Oggi venerdì 11 dicembre 2020
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Max Leopold Wagner, a te neanche una viuzza. Che volete farci noi sardi sian fatti così: onoriamo chi ci bastona e dimentichiamo chi ci ama
11 Dicembre 2020 su Democraziaoggi.
Nei giorni scorsi ho letto sui giornali che la giunta di un piccolo comune sardo vuole togliere dalla propria toponomastica due savoia e intitolare le due vie ad Eleonora e ad un uomo illustre del luogo. Già altri comuni ci hanno provato, ma con difficoltà perché un decreto nientemeno di un savoia, il re sciaboletta, […]
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Editoriali di AsViS
Il sistema istituzionale è caotico, occorre il concorso della società civile
Il ritardo del Mezzogiorno, l’evoluzione delle Regioni, le contese sul federalismo ci consegnano un assetto che fatica ad affrontare le sfide e le opportunità del nostro futuro. Per l’ASviS inizia un nuovo impegno, sui territori.
di Donato Speroni su AsViS
Invitato a Propaganda live, Sergio Staino, un po’ ammaccato dagli anni ma lucido e tagliente come sempre, ha spiegato il titolo del suo recente libro autobiografico “Quel signore di Scandicci. Quarant’anni con Bobo”, sottolineando l’importanza del radicamento, dell’appartenenza a un territorio. Scandicci, appunto, comune dell’area metropolitana di Firenze, dove Staino vive fin dai tempi delle sue prime collaborazioni a Linus.
Siamo tutti italiani, all’occorrenza sventoliamo il tricolore, vogliamo essere cittadini europei e molti di noi accolsero con gioia la decisione dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi di affiancare alla nostra bandiera quella dell’Unione su tutti i palazzi pubblici. Però l’identificazione con un territorio è altrettanto importante. Credo che sia più forte di quanto non avvenga in molti altri Paesi, forse per via della nostra storia, che è una storia di Comuni, di Stati a dimensione poco più che regionale, spesso in aspra contrapposizione o in guerra tra loro. Ancora oggi, i territori, articolati in Regioni, Province o Città metropolitane, Comuni ma anche consorzi comunali e comunità montane, hanno una rilevanza fondamentale per l’attuazione di qualsiasi politica e avranno un ruolo di primo piano per il successo del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che attraverso la gestione di oltre 200 miliardi di fondi europei offre un’occasione unica per mettere finalmente l’Italia su un sentiero di sviluppo sostenibile. Il primo rapporto dell’ASviS: “I territori e gli obiettivi di sviluppo sostenibile”, che sarà presentato on line il 15 dicembre, cade in un momento particolarmente importante, offrendo al Paese un quadro della situazione di regioni e città metropolitane, ma anche proposte per l’avvio di politiche locali orientate alla sostenibilità. Il giorno successivo, verrà inaugurata la Scuola per lo sviluppo sostenibile per le Regioni e le Province autonome, un’iniziativa di ASviS, Cinsedo, Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Rete delle Università per lo sviluppo Sostenibile (Rus), Scuola Nazionale di amministrazione (Sna) e con il contributo di Terna, della Fondazione Eni Enrico Mattei (Feem) e dell’Eni. Il percorso formativo si rivolge a dirigenti e funzionari delle istituzioni locali per approfondire le tematiche legate allo sviluppo sostenibile, con l’obiettivo di accrescere il livello di consapevolezza, impegno, responsabilità e leadership degli enti territoriali nell’attuare l’Agenda 2030.
I territori possono essere un punto di forza, ma sono anche il punto debole dell’azione pubblica. Innanzitutto perché le amministrazioni locali non hanno dappertutto lo stesso livello di operatività. Il divario che allontana il Mezzogiorno dal resto del Paese è anche frutto delle carenze di molte amministrazioni locali, pur senza voler generalizzare l’efficienza del Nord e l’inefficienza del Sud.
Molti problemi si pongono tutte le volte che i diversi livelli di governo entrano in conflitto tra loro, come abbiamo visto chiaramente nelle vicende legate a questa pandemia. I conflitti si sono aggravati con la creazione delle Regioni, proprio cinquant’anni fa. Quando nacquero, crearono molte aspettative. Inesistenti nella struttura amministrativa del Regno, furono previste dalla Costituzione della Repubblica, ma per 22 anni l’articolo 131 rimase inattuato, soprattutto perché il partito dominante, la Democrazia cristiana, temeva di accrescere i poteri del Partito comunista italiano nelle cosiddette “zone rosse”. Quando finalmente nacquero, crearono grandi aspettative. Dovevano essere organi snelli, di programmazione territoriale. Nella visione di Ugo La Malfa, il segretario del Partito repubblicano che molto si batté per la loro istituzione, dovevano sostituirsi ai prefetti, longa manus dello Stato nelle province, fino a determinarne la scomparsa. Ma non dovevano assumersi compiti di gestione.
Poi le cose andarono diversamente. Un primo importante strappo si determinò con la legge 64 del 1986, che riformò l’intervento straordinario del Mezzogiorno stanziando ben 120mila miliardi di lire che oggi, tenendo conto dell’inflazione, possono essere considerati equivalenti a 120 miliardi di euro. La legge prevedeva fondi per le infrastrutture, l’innovazione, incentivi per le attività produttive. Modificava però il vecchio impianto dell’intervento straordinario, abolendo la Cassa per il Mezzogiorno e sostituendola con una Agenzia e un Dipartimento presso la presidenza del Consiglio, che entrarono immediatamente in conflitto. Soprattutto, delegava la progettazione agli enti locali e in particolare alle Regioni, perché questo corrispondeva all’interesse dei partiti maggiori, non solo la Dc ma anche il Pci.
Si tradusse in una pioggia di piccoli progetti che non modificarono realmente la situazione del Sud, un fiume di denaro disperso in mille rivoli. Fu gestita da ministri che raramente vollero incidere: il presidente del Consiglio Giovanni Goria, che trattenne presso di sé la delega, annunciando che si sarebbe dedicato al Mezzogiorno ogni mercoledì, Riccardo Misasi, che andava al ministero solo a tarda sera sconvolgendo i ritmi di lavoro dei suoi collaboratori, il siciliano Calogero Mannino, che aveva altre preoccupazioni, per via delle accuse di collusione con la mafia dalle quali solo quest’anno è uscito pienamente assolto. Unica eccezione, onore al merito, Remo Gaspari, che aveva l’abitudine di verificare nei dettagli l’attuazione delle sue decisioni. Ottenne buoni risultati, non solo per il suo Abruzzo.
Insomma, la legge fu un fallimento, a differenza della legge parallela 44 del 1986 per l’imprenditorialità giovanile nel Mezzogiorno, che fece effettivamente nascere centinaia di imprese, molte ancora vive e vitali. Ma la 44 era gestita da un Comitato snello, guidato da un ottimo manager, Carlo Borgomeo, oggi a capo della Fondazione per il Sud.
L’opinione pubblica percepì nel complesso un grande spreco, negli stessi anni in cui la Germania, con uno sforzo paragonabile ai nostri stanziamenti per il Sud, sanava la situazione infrastrutturale della ex Repubblica democratica tedesca.
Il fallimento della legge 64 favorì l’avvento della Lega Nord e contribuì a determinare l’attuale assetto delle Regioni. Nel 1992, per evitare un referendum voluto dalla Lega, l’intervento straordinario fu abolito, gettando il bambino assieme all’acqua sporca e avviando un ventennio di minore attenzione ai problemi del Mezzogiorno. Il Dipartimento per le politiche di coesione presso la presidenza del Consiglio fece il possibile per salvare il salvabile, ma alla fine con i governi Conte si arrivò a ricostituire un ministero (senza portafoglio) per il Sud, riconoscendo che i problemi erano tutt’altro che risolti.
Nel 2001, l’accentuarsi della spinta federalista indusse la maggioranza di centrosinistra, nell’illusione di togliere spazio alla Lega, a varare la riforma del Titolo Quinto della Costituzione, delimitando i poteri dello Stato a settori come Difesa e ordine pubblico, con alcune materie di “legislazione concorrente”, ma stabilendo nell’articolo 117 che “Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Lo Stato abbandonò un campo vastissimo, che andava dalla Sanità all’Istruzione, settore nel quale Roma si riservò soltanto il diritto di emanare “norme generali”.
Ne derivò una gran confusione, con centinaia di vertenze presso la Corte Costituzionale e una sostanziale divaricazione nella situazione dei territori. Matteo Renzi tentò di porvi un rimedio con la sua riforma costituzionale, ma si trattava di un testo pasticciato, che metteva insieme troppe cose. Fu bocciato a larga maggioranza, lasciando un’opinione pubblica divisa tra chi vorrebbe attribuire alle Regioni maggiore autonomia per consentire loro di trattenere gran parte delle risorse fiscali che invece vengono distribuite dal governo centrale (non a caso questa tesi è diffusa nelle regioni del Nord) e un’opinione pubblica che vorrebbe invece un più forte intervento dello Stato per rimettere ordine in questa situazione istituzionale opaca, le cui contraddizioni sono esplose con la pandemia.
Avere consapevolezza del passato serve per guardare meglio al futuro. Oggi il Paese si trova di fronte a una sfida e a un’occasione senza precedenti. La sfida non è solo quella di uscire dalla pandemia, sia in senso sanitario che in senso economico, ma anche di prepararsi a nuove minacce che possono derivare dalla crisi climatica, dall’accentuarsi delle tensioni sociali, da rapide rivoluzioni tecnologiche che cambieranno la nostra vita: dalla configurazione delle città al modo di lavorare e alla formazione necessaria per farvi fronte.
L’opportunità è offerta dai fondi europei, che presuppongono una elevata capacità gestionale, dalla progettazione all’attuazione. Già la settimana scorsa avevo sottolineato il dilemma che divide il governo: se affidarsi alla pubblica amministrazione ordinaria con tutte le sue lentezze o creare una sorta di nuovo “intervento straordinario” gestito da manager esterni, con tutte le tensioni politiche che ne possono derivare e che già oggi stanno mettendo a rischio le sorti dell’esecutivo.
Alla fine il nodo è sempre lo stesso: i territori. È probabile che sulla contrapposizione tra ministri e supermanager si trovi un compromesso, perché pochi nella maggioranza vogliono davvero rischiare elezioni anticipate. Ma l’attuazione dei progetti del Next generation Eu e degli altri fondi del bilancio europeo 2021-2027 sarà in larga misura affidata ai soggetti locali, in particolare Regioni e Città metropolitane. Il disordine istituzionale purtroppo non si può sanare con un colpo di bacchetta magica. Dobbiamo invece far sì che l’azione politica a tutti i livelli sia accompagnata da una forte presenza della società civile, che deve reclamare partecipazione alle decisioni, trasparenza negli atti, rapidità nell’attuazione. Per l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile e per le 180 associazioni che ne fanno parte questo è certamente l’impegno più importante nei prossimi mesi. Un impegno che trarrà forza dall’incontro del 15 dicembre e che indurrà l’ASviS a mobilitare tutte le forze attente allo sviluppo sostenibile, in tutti i territori del Paese.
Nella foto: il grattacielo Pirelli a Milano, sede della Regione Lombardia (Foto Ansa)
Venerdì 11 Dicembre 2020
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