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Editoriale
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La Rete di Trieste
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/il-servizio-alla-politica-731769
14 febbraio 2024
INTRODUZIONE RETE DI TRIESTE
STARE NEL MEZZO:
TRA LE PERSONE, NELLE COMUNITA’, NEI LUOGHI
di Elena Granata, vicepresidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali.“La politica deve essere presbite non miope”
Calamandrei, 1947Grazie, grazie, grazie di questa introduzione,
grazie di avermi accolto anche se a distanza, cari amici e care amiche. Una premessa e un’introduzione breve al mio intervento, un po’ spiazzante. In questi giorni parleremo soprattutto di “valori non notiziabili”, quelli che non fanno clamore, ma sono fondamentali per il bene comune. Lo diciamo subito così che non perdano tempo quelli che si aspettano il nome del leader di un partito o attendono di sapere quanto stiamo al centro quanto stiamo a sinistra, a destra?
No, noi parleremo di “valori non notiziabili”, di cose assolutamente irrilevanti per la politica e per i media: sono irrilevanti i poveri, gli anziani senza casa, i giovani emigrati, i migranti, i carcerati. Ma sono irrilevanti anche i nostri figli e il loro desiderio di stare magari in questa Italia che non dà loro spazio.
Forse perché davvero, come ci ricorda Riccardo Staglianò, “Hanno vinto i ricchi” (Einaudi, 2024) e questo ce lo conferma la situazione planetaria. Che sembra dirci che forse possiamo fare a meno della politica perché ci sono già i ricchi e i potenti del digitale che possono scegliere per noi. Ecco che allora parleremo di valori non notiziabili, perché vogliamo lasciarci alle spalle i valori non negoziabili, quelli che per tanto tempo ci hanno divisi anche dentro il mondo cattolico perché – come diceva il cardinale Carlo Maria Martini – essere ancorati ai valori non vuol dire rinunciare all’esercizio della mediazione, della traduzione dei valori in prassi.
Ecco che allora parleremo di cose che forse a qualcuno che ci ascolterà sembreranno fuori dal tempo e fuori dalla moda. Inattuali, eppure per noi urgenti e necessari.Siamo nel percorso di un processo un processo che è iniziato in maniera assolutamente spontanea e inattesa. A Trieste lo ricordiamo sempre che non era prevista questa uscita a un certo punto delle settimane sociali di un gruppo auto convocato di politici che ci hanno ricordato che esiste una generazione di sindaci giovani o più anziani che sta nei luoghi dove le persone soffrono e agiscono.
Ecco che allora ci siamo resi conto ancora una volta che il nuovo accade, che qualcosa succede quando siamo impegnati a fare dell’altro. Così è stato per noi. Abbiamo accolto questa autoconvocazione dei politici, soprattutto degli amministratori di questo Paese, mettendoci in ascolto come Comitato.
E allora qualche cenno per ricostruire da dove veniamo una piccola storia non ha neanche un anno è una questione di mesi ma che cos’è successo a Trieste che ha cambiato il nostro modo di pensare alla politica?
1. Cosa abbiamo imparato a Trieste sulla partecipazione e sulla politica?Un primo punto: la partecipazione non si racconta, la partecipazione si fa, la democrazia si pratica. Non è parola, non è contenuto teorico o non è solo logos, comprensione della realtà, ma è messo in campo di energie, del corpo e della mente.
E se siamo capaci di ascoltare in questo nostro tempo alcuni accadimenti è quello che ci ha spiegato in maniera luminosa, esemplare Bianca Balti l’altro giorno sul palcoscenico di Sanremo, quando non ha parlato della sua malattia, non ha fatto annuncio di che cos’è il tumore, ma si è esposta con il suo corpo, con un gesto, con quella sua luminosità straordinaria, dicendo a tutti che lei non è la sua malattia. Rinunciare alla parola per lasciare che prevalga la vita e la concretezza dei nostri corpi e delle nostre relazioni.Certo, abbiamo capito a Trieste quante difficile la partecipazione, perché “la partecipazione accade” diceva Giancarlo De Carlo tanti anni fa nel suo lavoro di generazione dell’università di Urbino insieme a Carlo Bo.
La partecipazione accade ma talvolta è faticosa e difficile. I processi partecipativi e i processi democratici sono oggi faticosi, prevale l’idea che tanto non valga la pena partecipare.Ci siamo abituati che sia normale, perfettamente normale, che alcuni dominino la scena, possano prendere la parola, persino rubarla, quando vogliono e altri debbano stare nell’ombra, passivi e subalterni, come se il loro pensiero contasse meno. Abbiamo organizzato istituzioni che si fondano su un’ineguale ripartizione della partecipazione: tutti possono partecipare – in teoria – ma qualcuno è incentivato più di altri a farlo.
Basti pensare a come funzionano le aule scolastiche. Chi partecipa davvero alla lezione? Certamente il docente che ha il diritto di disporre del tempo e delle modalità con cui gli studenti intervengono in aula ma che spesso si abitua ad una “conversazione” che privilegia i più spavaldi, i meno timidi, i più preparati, chi conosce meglio la lingua, i ragazzi sulle ragazze o le ragazze sui ragazzi a seconda dei contesti. Amartya Sen parlerebbe di capabilities, che sono le competenze in atto e non solo in potenza. È ovvio che in un’aula tutti abbiano lo stesso diritto di intervenire, nessuno potrebbe mettere in discussione il principio astratto, ma ovviamente non tutti hanno le stesse capacità (padronanza, sicurezza, senso di sé, accettazione, consenso del gruppo, riconoscimento da parte del docente o dei pari) e questa disparità di capacità di traduce in diseguaglianza.Nelle piccole e grandi arene di confronto (dal consiglio comunale al talk televisivo), prende più facilmente la parola il più anziano ed esperto rispetto al giovane, l’uomo rispetto alla donna, quello che ha un ruolo più alto (il prete, il vescovo, il presidente, il docente) all’ultimo arrivato, chi urla di più, e questo accade anche quando non dovrebbero contare ruoli e meriti culturali ma l’espressione delle proprie idee e dei propri pensieri.
E allora possiamo domandarci quali siano i contesti in cui imparare la parità, la reciprocità, l’ascolto. Dove mettersi alla prova in un esercizio di discernimento collettivo che presuppone che riconoscimento del valore di tutti e di ciascuno. Una mancanza di “luoghi del pensiero” che impoverisce la società tutta e la rende più sterile e incapace di confronto.
Siamo diventati tutti un pò scettici, temiamo una finta partecipazione (tanto sono altri che decidono, tanto non serve a nulla).Partecipare non può significare solo prendere parte – come spiega la filosofa francese Joëlle Zask nel suo libro Participer: Essai sur les formes démocratiques de la participation, 2011- come si prende parte a una cena o a un convegno ma deve poter essere sempre occasione per portare il proprio contributo (pensiamo alla sistematica esclusione delle donne che ci sono fisicamente ma non sempre portano il loro specifico), o possibilità di partecipare ai benefici derivanti dall’azione collettiva, così come avviene in un’impresa dove gli individui partecipano ai benefici della società di cui fanno parte.
Beh, insomma, siamo un po’ arrugginiti perché non sappiamo più praticarla e quindi a Trieste ci siamo dato un metodo molto semplice, molto pragmatico. Ha prevalso il pragmatismo dei numeri. La rivoluzione a Trieste è stata data da un una regola aritmetica che ci siamo dati i delegati dovevano essere un terzo donne un terzo giovani E in tutti i panel che abbiamo fatto a Trieste innumerevoli metà delle relatrici sono state donne metà gli uomini.
Non è questione di quote rosa è questione di rendere possibile la partecipazione il contributo al pensiero all’intelligenza dei giovani e delle donne insieme all’elemento del maschile. E questo è stato rivoluzionario. Questo è stato rivoluzionario perché la rivoluzione ogni tanto non la fare lo Spirito Santo, ma la fa la metrica, la possibilità di dare parola a chi di solito non la prende.
E poi a Trieste abbiamo imparato uno stile, uno stile che l’amico Giorgio Vittadini ha definito – mi piace ricordare questa espressione perché la trovo persino simpatica – una una cordialità trasversale. C’è l’idea che nelle arene politiche possa passare anche uno stile cordiale non solo conflittuale non solo di chi si prende la parola l’un con l’altro non soltanto di chi emette qualche verso per poter togliere la parola agli altri.
E questa animosità ha attraversato anche i nostri mondi. Per quanto tempo ci siamo guardati in cagnesco pensando che ciascuno avesse la verità? Ma la verità è qualcosa di leggero e come il vento dello spirito è qualcosa che bisogna ascoltare insieme con tanta profondità.2. Fine del prepolitico: tutto è politica
A Trieste abbiamo poi, concordemente sancito la fine del prepolitico. Ce lo siamo detti tante volte rimarcare, e sembra banale dirlo. È questo l’appello che emerge dal magistero di Papa Francesco. Oggi che la politica ha perso credibilità e consenso, dobbiamo riscoprire insieme la nostra comune vocazione verso le cose pubbliche e civili e, in forme diverse, tornare tutti a impegnarci in prima persona. Tornare a pensare la “cosa pubblica” come cosa di tutti e di nessuno, che sopravvive solo se sappiamo rigenerarla e reinventarla.
Francesco è politico quando parla di clima, ambiente e della natura sfruttata dalle attività umane. È politico quando promuove la fraternità universale. È politico quando difende il diritto alla casa, alla terra e a un lavoro dignitoso. È politico quando affronta i temi della pace, dell’intelligenza artificiale, della bellezza e dell’arte. Essere cristiani oggi significa riconoscere una vocazione universale, personale e collettiva alla politica. La politica, infatti, è lo strumento fondamentale per servire le persone, specialmente i più deboli e gli emarginati. È attraverso la politica che si possono trovare soluzioni concrete per rispondere al grido dei poveri e della Terra, entrambi minacciati da guerre e dalla crisi climatica.
Nessuno di noi può stare in panchina, delegare, evitare di sporcarsi le mani o rifugiarsi in una dimensione (solo) associativa, di volontariato, di animazione sociale. Non ci è chiesto di parteggiare, ma di partecipare attivamente e con più slancio personale e collettivo alla vita pubblica. Il clima, le pandemie, il mercato comune, le povertà, le guerre, ci chiedono di collaborare concretamente e attivamente.3. Rispondere e sentire (con la mente e il corpo) la crisi della sfera pubblica e collettiva
E oggi, non possiamo negarlo, la politica non gode di buona fama.
In nome della politica si praticano a tutti i livelli forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone, l’uso indebito della forza, la xenofobia e il razzismo, il rifiuto di prendersi cura della Terra, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali in ragione del profitto immediato, il disprezzo di coloro che sono stati costretti all’esilio, la fiducia in una tecnocrazia salvifica che si affida ciecamente alle tecnologie e al digitale.
Nella narrazione pubblica prevalgono altre dimensioni, più legate all’individuo e al suo benessere personale. È il trionfo dell’intimità e delle discipline che scrutano l’animo umano e le sue paure e contraddizioni, è il tempo della psicoanalisi da bar, dei guru che ci parlano della nostra anima, dei coach che ci aiutano a superare le piccole e grandi crisi.Io. Io sento. Io penso. Io faccio. Io decido. Io comunico. Io mi sdegno. Io. Io. Abbiamo a cuore la salute ma non ci mobilitiamo per la sanità pubblica. Abbiamo a cuore l’educazione ma non ci mobilitiamo per la scuola. Abbiamo a cuore il benessere personale ma non ci mobilitiamo per la difesa dell’ambiente. Il mondo della comunicazione e dei social va radicalmente in questa direzione, perché ha capito che lo storytelling paga in termini di attenzione più dell’approfondimento e della profondità delle notizie. Da tempo i partiti hanno spostato la loro attenzione dai diritti sociali e collettivi a quelli individuali.
Tutto pare iniziare e finire con la persona, priva di reti, di relazioni, di contesto, di appartenenze. È davvero un tempo complicato, quindi, per chi si occupa di azione e pensiero collettivo, di dinamiche che coinvolgano comunità e territori, di capacità di allargare la rosa della partecipazione, del coinvolgimento delle persone. A parole, termini come collaborazione, cooperazione, partecipazione, animazione, fare rete, fare squadra, tanto cari al mondo cooperativo e all’economia civile, sono ancora vivi, ma in fondo – dobbiamo essere lucidi – sono davvero fuori moda. E così le scienze che lavorano sulla dimensione collettiva, come la politica, l’urbanistica, l’economia, sembrano più in affanno e meno popolari. È la sfera pubblica e la politica che si stanno impoverendo e svuotando di senso.
“Ogni generazione, ogni epoca è chiamata a misurarsi con la prova dell’alfabetizzazione, con la realizzazione concreta della vita democratica.” Così affermava, lo scorso luglio 2024 a Trieste, il Presidente Sergio Mattarella nel suo discorso in occasione della cinquantesima Settimana sociale dei cattolici in Italia. Impegnarsi affinché non vi siano più “analfabeti di democrazia” è un obiettivo che riguarda tutti, non solo chi detiene responsabilità politiche, ma anche la società civile nelle sue molteplici forme. La democrazia, infatti, è un processo che va esercitato, coltivato, reinventato e rigenerato dal basso, partendo dalle dinamiche e dalla vita delle comunità. Altrimenti muore.
Si tratta, piuttosto, di un’incapacità di comprendere e di vivere i valori fondanti della democrazia, come la partecipazione civica, il pluralismo, la separazione dei poteri, i diritti umani, la libertà di espressione, il diritto di emigrare, la pace. Ha la forma di un’apatia diffusa verso le questioni politiche, una crescente confusione tra parteggiare e partecipare, come se ogni discussione fosse una battaglia da combattere in una perenne arena televisiva, dove rischiamo di essere vittime di manipolazioni e disinformazione.
In questo clima di passiva rassegnazione, siamo tutti coinvolti. Ci preoccupiamo per la salute, ma non ci mobilitiamo per la sanità pubblica. Ci preoccupiamo per l’educazione, ma non ci impegniamo per la scuola. Ci preoccupiamo del nostro benessere, ma non facciamo sentire la nostra voce per la difesa dell’ambiente. Il mondo della comunicazione e dei social media sembra andare sempre più in questa direzione, consapevole che lo storytelling cattura più attenzione rispetto all’approfondimento o alla riflessione critica sulle notizie.
La mancanza della dimensione collettiva appare particolarmente problematica proprio perché tutte le grandi sfide che abbiamo davanti – da quella energetica (produrre e consumare diversamente energia) a quella climatica (dotarsi di strumenti per mitigare gli impatti climatici), a quella sanitaria (mantenere il nostro sistema di welfare e salute e rendere il diritto alla salute un diritto davvero universale), alla crisi della scuola – richiederebbero invece una nuova motivazione alla cooperazione, nuove capacità di convergere insieme verso obiettivi comuni, lasciandosi alle spalle il particolare e il singolo interesse.4. Superare la distinzione tra politica “alta” e “politica minore”, tra stare al centro e stare nel mezzo.
Un punto che ci sta a cuore, che sarà il cuore della relazione di questi giorni, lo dirà meglio di me Francesco Russo nell’intervento che seguirà. Dobbiamo superare – e qui è davvero odiosa la distinzione – tra una politica alta la politica delle strategie, dei posizionamenti, delle alleanze la politica internazionale e la politica minore del grembiule, dell’amministrare il bene comune e la cosa pubblica nei contesti locali: non esiste una politica minore una politica alta, non esiste una politica per gli intellettuali e una politica per la manovalanza, esiste LA politica.
E sempre Giancarlo De Carlo negli anni Sessanta diceva che è necessario “rovesciare la piramide”, quello che sta in basso deve irrorare quello che sta in alto. È in corso una grande crisi della politica, delle cinghie di trasmissione tra l’alto e il basso e vorrei dirlo anche agli amici che hanno iniziato con noi questo cammino.
Quante dispute sulla questione sulla necessità di “stare al centro” e quante poche parole spendiamo per dire la necessità di “stare nel mezzo”, di stare dove ci sono le persone, di stare nelle corsie degli ospedali, di stare in mezzo ai lavoratori che perdono il posto di lavoro.
La differenza tra stare al centro e stare nel mezzo ce lo spiegava benissimo anni fa il cardinal Martini.
E ce lo ha spiegato con la sua vita e il suo impegno un grande compagno di viaggio che è stato il sindaco santo di Firenze, Giorgio La Pira.“L’attesa della povera gente” e “La difesa della povera gente” (entrambi del 1950) sono testi fondamentali per comprendere l’orizzonte ultimo dell’impegno sociale e politico di Giorgio La Pira. Il suo uso delle parole non è mai casuale: colpisce, ad esempio, la scelta di scrivere “povera gente” anziché “gente povera”. In questa inversione si coglie tutta la sua capacità empatica: il sindaco di Firenze si sente coinvolto nel destino dei suoi concittadini, riconoscendoli poveri non solo per la loro condizione materiale, ma come vittime di un sistema ingiusto ed escludente.
I poveri non possono aspettare, hanno bisogno della nostra sollecitudine. È a loro che La Pira sente di dover rispondere. Il sindaco conosce le statistiche, ma sa dare un volto ai numeri. È consapevole della quantità di famiglie senza casa, dei lavoratori a rischio licenziamento: questi sono i veri protagonisti del suo impegno etico e politico.La politica cristiana è sollecitudine e capacità di intervento. Bruno Bignami, nel suo libro Dare un’anima alla politica (Edizioni Paoline, 2024), definisce La Pira un “sindaco interventista”. Un termine significativo, oggi forse dimenticato. Il suo interventismo era pragmatico: riconoscere i bisogni, assumersene la responsabilità, trovare soluzioni e agire come se quei problemi fossero propri. Significava osare, rischiare, mettersi in gioco. Il suo impegno si rivolse ai disoccupati, ai senzatetto, ai giovani, ai carcerati e agli ammalati. Per La Pira, la città era il luogo della trasformazione concreta, radicata nella vita delle persone.
La Pira non si limita a enumerare i problemi: li vive. Conosce le storie dietro i numeri e ne sente la responsabilità. Ed è qui che la politica diventa etica.
“Poi, la sera vado a letto. [...] E la sera affiora nel mio esame di coscienza questa popolazione che aspetta di avere la casa, di avere il lavoro dal quale dipende la sua vita fisica e spirituale, o di avere la streptomicina. Dico: «Signore, perdonatemi che m’arrabbio», tuttavia resta viva quell’altra cosa nella mia coscienza.”
Più potere si ha, maggiore è la responsabilità di rispondere ai bisogni degli altri. E non riguarda solo chi governa: ognuno, nel proprio ambito, esercita un piccolo o grande potere, che può usare per cambiare le cose o per lasciarle immutate. Spesso si sentono frasi come “Io non ho potuto”, “Io non posso”, “Io non potrò”, pronunciate da chi, pur avendo la possibilità di agire, sceglie di non farlo. Ma il vero potere è il poter-fare e poter-cambiare. Io posso stare vigile, posso rispettare le norme, posso fare spazio agli altri, posso premiare chi lo merita, posso rifiutare vantaggi personali, posso ascoltare chi mi critica, posso dare voce ai più deboli.Oggi, chi risponde ai bisogni della città? La politica locale sembra più concentrata sull’attrattività economica che sulla qualità della vita dei cittadini. Si punta sullo sviluppo immobiliare, sugli investimenti finanziari, sulla valorizzazione economica dello spazio urbano, spesso trascurando la città dell’abitare e del lavoro. La speculazione cresce, mentre il diritto alla casa e alla dignità lavorativa si affievolisce.
Se solo avessimo una piccola parte del coraggio di La Pira, che, di fronte alla perdita della casa per 3.000 suoi concittadini, non esitò a ricorrere allo strumento più audace: la requisizione temporanea delle abitazioni per emergenza sociale (un esproprio con indennizzo).
Questa è una pagina di storia civile su cui abbiamo riflettuto ancora troppo poco.
Nel difficile contesto dell’immediato dopoguerra, La Pira si batté per l’emergenza abitativa e riuscì a ottenere dal governo la costruzione dell’Isolotto, un quartiere modello pensato per sperimentare un’idea di città basata sulla comunità e sulla condivisione.5. La partecipazione ha un legame indissolubile con i luoghi
Senza luoghi veri, reali, senza quello spazio-tra-le-case, senza i paesi o i quartieri, senza quelle piazze dove le persone si incrociano, la comunità non comunica, e si trasforma in una semplice, passiva spettatrice.
La democrazia è tale se “si fa luogo”, se si incarna nelle storie locali, che poi diventano domande, servizi e istituzioni per tutti. È questa la storia di Maria Montessori, di Adriano Olivetti, di Franco Basaglia, di Danilo Dolci, per ricordare solo qualcuno tra i grandi.È nei luoghi che abbiamo ritrovato il senso della prossimità durante la pandemia;
è nei luoghi che dobbiamo trovare le soluzioni alla sfida energetica, attivando comunità capaci di collaborare per la produzione e la condivisione dell’energia; è nei luoghi che torna centrale la produzione alimentare (che significa anche cura della terra e del paesaggio); è nei luoghi che affrontiamo la sfida climatica, promuovendo azioni concrete di mitigazione ambientale, di contenimento degli effetti della siccità e delle inondazioni. Ed è quindi, ancora nei luoghi che possiamo ricostruire le condizioni della partecipazione popolare e del confronto, come elemento di salute del corpo sociale.E non bastano, anche qui non bastano le buone pratiche. Lavoreremo per gruppi intorno a pratiche, ma le buone pratiche sono semplicemente lo strumento per cominciare a pensare. Serve una visione politica, serve un agire pensante, una un’azione, un pensiero che si alimentano reciprocamente. Serve un agire che nasce dal pensiero, un pensiero che nasce dall’azione. Abbiamo diviso, separato l’intelletto dal corpo.
Abbiamo diviso il pensiero dalla capacità di tradursi in atti concreti, in simboli, in gesti. Bianca Baldi, che scende le scale senza i capelli, espone il corpo. Questa è la politica. Non bastano le buone pratiche, servono le azioni, servono i gesti, Serve riannodare il filo tra l’agire e il pensare. Serve un agire pensante che abbandona l’illusione consolatoria dei principi.Quante volte abbiamo fatto scudo della nostra povertà intellettuale attraverso dei principi che ci sembravano dire tutti i principi non dicono niente se non diventano la storia.
Il nostro Paese è stato grande, è stato grandissimo tutte le volte che è riuscito a trovare sintesi efficaci tra un’idea un luogo, una comunità, un’azione capace di essere disruptive e di rompere le routine.
E vorrei ricordarne una, ma ne vorrei ricordare 100 La storia di Franco Basaglia. Il dottorino giovanissimo arriva a Gorizia e non e non fa un trattato di psichiatria e non fa la grande riforma sulla sanità e sulla salute mentale che farà tanti anni dopo. Farà una cosa semplice acquistare i comodini per tutti i letti del reparto di psichiatria perché i malati mentali abbiano almeno un luogo di ricovero del sé.
Basaglia mette in atto un’azione e da quell’azione nascerà un processo di liberazione e lì nasceranno le politiche e lì nascerà la rinascita di una istituzione intera. E così faranno Danilo Dolci, Tina Anselmi, Sistema sanitario, Chiara Lubich, la Loris Malaguzzi che inventa le scuole materne, l’interventismo sociale di Giorgio La Pira. Noi siamo figli di questa Italia che ha saputo mettere insieme cuore, la testa, i luoghi, i corpi, le comunità.6. Conclusione: noi abbiamo solo le cose che possiamo far accadere
Il futuro non si prevede, si fa.
Il cambiamento non avviene per proclami, ma attraverso azioni concrete.
Serve un nuovo modo di fare politica, che crei comunità e spazi di partecipazione reale.
Siamo un Paese che ha sviluppato una modestissima confidenza con il futuro, perché siamo oltre misura innamorati del nostro passato. Tutto è storia, tutto è inizio, tutto è origine e tradizione, tutto parte dal raccontare storie che hanno un inizio epico: così per parlare di cibo dobbiamo fare rifermento ad antiche ricette o diete localmente sedimentate, coltiviamo l’immagine mitica dei borghi venerando le loro tradizioni, sagre, dialetto, mestieri antichi da conservare; abbiamo il mito della nostra unicità, dello splendore delle nostre opere d’arte del passato, degli antichi mestieri ormai perduti. Ma questa sorta di venerazione lascia poco spazio al presente e al nuovo che preme per nascere. E un Paese che coltiva in questo modo ossessivo la memoria fatica a fare i conti con il presente e non contempla di poter costruire il futuro.
Abbiamo perso per strada il piacere dell’invenzione, la trasgressione creativa, la capacità di tenere insieme arte e scienza, strategia e coraggio, e soprattutto quella necessaria ironia che non dovrebbe mai mancare.Se vogliamo incidere sul futuro dovremo quindi predisporci al cambiamento (a cambiare noi stessi e a cambiare collettivamente) considerando le insidie e le difficoltà che cambiare o raggiungere un obiettivo complesso comporta.
Damon Centola nel suo libro Cambiare. Come far succedere grandi cose, uscito per il Margine nel 2022, spiega che per cambiare comportamenti dobbiamo capire come possa avvenire il contagio positivo tra persone. Spostano i comportamenti delle masse i cosiddetti influencer, proponendo stili di vita alternativi, modelli, scelte o ci sono altre strade più efficaci? Se vogliamo ad esempio incentivare atteggiamenti ecologici o pacifici o rispettosi delle donne o giusti. Centola osserva che sebbene l’approccio virale possa funzionare per piccoli pacchetti di informazioni, quando si tratta di cambiare comportamento, non sembra funzionare bene e può effettivamente essere controproducente. Quindi, ad esempio, se il cambiamento di comportamento desiderabile è installare pannelli solari, piuttosto che diffondere molte informazioni su quanto sia giusto e su come realizzarlo sarebbe meglio aiutare alcune persone a installare effettivamente i pannelli. Amici e vicini vedranno i pannelli e altre persone chiederanno consigli su come farlo per aumentare lentamente il numero di persone nella loro cerchia che hanno pannelli, finché non inizierà a decollare lentamente.Non ci sentiamo ricchi del nostro passato ma questo comporta il rischio di vivere in modo nostalgico. Quante volte ci siamo voltati indietro pensando quanto era bella la Democrazia Cristiana, quanto era bello quando i cattolici erano uniti in un partito, quanto era bello negli anni Cinquanta e Sessanta.
Siamo un Paese di nostalgici, siamo un Paese di vecchi, siamo un Paese incapace di guardare, di innamorarsi del futuro.L’unica ricchezza che abbiamo non sono (invece) le cose che abbiamo fatto,
sono le cose che ancora possiamo fare.Di quelle ci sarà chiesto conto dei nostri figli e dei nostri nipoti. Voi dove eravate? Voi cosa avete fatto voi? Quando il gioco si faceva duro, dove eravate? Siete stati in grado di elaborare un pensiero comune? Siete stati in grado di superare le differenze? Siete stati in grado di restituire dignità a un pensiero che nasce dall’azione? Ecco, io penso che siamo di fronte a un appuntamento con la storia siamo di fronte all’appuntamento con la storia e con la nostra dignità e questa dignità nascerà soltanto dalla concordia dalla capacità di ascolto dai gruppi di lavoro dall’ascolto degli ultimi, delle donne, dei poveri:
ecco! non è una notizia, non sono valori notiziabili, ma io spero che qualcuno sappia trarne buon frutto,grazie e buon pomeriggio a tutti voi.
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Buon inizio di lavori, buon cammino
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