UNITÀ ED EGUAGLIANZA UMANA
15 FEBBRAIO 2020 / COSTITUENTETERRA / L’UNITÀ UMANA /
Non c’è più né Giudeo né Greco
(Gal. 3, 28)
Relazione tenuta da Raniero La Valle a Portici il 6 ottobre 2018 alla Festa Multiculturale “Pane nostro”del Coordinamento Campano contro le camorre e le mafie.
di Raniero La Valle
Vi potrà stupire che ci sia una citazione biblica come titolo di questo mio intervento , quando né le citazioni bibliche né il cristianesimo sembrano oggi molto di moda, e anzi si sta cercando di dare una spallata per abbatterli.
Però a ben vedere anche il titolo di questa vostra Festa multiculturale è una citazione biblica, “Pane nostro”, anzi è addirittura una citazione del “Padre nostro”. E in sostanza le due citazioni vogliono dire la stessa cosa: e cioè che non c’è nulla di nostro, nemmeno il pane, che non sia anche degli altri, che non sia un nostro di tutti. E se non c’è né Giudeo né Greco è perché non c’è un mondo di soli cittadini e non anche di stranieri, non c’è da una parte un’Europa comunitaria e dall’altra un mondo barbarico di extracomunitari, non c’è un’Italia di residenti che non sia anche un’Italia di immigrati, di fuggiaschi e di nomadi.
Questa è la tesi del nostro discorso. Ma perché cominciare proprio dal mettere insieme Giudei e Greci? Per la buona ragione che nella nostra società non c’è più posto per l’antisemitismo. È vero che per arrivarci ci sono voluti milioni di morti, ma ormai su questo, a parte i negazionisti e gli acciecati, sono tutti d’accordo. Allora è bene partire da una posizione da tutti condivisa, per affermarne un’altra altrettanto sacrosanta, e cioè che come non c’è Giudeo e Greco, così non c’è Italiano e Straniero; e questa affermazione è invece oggi fieramente contestata, quando si dice “prima gli Italiani” o addirittura “solo gli Italiani”, come si dice “prima l’America” o “la Francia per prima”. L’altra sera in TV la signora Santanchè diceva che i migranti devono essere respinti in quanto delinquenti, e anche sotto questo profilo doveva valere il motto “prima gli Italiani”, anzi in questo caso il messaggio era “solo gli Italiani, vogliamo solo i delinquenti italiani”; e questi ce li dobbiamo tenere almeno fino a quando non si riuscirà a togliere la cittadinanza anche a loro, come prevede il decreto sicurezza del ministro Salvini.
Allora qui bisogna sapere che è in gioco una grande questione, che ha attraversato tutta la storia, e su cui si decide tutto il nostro futuro: è la questione della diseguaglianza.
La storia della diseguaglianza
Dire non c’è più Giudeo né Greco, come dissero Paolo e il cristianesimo nascente, era una rivoluzione epocale anzitutto perché gli stessi Ebrei sostenevano una differenza invalicabile tra sé e gli stranieri, che non potevano neanche entrare nel recinto del Tempio, gli uni essendo eletti gli altri dannati; ma era una novità straordinaria anche perché il pensiero della diseguaglianza dominava non solo l’immaginario religioso, ma tutta la cultura dell’umanità, e non solo nel sentire comune e nell’opinione del volgo, ma ai livelli più alti della filosofia e del pensiero. Quella che dominava era infatti l’antropologia di Aristotile che divideva la società in signori e servi, e i servi erano tali per natura, “naturaliter servi”, come traducevano i latini. Questa diseguaglianza non dipendeva da contingenti condizioni economiche e sociali, ma era una diseguaglianza originaria; in termini colti si potrebbe dire una diseguaglianza ontologica, per essenza, e quindi umanamente irrimediabile. È la stessa cosa che valeva e vale ancora oggi per le caste in India, per cui mai lì si potrà passare dalla casta dei mercanti o dei servi alla casta dei guerrieri o dei brahamani: l’unica possibilità di cambiare casta è di morire e ricominciare un’altra vita. E non parliamo poi dei dalit, o intoccabili e “fuori casta”, con cui le caste superiori non devono nemmeno venire in contatto; anzi per la strada essi devono camminare al centro per non offuscare con la loro ombra le mura delle case delle caste alte.
In Occidente Aristotele spiegava che come per natura si uniscono maschio e femmina per la riproduzione, così deve esserci “chi per natura comanda e chi è comandato al fine della conservazione” (“Politica”, libro I), e questo rapporto di dominio si fondava su una diseguaglianza originaria, per cui si nasce liberi o schiavi, maschio e femmina, “l’uno per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata”, e da qui scendevano a cascata le altre diseguaglianze, sociali, di classe ed etniche, per cui erano contrapposti padroni e servi, liberi dal lavoro e costretti ai lavori necessari, cittadini e non cittadini, greci e barbari, nativi e meteci (che erano poi i meticci, gli immigrati).
Fu perciò una grande rivoluzione religiosa e antropologica che Gesù, in nome di Dio Padre nostro, padre di tutti, rompesse il muro di separazione tra Giudei e Greci, tra Ebrei e Gentili e affermasse la radicale eguaglianza di tutti gli esseri umani, fino a dire con Paolo non solo che non c’è più né Giudeo né Greco, ma non c’è più maschio e femmina, non c’è Barbaro o Scita, schiavo e libero, e non c’è più circoncisione e incirconcisione (Col. 3, 11): e questo voleva dire abrogare quella divisione tra eletti e scartati che, secondo le Scritture ebraiche era addirittura di diritto divino, tanto da essere poi per sempre impressa nella carne dei membri del popolo eletto mediante la circoncisione.
Ora questa radicale unità ed eguaglianza di tutti gli uomini e le donne che Gesù ha affermato e realizzato attraverso la croce veniva ad adempiere quelle promesse messianiche, che già nell’Antico Testamento avevano prefigurato l’unità di tutte le famiglie della terra; basta pensare alla profezia di Isaia che annunciava che dalle loro spade fabbricheranno vomeri, dalle loro lance falci, nessuna nazione alzerà più la spada contro l’altra e non impareranno più l’arte della guerra (Is. 2, 4), o la profezia di Michea che annunciava che potranno sedersi ciascuno tranquillo sotto la sua vite e sotto il suo fico senza nessuno che li spaventi, e addirittura che tutti i popoli avrebbero camminato insieme ognuno nel nome del suo Dio (Mich. 4, 4-5): cioè tutte le discriminazioni sarebbero cadute, mentre tutte le identità sarebbero state salvate. La novità del Cristo, che poi significa Messia, portava cioè quel cambiamento radicale che doveva segnare il passaggio dall’età della profezia, dell’annuncio, a quella della realizzazione delle promesse messianiche.
Purtroppo però questa antropologia nuova non è entrata di fatto nella storia successiva, e nemmeno, se non con molta fatica, nello stesso cristianesimo. È vero che, come dice la seconda lettera di Pietro un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno al cospetto di Dio (2Pt 3,8), ma fatto sta che il pensiero della diseguaglianza ha continuato a dominare la storia. Ed è stata questa cultura della diseguaglianza che ha fondato e legittimato le società signorili e feudali, e innumerevoli forme storiche concrete di società inegualitarie, castali, razziste, sessiste e classiste.
La conquista dell’America
Per venire a tempi più recenti, possiamo dire che questa cultura della diseguaglianza è all’opera e produce il massimo della sua capacità discriminatoria agli albori della modernità, quando, con la conquista dell’America, gli europei si imbattono negli Indios, e parte la grande vicenda della colonizzazione. Nel 1500 si ricorre infatti all’antropologia di Aristotile, per dire che vi sono uomini e collettività che non essendo per limiti innati dotati di ragione sufficiente, sono incapaci di essere liberi e padroni di se stessi e quindi giustamente assoggettati dagli Spagnoli. È la tesi che Francisco De Vitoria confuterà nella sua famosa Relectio de Indis: ma intanto gli Indios vengono assoggettati e questo pensiero della diseguaglianza arriverà fino ad Hegel, a Croce, a De Gobineau e ai razzismi del Novecento europeo.
È proprio a partire dalla conquista dell’America che si sviluppa infatti nella filosofia dell’Occidente la concezione che teorizza una diseguaglianza per natura tra gli esseri umani, come dirà apoditticamente il grande dizionario Larousse alla fine del XIX secolo: “Nul ne contestera que la race blanche ne soit superieure à toutes les autres”. L’idea antica che tra gli esseri umani ci fossero i superiori e gli inferiori, i perfetti e i malriusciti, trova nella percezione europea degli Indios “scoperti” o incontrati in America la conferma irrefutabile. Se ci sono uomini e meno uomini, gli Indios ne forniscono la prova. Comincia Colombo, che non riconosce “l’altro” (come ha mostrato Cvetan Todorov in «La conquista dell’America: il problema dell’”altro”») non riconosce colui che a suo parere non “sa parlare” (in verità non sa parlare lo spagnolo), e poi c’è il conquistatore Francisco Pizarro che ha ben ragione di sentirsi superiore dal momento che con soli 168 soldati riesce a prevalere su un esercito di 80.000 uomini, e prende prigioniero Atahualpa, il re degli Inca, nella città andina di Cajamarca, uccidendo settemila Indios (ma la verità è che aveva i cavalli, non ancora domesticati nel continente americano, e perciò aveva la cavalleria, e i fucili e l’acciaio delle corazze e delle spade e delle lance, ancora ignoti agli indiani che combattevano potendo ferire, ma non uccidere); e poi c’è Hernan Cortés, che impone con la violenza il meticciato facendo sposare agli spagnoli le più belle indiane e sposando lui stesso una principessa indiana, la Malinche, che poi naturalmente ripudia, per popolare le terre conquistate con una razza nuova, non più di indigeni, ma di mestizos, cioè di indiani spagnolizzati. Ci penserà poi la teologia di Juàn de Sepùlveda a suggellare l’inferiorità degli Indios, ma purtroppo questa teorizzazione della diseguaglianza non resta isolata, si pianta nella cultura europea fino ad essere espressa nel punto più alto della filosofia occidentale, cioè nell’opera di Hegel. Il grande filosofo tedesco ha delle pagine terribili sulla presunta inferiorità degli Indios. “Dal tempo in cui gli Europei sono approdati in America, gli indigeni sono scomparsi a poco a poco, al soffio dell’attività europea”, dice nelle “Lezioni sulla filosofia della storia”, e lo spiega così: “Della civiltà americana quale si era venuta evolvendo specialmente nel Messico e nel Perù… sappiamo solo che essa era del tutto naturale, e che doveva quindi scomparire al primo contatto con lo spirito”. Ma lo scarto tra lo spirito e la natura è anche uno scarto nella stessa natura; la scomparsa degli indigeni dipende dunque per Hegel “dall’inferiorità di questi individui sotto ogni aspetto, perfino quanto a statura”.
Nel rievocare queste pagine, il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli sottolinea come esse abbiano fatto scuola, fino a Croce. Anche il patriarca della cultura italiana adotta infatti il criterio storiografico di un’opposizione tra popoli della natura e popoli dello spirito, e scrive: “Gli uomini si distinguono tra uomini che appartengono alla storia e uomini della natura, uomini capaci di svolgimento e uomini di ciò incapaci; e verso la seconda classe di esseri, che zoologicamente e non storicamente sono uomini, si esercita, come verso gli animali, il dominio, e si cerca di addomesticarli e di addestrarli, e in certi casi, quando altro non si può, si lascia che vivano ai margini… lasciando che di essa si estingua la stirpe, come accadde di quelle razze americane che si ritiravano e morivano (secondo l’immagine che piacque) dinanzi alla civiltà da loro insopportabile”[1].
E che la soluzione migliore per gli Indiani fosse lo sterminio, è stato teorizzato da eminenti studiosi. Nel 1782 a Pittsburgh il giurista e letterato H. Henry Brackenridge così si esprime a proposito degli Indiani: “Essi hanno l’aspetto umano e forse fanno parte della specie umana”; ma “la natura dell’indiano è feroce e crudele… Il loro sterminio sarebbe utile al mondo e onorevole per coloro che vi provvederanno”.
Ma purtroppo l’Indio è solo un prototipo; infatti la diseguaglianza teorizzata per loro riguarderà poi i neri, gli ebrei ed ogni altra categoria di diversi. Locke, all’inizio della rivoluzione industriale, assimilerà agli Indios i proletari: “un manovale non è in grado di ragionare meglio di un indigeno”. E Spencer, il promotore ottocentesco della società dell’utile, applicando alla sociologia e alla società la teoria darwiniana dell’evoluzione, scriverà nel suo “Sistema di filosofia sintetica”: Tutti gli uomini sono come sottoposti a un giudizio di Dio, “se sono realmente in grado di vivere, essi vivono, ed è giusto che vivano. Se non sono realmente in grado di vivere, essi muoiono, ed è giusto che muoiano”.
Il punto d’arrivo di questa linea di pensiero è Nietzsche, il vero teorico della società della selezione. Per Nietzsche non si può parlare di uomini “eguali”: questa è l’illusione dei deboli. In diversi punti delle sue opere Nietzsche mette sotto accusa l’eguaglianza, intesa come una grande follia. “Così parla a me la giustizia: gli uomini non sono tutti eguali. E neppure devono diventarlo!” (Zarathustra); l’eguaglianza “è volontà di negazione della vita, principio di dissoluzione e di decadenza” (Al di là del bene e del male). Di qui gli effetti, le conseguenze e gli scopi dell’eguaglianza: trasformare l’umanità in sabbia: tutti molto eguali, molto piccoli, molto tollerabili, molto noiosi”); essa porta a un “guazzabuglio sociale”, a una degenerazione della razza a .. sopprimere “la selezione” e rovinare la specie (Frammenti postumi). Il razzismo ha pertanto la sua copertura filosofica. Da tutto questo veniamo, altro che Salvini!
La svolta
Ma a un certo punto c’è una svolta epocale. La svolta arriva dopo i genocidi del Novecento, quello degli Armeni prima, e quello degli Ebrei poi, e arriva dopo quella tragedia della volontà di potenza che era stata la seconda guerra mondiale. L’umanità capisce il suo lungo errore, decide di cambiare pagina: sull’eguaglianza di tutti gli uomini e le donne e di tutte le Nazioni grandi e piccole è fondata l’ONU, viene messa fuori legge la guerra, il principio di eguaglianza è assunto come irrevocabile nella Costituzione italiana e nel costituzionalismo postbellico. Sembrava davvero l’inizio della realizzazione delle promesse messianiche. Invece è arrivata la guerra fredda, il terrore atomico, il riarmo nucleare; e quando i blocchi sono caduti e il comunismo è finito, il capitalismo, che era stato messo sotto scacco dalle politiche comuniste, socialdemocratiche, keynesiane e dalle stesse Costituzioni, ha preso la sua rivincita e ha potuto prendere il dominio del mondo nelle forme della globalizzazione. A questo punto la diseguaglianza è tornata a dominare la politica, l’economia e la finanza, e si è aperto il baratro di quella che papa Francesco chiama oggi la società dello scarto.
La società dello scarto
La nuova società dello scarto, che mette fuori gioco i non scelti, i non salvati, gli esuberi, i senza casa e i senza lavoro, è peggiore della vecchia società dello sfruttamento; lo ha spiegato il papa nella “Evangelli Gaudium” e lo ha ribadito nella recentissima intervista al Sole 24 ore (7 settembre 2018): “non si tratta semplicemente del fenomeno conosciuto come azione di sfruttamento e oppressione, ma di un vero e proprio fenomeno nuovo. Con l’azione dell’esclusione colpiamo nella sua stessa radice i legami di appartenenza alla società a cui apparteniamo dal momento che in essa non si viene semplicemente relegati negli scantinati dell’esistenza, nelle periferie, non veniamo privati di ogni potere, bensì veniamo sbattuti fuori. Chi viene escluso non è sfruttato, ma completamente rifiutato, cioè considerato spazzatura, avanzo, quindi spinto fuori della società. Non possiamo ignorare che un’economia così strutturata uccide perché mette al centro e obbedisce solo al denaro: quando la persona non è più al centro, quando fare soldi diventa l’obiettivo primario e unico, siamo al di fuori dell’etica e si costruiscono strutture di povertà schiavitù e di scarti”.
E noi possiamo aggiungere che mentre gli sfruttati almeno potevano lottare per riscattarsi, gli scartati non possono nemmeno lottare perché di fatto “non ci sono”. Non ci sono.
Il popolo dei migranti
Allo stesso modo non ci sono, non ci devono essere i migranti.
[segue]
Lo scarto dei migranti rivela tutto il suo orrore in agghiaccianti statistiche. Nel 2016 cinquemila sono stati i morti nel Mediterraneo, in media 14 al giorno: è la cifra più alta perché nel 2015 i morti erano stati 3771, mentre nel 2017 le vittime sono state 3081.
Nel 2017 ci sono stati 68 milioni e cinquecentomila persone vaganti e costrette alle fuga. I richiedenti asilo che all’inizio dell’anno scorso erano in attesa di una decisione sulla loro richiesta di protezione erano 3 milioni centomila. La maggior parte delle persone in fuga sono giovani, nel 53 per cento dei casi sono minori, molti dei quali non accompagnati o separati dalle loro famiglie. Entro il 2050 si prevede che ci saranno nel mondo 250 milioni di migranti ambientali ed esuli che fuggono da guerre e repressioni.
Però un discorso sui migranti non si può fare sui numeri. Le persone non sono numeri. I 150 naufraghi che il governo italiano si è rifiutato per giorni e giorni di far sbarcare a Catania dalla motonave Diciotti rappresentano una tragedia morale e politica più grave rispetto ai 3000 naufraghi scomparsi in mare senza che nessuno potesse dar loro soccorso.
Tuttavia i numeri che riguardano i migranti sono importanti perché sono i numeri di un fenomeno che segnala e e nello stesso tempo produce un passaggio d’epoca. Le grandi migrazioni in corso ci dicono che stiamo passando da una a un’altra età del mondo, che siamo nel pieno di una discontinuità storica. È come se stessimo scoprendo un’altra volta che la terra è tonda, e tutto dipende da come vi reagiremo, così come tutto dipese da come si reagì alla scoperta dell’America.
Il rischio è che noi vi rispondiamo con un naufragio: ma non solo il naufragio dei profughi, ma il nostro naufragio. E il vero naufragio consiste nel ricadere in quella notte oscura da cui l’Europa e il mondo erano usciti alla fine della seconda guerra mondiale, quando decisero che mai più avrebbe dovuto esserci un genocidio. Per questo il primo atto delle Nazioni che si erano unite nella guerra antifascista e che come Nazioni Unite si incontrarono a San Francisco per dare inizio a un mondo nuovo, fu la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Ma siccome non c’era stato solo il genocidio degli Ebrei, nella Convenzione si ebbe cura di affermare che si intendeva per genocidio non solo lo sterminio di un popolo intero, ma ogni atto volto “a distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale”; dunque il popolo che la Convenzione intende tutelare è ogni gruppo umano accomunato da fattori e circostanze che fortemente lo identificano; e tra gli atti sanzionati per tale crimine vengono esplicitati le lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo, la sottoposizione del gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale, le misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo.
Se ora applichiamo tali criteri alla specifica condizione umana dei migranti, vediamo come anch’essi siano un popolo, un popolo in cammino, di uomini e donne che in gruppi ed aggregazioni le più diverse, insieme affrontano il mare o le rotte terrestri per andare da un Paese all’altro, tutti muovendosi con le stesse motivazioni e condividendo lo stesso destino; ed è questo popolo come tale, nelle sue diverse espressioni, che l’Occidente e molti Paesi d’arrivo respingono e perseguono per la sola e comune ragione che si tratta di un popolo di migranti; si tratta cioè di aggregati umani che le politiche e gli ordinamenti di questi Stati negano nel loro stesso diritto di esistere, di avere una cittadinanza, di essere ricompresi nelle regole del diritto; e proprio come è vietato nella Convenzione dell’ONU, i membri di questi gruppi sono esposti a lesioni gravi della loro integrità fisica e mentale, e i gruppi stessi sono sottoposti a condizioni che di fatto li distruggono in modo totale o parziale, le donne sono messe in condizioni per cui sono impedite le nascite, e spesso i fanciulli sono separati dal gruppo e forzatamente inclusi in un altro.
Ora possiamo dire che riguardo al popolo dei migranti l’illusione di difendersi, come fanno l’Europa e l’Italia di Minniti e di Salvini, scartando pezzi di mondo è particolarmente infelice, perché il rifiuto di accogliere migranti e profughi li rende clandestini, li trasforma in rei non di un fare, ma di un esistere. La conseguenza è che gli stessi Stati di diritto e di democrazia costituzionale tradiscono se stessi perché accanto ai cittadini soggetti di diritto concentrano masse di persone illegali, giuridicamente invisibili e perciò esposte a qualunque vessazione e sfruttamento, pur avendo tutti non solo lo stesso suolo che li accoglie ma lo stesso sangue umano che li nutre.
Gli altri problemi critici
E non ci sono solo gli scarti e i migranti, ci sono altri problemi critici, da cui veramente dipende il futuro del mondo: il ripristino della sovranità della guerra, la manipolazione genetica dell’uomo, la precarietà eretta a sistema, la crisi ecologica, tutte cose di cui non possiamo parlare ora.
Per tutte queste ragioni noi siamo in uno stato di sofferenza. E io penso che questa sofferenza abbia una qualità nuova. Per definirla potremmo chiamarla sofferenza messianica, perché tale è la sofferenza che si fa carico della sofferenza del mondo e perché sa che c’è in gioco l’avverarsi o il fallire di quella promessa di salvezza che dai tempi antichi fino ad oggi ha accompagnato e lenito l’arduo cammino dell’umanità: quella promessa messianica che è poi diventata l’annunzio cristiano, dato che Cristo e messia non sono che lo stesso nome pronunziato in due lingue diverse.
Perciò è lecito chiedersi se il cristianesimo c’entri quando noi ci domandiamo quale esito potrà avere l’attuale crisi epocale e che cosa noi possiamo sperare: sapendo che si può sperare solo ciò che si contribuisce a far accadere agendo.
E dobbiamo cominciare col chiederci, come fece il Concilio, quali sono “i problemi più urgenti”, tanto urgenti che potremmo prenderli come delle vere e proprie “urgenze messianiche”. Si tratta di problemi che mai nella storia si sono presentati con eguale gravità. Essi possono essere affrontati non da ciascuno da solo, ma dall’umanità tutta intera, purché essa si riconosca nell’eguaglianza come una sola famiglia umana. Le risposte che si devono dare a queste situazioni di emergenza non sono infatti delle piccole risposte riformiste o populiste, oggi del tutto insufficienti, ma sono risposte che realizzino il passaggio da una fase infantile a una fase nuova, non “postmoderna” ma semplicemente adulta, della storia dell’umanità.
Io individuerei per ora sei di queste urgenze, sei grandi novità che ci sfidano a cui dobbiamo dare risposta.
Le novità sono le seguenti:
Non era mai successo che i banchieri di tutto il mondo fossero uniti e i poveri invece divisi.
Non era mai successo che si progettassero guerre in cui si muore da una parte sola. La tecnologia lo fa credere possibile, arma i droni, rende asimmetriche tutte le guerre, ne sopprime l’ultima razionalità.
Non era mai successo che il naufrago potesse erompere nel grido: “Terra! Terra!”, ma le terre gli fossero chiuse.
Non era mai successo che dire “uomini” non fosse la stessa cosa che dire: “nati da donna”. Non è più veramente necessario che siano due in una carne sola, non solo gli sposi, ma i due generi umani. Al sistema basta che siano eguali nel comprare e nel vendere. “Non c’è più né uomo né donna” doveva essere un’addizione, non una sottrazione dell’altra, non che si perdesse la differenza. Si può generare senza la donna, forse anche senza il suo utero. Non si potrà più dire: “Nel ventre tuo si riaccese l’amore”. Cessa la simbologia di Dio che “ha viscere di misericordia” (Salmo 103, 13). L’uomo globale è più maschilista di quello tribale, la donna neanche la distingue. L’intelligenza artificiale è asessuata. Nemmeno il padre di Pinocchio voleva fare il suo burattino né maschio né femmina.
Non era mai successo che ai giovani fosse perfino impossibile immaginare un futuro.
Non era mai successo, se non nei Paesi bassi, che col caldo saltasse il chiavistello delle acque e il mare venisse su più alto delle città e della terra.
Si può fare solo un sommario delle risposte che si dovrebbero cercare
Che sovrano non sia il denaro ma tornino o giungano ad esserlo le persone ed i popoli.
Che la guerra esca da tutte le ragioni, anche dalla ragion di Stato, e perciò dalla storia.
Che la libertà rinasca dal mare e non ci siano più porti chiusi muri e frontiere sulla terra.
Che l’uomo gioisca di essere maschio e femmina con un’intelligenza di carne in una sola umanità di ogni lingua e colore, un solo Padre e molte fedi.
Che le Repubbliche governino il provvisorio togliendo gli ostacoli che impediscono la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, e costruiscano ponti, lavori e condizioni di vita che reggano agli insulti del tempo.
Che si sostituiscano le energie e le pompe di calore che inquinano l’aria e surriscaldano la terra.
Ma soprattutto che nessuno cerchi la felicità se non soffre del dolore degli altri.
Raniero La Valle
[1] Benedetto Croce, “Filosofia e storiografia”, Laterza, Bari, 1949, pp. 247-248).
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