceva una proposta strategica in tema di servizi pubblici e infrastrutture fondamentali e di rimozione di ostacoli all’impresa, di cui si descriveva anche la “cucina” nei diversi territori: trenta proposte del Politecnico su casa, spazi pubblici, mobilità, sono pronte per i nuovi ministri.
In ottobre, il ForumDD chiedeva di “rimuovere dal tavolo la massa di progetti raccolto dal governo nella sua ‘falsa partenza’” e tornava a suggerire un metodo diverso. In novembre, con Legambiente, avanzavamo proposte per coniugare giustizia sociale e ambientale: «la transizione ecologica è solidale o non è», dichiara oggi Nicolas Hulot, il primo dei quattro ministri che in Francia si sono succeduti alla guida del nuovo ministero della Transizione Ecologica, a riprova che non basta il nome.
Pochi giorni dopo con ForumPA e Movimenta indicavamo quattro mosse concrete per rigenerare subito le Pubbliche Amministrazioni come condizione per il successo del Piano, partendo dalla trasformazione del rinnovamento generazionale (che tocca il 15 per cento dei pubblici dipendenti) in una strategia di assunzioni con bandi moderni, realizzabili in 3-6 mesi: un appello che ha raccolto adesioni ampissime.
L’INVESTIMENTO SULLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Su queste basi, il 7 dicembre, quando nelle prime bozze del Piano leggevamo di un governo velleitario della sua attuazione, indicavamo l’alternativa. E il 13 dicembre con il presidente Mario Monti chiedevamo un forte investimento di risorse umane nella filiera pubblica territoriale (Comuni, prima di tutto) che attuerà il 60% circa degli interventi, e l’affidamento delle responsabilità nazionali di guida a «strutture e vertici delle amministrazioni centrali … ove necessario sostituiti, senza esitazioni, anche con immissioni esterne opportunamente selezionate».
Chiedevamo, poi, che il piano adottasse il «linguaggio dei risultati». Solo così si può verificare la validità dei progetti proposti. Infine, il 12 gennaio, presentavamo una valutazione del Piano poi approvato dal governo, illustrando la ricorrente assenza di indicazione dei risultati attesi e avanzando proposte dettagliate di cambiamento: per dare forza ai tre obiettivi strategici trasversali di riduzione delle disuguaglianze di genere, generazionali e territoriali; per aggiungere un quarto obiettivo trasversale, “dare dignità e partecipazione strategica al lavoro”; per muovere verso un sistema di infrastrutture sociali integrate; per rendere efficaci gli interventi per scuola, casa, aree marginalizzate e transizioni digitale ed ecologica.
Queste nostre proposte, come quelle avanzate da altre reti e organizzazioni di cittadinanza, dalle organizzazioni del lavoro e da quelle dell’impresa, attendono una risposta dal nuovo governo.
Si dia vita subito a due settimane di confronto, non sui “massimi sistemi”, non sul complesso del Piano, ma sui singoli obiettivi strategici.
Si impegnino i nuovi ministri e le nuove ministre a presidiare il confronto fra le loro tecno-burocrazie, selezionate e rinnovate, e il partenariato. Se ne facciano garanti. In un primo incontro si ascolti. Ci si ritiri poi per valutare e deliberare. Si portino infine le risposte a un secondo incontro, positive o negative che esse siano, ma motivate e pubbliche.
E’ il solo modo per trasformare il Piano in una strategia-paese. E’ il solo modo per ricostruire fiducia e riparare un tessuto democratico gravemente lacerato.
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Draghi alla prova della transizione ecologica
Anna Donati su Sbilanciamoci
19 Febbraio 2021 | Sezione: Ambiente, Apertura
Due le novità in tema ambientale che arrivano con il neonato governo Draghi: il ministro Giovannini ai Trasporti e il dicastero per la Transizione ecologica. Ma prima di esprimere un giudizio compiuto occorre aspettare le azioni e le misure concrete per lo sviluppo sostenibile. Con uno sguardo al PNRR.
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