Francesco Casula e Vanni Tola sulla scuola in Sardegna: intervengono con differenti approcci e focalizzazioni. La crisi della scuola (poco sarda) in Sardegna. Ita faghere? Scuola e trasporti, non soltanto un problema di infrastrutture
I record della scuola sarda: prima nella dispersione scolastica.
di Francesco Casula
Nel campo dell’istruzione la Sardegna continua a detenere record poco invidiabili: è ancora al primo posto – come del resto negli anni scorsi – in Italia per dispersione scolastica, seguita dalla Sicilia e dalla Campania. La percentuale nell’isola è del 18% e Nuoro tocca il record con il 42,7% dei “dispersi”.
Gli studenti sardi sono più tonti di quelli italiani? O poco inclini allo studio e all’impegno? E i docenti sono più scarsi o più severi? Io non credo. Come non penso che svolgano più un ruolo determinante o comunque esclusivi, la mancanza o l’insufficienza delle strutture scolastiche (laboratori, trasporti, mense ecc.), anche se certamente influenzano negativamente i risultati scolastici.
E allora?
E allora i motivi veri sono altri: attengono alle demotivazioni, al senso di lontananza e di estraneità di questa scuola. Che non risulta né interessante, né gratificante, né attraente. La scuola italiana in Sardegna infatti è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Dunque non a un sardo. E tanto meno a una sarda.
E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo, nell’organizzazione.
Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua e la civiltà complessiva dei Sardi dalla scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Permane una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi e categorie che le grandi civiltà avrebbero voluto irradiare verso le civiltà considerate inferiori. Questa scuola ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Apprendono l’italiano a scuola ma soprattutto grazie ai media: ma si tratta di una lingua stereotipata, gergale, banale, una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore. Ma una scuola monoculturale e monolinguistica produce effetti ancor più gravi e devastanti a livello psicologico e culturale. Da decenni infatti la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine, la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente.
Di qui la mortalità e la dispersione scolastica.
Ite faghere? Cambiare radicalmente la didattica, i curricula, la stessa mentalità di docenti e dirigenti scolastici.
Per quanto attiene alla lingua sarda occorrerà finalmente partire dal dato – appurato scientificamente da tutti gli studiosi – che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico non si configurano come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono apprendimento e le capacità comunicative degli studenti, perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo.
Per decenni l’impegno politico-sindacale, nel migliore dei casi, è stato finalizzato esclusivamente alla risoluzione dei problemi strutturali (aule, laboratori, palestre) o a quello dei trasporti. O a quello del personale e degli organici. Si è invece trascurato del tutto una questione cruciale: la catastrofica situazione della didattica. E dunque dei contenuti e dei metodi di una scuola che risulta semplice e piatta succursale e dependence della scuola italiana.
Negli indirizzi operativi per gli interventi a favore delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado della Sardegna per contrastare la dispersione scolastica e innalzare la qualità dell’istruzione e le competenze degli studenti, la lingua sarda non viene neppure citata. Come se non esistesse alcun rapporto fra il fallimento scolastico, la scarsa preparazione e la questione del Sardo. Rapporto invece dimostrato inequivocabilmente da studiosi e pedagogisti come Maria Teresa Catte e la compianta Elisa Spanu Nivola. O come se la didattica fosse ininfluente per l’apprendimento e la formazione. Scrive a questo proposito il compianto Nicola Tanda, già professore emerito di Letteratura e Filologia sarda nell’Università di Sassari: “Nelle classifiche della scuola superiore il Friuli occupa la prima posizione e la Sardegna quasi l’ultima. Mi domando: c’è qualche connessione tra questi risultati e l’uso proficuo che essi fanno della specialità del loro Statuto?”.
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Scuola e trasporti, non è soltanto un problema di infrastrutture.
di Vanni Tola.
L’emergenza sanitaria di questo ultimo anno, l’esigenza di rincorrere ed arginare la pandemia per difendere la salute di tutti, ha limitato la nostra capacità di analizzare la realtà e di progettare un futuro migliore. Analizziamo la situazione scolastica in Sardegna. Il 24% dei giovani trai 18 e i 24 anni non ha un diploma. Il 28 % delle persone tra i 15 e i 29 anni non studia più, non lavora e non fa formazione professionale. Il 57,4 % dei residenti in Sardegna non va oltre la scuola dell’obbligo (50,1 la media nazionale). L’Unione Europea considera fisiologico il dato che un 10% della popolazione non abbia un diploma, questa percentuale, tra i residenti nel sud Sardegna raggiunge il 63,9%, il dato peggiore d’Italia. Nelle grandi città invece i valori relativi all’istruzione sono sostanzialmente più vicini alla media nazionale. Vogliamo cominciare a domandarci il perché? Vogliamo provare a individuare le cause e a pensare alle soluzioni del problema? Cominciamo dal problema del trasporto degli studenti verso gli istituti scolastici superiori. Non è soltanto un problema di scarsa disponibilità mezzi pubblici. Terminata la scuola media, la maggior parte dei giovani dei nostri paesi é “condannata” a vivere la poco invidiabile condizione del pendolarismo verso i centri più grandi, sedi degli istituti superiori. Significa, per un periodo di almeno cinque anni, doversi alzare molto presto, viaggiare su mezzi pubblici spesso indecenti e in condizioni non certo comode, frequentare le lezioni e tornare poi a casa quasi a metà pomeriggio con l’impegno, naturalmente, dei compiti e dello studio a casa. Pensate che per un giovane possa essere “attraente” questa offerta scolastica considerate anche le basse prospettive occupazionali che un diploma promette? Considerata la scarsa spendibilità nel mondo del lavoro di titoli di studio quasi mai direttamente collegati alle esigenze e alle richieste del mondo del lavoro? La tentazione alla rinuncia dello studio oltre la terza media é fortemente incentivata da questo stato di cose.
Proviamo invece a pensare al fatto che in tanti piccoli paesi, a causa dello spopolamento e di servizi sociali al limite della sopravvivenza, esistono centinaia di edifici di scuole della fascia dell’obbligo ormai abbandonate o sottoutilizzate che potrebbero ragionevolmente essere recuperate per realizzare sedi decentrate degli istituti superiori che attualmente esistono esclusivamente nelle grandi città. Ci vogliamo pensare seriamente alla possibilità di creare dei poli scolastici polivalenti nei paesi di medie dimensioni nei quali ospitare sezioni staccate dei diversi istituti cittadini? Non pensate che limitando il pendolarismo e garantendo migliori condizioni di vita per gli studenti oggi costretti al pendolarismo il loro interesse per lo studio potrebbe essere incrementato? Le potenzialità dei moderni mezzi di comunicazione e un intelligente insegnamento a distanza potrebbero aiutare in tal senso. Studi sociologici e demografici da tempo evidenziano e denunciano i limiti ormai noti dell’inurbamento quasi forzato verso le grandi città e le città costiere. Indagini e ricerche che suggeriscono scelte politiche orientate al decentramento dei servizi nei territori anche nella prospettiva di favorire la riantropizzazione di aree geografiche in via di spopolamento e la rinascita di paesi altrimenti destinati a scomparire dalle carte geografiche nel giro di pochi decenni. Un problema immenso, difficile, complesso ma non per questo irrealizzabile che richiederebbe lo sforzo congiunto di università e centri di ricerca, un ceto politico capace e ambizioso, una mobilitazione generale e una rivalutazione delle esperienze positive in atto in tal senso. Perché non pensarci? D’altronde sembra essere questa l’indicazione di massima dell’Unione Europea contenuta nei nuovi programma di spesa per lo sviluppo.
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