America, America

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SI SCALDA IL CLIMA PRE-ELETTORALE
di Marino de Medici.

Ci mancava solo questa. Un altro italo-americano, un lumpista di nome Michael Caputo, assistente segretario per gli affari pubblici del Dipartimento della Sanità e dei Servizi Umani, ha comunicato agli elettori del presidente di prepararsi ad una “insurrezione armata”, asserendo che Trump vincerà le elezioni ma il candidato democratico Biden si rifiuterà di accettare la sconfitta. Non sorprende che l’ennesimo italo-americano plagiato dall’ideologia trumpista prenda una posizione improntata alla tracotanza del leader di quello che si è ormai rivelato un vero e proprio culto che non tiene in alcun conto gli interessi nazionali. [segue] Lo abbiamo già scritto: salvo poche eccezioni, gli italo americani si
sentono WASP (bianchi anglosassoni protestanti) a tutti gli effetti. Sono quindi nella stragrande maggioranza schierati dalla parte di quella che è sempre più una minoranza bianca trincerata dietro la difesa dei privilegi di una oligarchia che rifiuta ogni assimilazione e compartecipazione in un’America sempre più diversa. Il tempo non potrà che assottigliare la minoranza bianca e con essa il predominio dei repubblicani che sono finora riusciti a preservare le loro posizioni di potere grazie ad una varietà di strumenti legislativi e di sotterfugi istituzionali negli stati, come quello del “jerrymandering” che manipola la composizione dei distretti elettorali a vantaggio della minoranza repubblicana.
La tendenza di Caputo a farneticare non va presa sottogamba quando il funzionario trumpista afferma, nell’intervista in cui prevede che Joe Biden perderà
le elezioni ma non ne accetterà l’esito: “quando ciò avverrà nel giorno dell’inaugurazione, si comincerà a sparare”. Caputo non è il solo a lanciare oscure minacce di uno scontro con quello che Trump chiama “deep state” (lo stato profondo ossia occulto). Trump non perde occasione per attribuire al “deep state” le più fitte e fantasiose macchinazioni contro la sua amministrazione, dando fiato all’incessante diffondersi di orripilanti teorie di cospirazione propagate dai social media. La strategia della paura che informa
la campagna elettorale di Trump ha diffuso l’accusa dello stesso presidente secondo cui il “deep state” insediato nella FDA (Food and Drug Administration) manovra per ritardare le ricerche per un vaccino anti-covid19 ostacolando il reclutamento di volontari per i test e le prove terapeutiche. Naturalmente Trump non ha avanzato alcuna prova della sua irrazionale accusa. Quel che più impressiona comunque è la cinica insistenza dei portavoce trumpiani su un presunto disegno del candidato democratico di evitare che l’America esca dalla pandemia prima delle elezioni.

Gli esperti di politica nazionale e gli specialisti dei sondaggi demoscopici sono d’accordo nell’emettere questo giudizio: il risultato delle elezioni presidenziali dipenderà da quale dei due temi elettorali prevarrà nelle decisioni di un ristretto numero di elettori indecisi. Primo, l’operato del presidente in ordine alla pandemia ed in modo speciale l’imputazione che se avesse agito per tempo ciò avrebbe risparmiato quanto meno 65.000 vite. Lo stesso Trump ha ammesso di aver ricevuto pesanti avvisaglie del propagarsi del covid-19 ai primi di febbraio. Secondo, il tema è quello dell’ordine pubblico, al quale si affida l’appello demagogico di Trump alle ansietà egli americani, sui quali fece leva Richard Nixon per assicurarsi il voto della “maggioranza silenziosa”. Trump tenta disperatamente di descrivere il covid-19 come un male passato e di esacerbare il conflitto civile, dislocando forze federali nelle città teatro di disordini, come Portland, ed in altre dove si sono verificate violenze e saccheggi di negozi. Qualcuno ha osservato in proposito: Trump è un incendiario, non un pompiere.

Obiettivo della campagna psicologica di Trump sono principalmente gli americani delle zone suburbane dove vivono elettori indipendenti con inclinazioni repubblicane, che votarono in gran numero per Trump nel 2016 ma non nel 2018. Con la disonestà che lo contraddistingue, Trump accusa Biden di essere alleato con i “rivoltosi violenti”. Il messaggio è questo: il presidente è la linea di difesa tra l’anarchia e l’esigenza della “legge e ordine”. Trump pensa che sia una situazione “win-win” per lui – una partita in cui non può che vincere – perché se i disordini dovessero
estinguersi, egli potrebbe rivendicare il merito di averlo imposto con una politica aggressiva, mentre nel caso in cui le violenze perdurassero, la sua narrativa di conflittualità dovuta a “dimostranti violenti” affiliati ai democratici e a Biden in particolare potrebbe garantirgli la rielezione. La conclusione da trarre è che Joe Biden è in una posizione delicata, per non dire rischiosa, dettata dalla necessità di mantenere un certo distacco da un sottoinsieme violento che Trump alimenta abilmente allo scoperto al fine di impaurire l’elettorato. Resta anche il fatto che Biden non ha finora articolato un messaggio convincente per proteggere il suo lato vulnerabile, il fatto che in certi stati chiave gli aspetti di “legge e ordine” cominciano a prevalere sulla strategia di contenimento, se non eliminazione del virus grazie anche ad un vaccino che secondo Trump è in arrivo prima ancora delle elezioni.

La realtà della presente congiuntura è che un significativo settore tra i sostenitori di Biden è preoccupato dalle violenze su scala nazionale. In questo settore rientrano elettori bianchi e gli stessi neri e hispanici, al punto che secondo un recente rilevamento demoscopico il 44 per cento degli elettori pro-Biden considera i disordini urbani un “problema maggiore”. Gli elettori pro-Trump lo giudicano “maggiore” in ragione dell’83 per cento. Sullo sfondo, dichiarazioni come quelle del trumpista italo-americano (che ha consigliato ai cittadini di munirsi di armi da fuoco) adombrano il ben più grave pericolo di scontri armati, da non escludersi negli Stati Uniti, dove i cittadini sono già armati fino ai denti.

Di certo, infine, c’è la prospettiva di una furiosa battaglia legale all’indomani delle elezioni presidenziali. Il candidato democratico ha disposto la creazione di una vera e propria “war room”, con una legione di avvocati chiamati a sorvegliare lo svolgimento del voto, l’applicazione delle norme elettorali e le operazioni di spoglio dei suffragi. E’ scontato che il voto per posta riveste un’importanza
senza precedenti nell’elezione del 3 Novembre, al punto che si preannuncia una messe di contese attorno all’autenticità delle firme che accompagnano le schede di elettori assenti, i cosiddetti “absentee ballots”. Sui 190 milioni di americani con diritto di voto, l’83 per cento di essi può votare per posta. Solo in sei stati è obbligatorio votare di persona, salvo che per ragioni mediche. In cinque stati – Colorado, Hawai, Oregon, Utah e Washington – il voto viene espresso
principalmente, ma non esclusivamente, per posta. Tutti gli altri ammettono il voto per posta con condizioni variabili. Il presidente ha violentemente criticato il voto per posta affermando che si presta a frodi elettorali e abusi. Ironicamente, la critica non regge non solo perché i casi di abuso sono minimi, ma anche perché il suo partito ha messo in cantiere da molto tempo programmi su vasta scala per il voto postale. Ed ancora, lo stesso Trump ha legittimato il voto postale per il suo stato di residenza, la Florida, che guarda caso è uno stato chiave.
Infine, è inevitabile che lo spoglio dei voti postali richiederà molto più tempo che in passato con il risultato che all’indomani del 3 Novembre potrebbe
verificarsi una situazione in cui non si conoscerà l’esito dei conteggi in un numero di stati tale da lasciare in sospeso il calcolo dei voti del Collegio Elettorale. E’ una spada di Damocle che incombe sull’America, un Paese che si è fatto ancor più imprevedibile.
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