Uscire dalla crisi del capitalismo o dal capitalismo in crisi? Un vecchio quanto attuale dilemma. Dibattito
Riprendiamo di seguito l’editoriale di Donato Speroni, direttore del sito web dell’ASviS (Alleanza per lo Sviluppo sostenibile), organizzazione a cui Aladinpensiero News è associata, pubblicato l’11 settembre u.s. Riteniamo sia un utile contributo al Dibattito in corso sul mondo con e dopo il coronavirus. Per gli aspetti legati alle trasformazioni del lavoro e delle imprese, segnaliamo, per correlazione, l’articolo di Nino Lisi, apparso su Sbilanciamoci! e ripubblicato dal nostro sito.
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È possibile costruire un capitalismo sostenibile?
Negli ultimi 40 anni, il modello neoliberista ha consentito uno sviluppo senza precedenti, ma ha aggravato le disuguaglianze e il degrado del Pianeta. Per modificarne i meccanismi è necessaria un’ampia partecipazione democratica e un “rimbalzo in avanti” dalla crisi in cui siamo, come indica l’Europa.
di Donato Speroni, ASviS.
La domanda circola da tempo: il capitalismo è compatibile con la costruzione di un mondo sostenibile? Già nel World economic forum di Davos del gennaio scorso, quindi in tempi pre-Covid, il tema prescelto era how stakeholder capitalism can solve the world’s urgent challenges. Il concetto di stakeholder capitalism già implicava una svolta rispetto allo shareholder capitalism, indicando un capitalismo attento agli interessi di tutti (lavoratori, consumatori, comunità locali) e non solo agli azionisti, cioè ai profitti.
Lo shareholder capitalism, di matrice anglosassone, ha dominato il mondo economico negli ultimi quarant’anni, ma ha dimostrato la sua inadeguatezza davanti alle sfide del presente, creando una situazione di insostenibilità sociale e ambientale. Sociale, perché ha creato diseguaglianze sempre più forti, senza essere in grado di assicurare la loro riduzione; ambientale, perché l’economia industriale si è sviluppata senza tener conto in modo stringente delle cosiddette “esternalità”: il consumo di risorse naturali non rinnovabili, l’inquinamento, le emissioni di gas serra responsabili del riscaldamento globale. Sono stati introdotti alcuni correttivi, come il meccanismo di scambio delle emissioni (Ets nell’acronimo inglese di Emission trading scheme) sancito dal protocollo di Kyoto, ma non sono stati sufficienti per porre un freno al degrado del Pianeta.
Ci si chiede, dunque, se l’attuale sistema economico è in grado di autoemendarsi per far fronte alle sfide del futuro. Un interrogativo reso drammatico anche dal fatto che le caratteristiche di un possibile sistema alternativo, il cosiddetto “postcapitalismo”, sono molto nebulose. In contrapposizione all’ideologia liberista, dovrebbe trattarsi di un sistema nel quale gli Stati (e le organizzazioni internazionali) riacquistano un forte potere regolatorio e di intervento. Ma qui si apre una seconda questione: i sistemi democratici che governano queste istituzioni sono in grado di gestire sfide a medio e lungo termine come la crisi climatica, oppure le classi dirigenti (e anche l’opinione pubblica) tendono soltanto a guardare all’immediato, all’arco di una legislatura o di una prossima elezione, sempre accantonando i temi del futuro e scaricandoli sulle prossime generazioni?
Nell’introduzione al dossier “Beyond capitalism” edito da The progressive post si afferma:
Oggi il capitalismo è in crisi profonda. Questo semplice fatto era già conosciuto prima dell’attuale crisi economica, ma è stato messo a nudo per tutti dall’ avvento del coronavirus e dal danno che ha provocato alle sue strutture globalizzate e finanziarizzate, costruite sulla fragile fondazione di debiti e crediti. Non è più in grado di garantire il benessere umano e spinge l’ecosistema del Pianeta verso il collasso. Nella sua forma digitalizzata stimola le disuguaglianze anche se alimenta l’illusione dell’empowerment individuale, favorendo propensioni autoritarie in molti Paesi.
Tra gli articoli contenuti nel dossier, quello di Fabrizio Barca, promotore del Forum Diseguaglianze Diversità e coordinatore del gruppo di lavoro ASviS sul Goal 10, che chiede una “inversione a U” nella dinamica delle disuguaglianze che tendono a rendere questo sistema sempre meno sostenibile dal punto di vista sociale.
Non si tratta di investire grandi risorse, ma di ribilanciare i poteri verso una maggiore giustizia sociale e ambientale, ringiovanendo la democrazia.
L’essenza della proposta di Barca non è nella ridistribuzione delle risorse, ma nei meccanismi di formazione: occorre dare più spazio al lavoro rispetto ai detentori del capitale e in questo modo si ottiene un cambiamento degli obiettivi collettivi verso una maggiore giustizia sociale. Tuttavia mi domando: questa visione presuppone che i lavoratori – quelli che un tempo erano chiamati la classe operaia – siano i più disposti a stimolare il cambiamento verso la sostenibilità sociale ed ambientale. Ma numerosi studi, tra cui un recente articolo del Financial Times, avvertono che la classe lavoratrice oggi vota più a destra, e quindi è meno disposta al cambiamento, della classe media, forse perché teme di perdere quel poco che ha conquistato.
È possibile cambiare questa situazione? Nel suo libro “Changemaker? Il futuro industrioso dell’economia digitale”, Sossella editore/cheFare, Adam Arviddson sostiene che l’economia industriale, ad alta intensità di capitale, si sta contraendo e sta espellendo sempre più manodopera. C’è però la possibilità, grazie alle nuove tecnologie, di ritornare a una “economia industriosa”, ad alta intensità di lavoro.
Arviddson spiega in una intervista ad Alex Giordano, sul Corriere della. Sera:
Nel modello industrioso esiste un grande desiderio di cambiamento: questa imprenditorialità non è necessariamente un fatto di necessità ma è un desiderio, una visione. Alla base c’è una volontà di trasformazione, seppur spesso puramente personale. Si tratta quindi di progetti che non vengono inseriti in grandi schemi politici ma che hanno a che fare con percorsi di autorealizzazione individuale. Questo riguarda pesantemente il knowledge worker ma riguarda anche quelli che lavorano nei piani più bassi dell’economia: i lavoratori delle fabbriche di elettronica di Shen Zhen se riescono aprono piccolo banco nel mercato e si mettono a riparare o customizzare o hackerare gli iPhone. Nei mercati africani è pieno di piccoli negozi di mobile phone dove puoi ricaricare o crackare il cellulare e dove vengono usate anche forum di software open source.
Le nuove tecnologie consentirebbero dunque di ridefinire il lavoro e di offrire nuove opportunità di autoimpiego, evitando l’emarginazione di milioni di persone. Questa nuova classe lavoratrice sarà più aperta alle scelte necessarie per uno sviluppo sostenibile? Una possibile risposta ci viene dal saggio “After carbon democracy” di Alyssa Battistoni. e Jediah Britton-Purdy, pubblicato di Dissent e ripreso in italiano dalla rivista Una città.
Dunque, siamo davvero noi il problema? Quali sono le prospettive per una “no-carbon democracy” nel Ventunesimo secolo?
Nel “Financial Times”, affidabile barometro del pensiero elitario, un redattore si è recentemente domandato: “La democrazia può sopravvivere senza il petrolio?”. La risposta non è facile: “Nessun elettorato voterà mai per ridimensionare il proprio stile di vita? Non possiamo certo incolpare i politici cattivi o le corporation. È colpa nostra: preferiremo sempre la crescita al clima”.
Persino i meglio disposti, a sinistra, non possono non preoccuparsi di quello che un drastico cambiamento delle condizioni materiali di vita potrebbe comportare per il destino della democrazia. Nel suo libro Carbon Democracy, lo storico Timothy Mitchell sostiene che “le politiche democratiche si sono sviluppate grazie al petrolio con un particolare orientamento verso il futuro; il futuro era l’orizzonte infinito della crescita”. Ora sappiamo che quell’orizzonte si sta restringendo.
Gli autori si pongono la domanda se è possibile combattere il cambiamento climatico in un sistema democratico: apparentemente, un regime autoritario, “capace di costruire ferrovie ad alta velocità o di interrompere da un giorno all’altro una produzione di carbone” ha migliori possibilità di intervenire sul clima. Ma “non è ancora ora di mandare la democrazia nel dimenticatoio”: bisogna invece convincere la maggioranza e in realtà una maggioranza a favore delle scelte ambientaliste si può costruire.
In effetti, esiste un programma climatico ambizioso, che si propone di sostenere alti costi a beneficio di popolazioni straniere e delle generazioni future e che sta mobilitando gli attivisti e attraendo a sé i candidati delle primarie democratiche.
Il Green New Deal rappresenta una scommessa sul fatto che sia più democrazia, e non meno, la strada per affrontare il cambiamento climatico, anche se non abbiamo ancora una democrazia perfetta. La premessa è che l’azione climatica, per avere successo politicamente, deve essere popolare; ciò significa che deve offrire benefici alle persone, e non solo chiedere loro sacrifici per il bene del futuro.
Oggi però “non esiste una base elettorale per un movimento di austerity ecologista”, ma in prospettiva
non hai bisogno di cambiare lo spirito e la mentalità di tutti, in un Paese; non devi necessariamente produrre una trasformazione morale improvvisa. È sufficiente convincere una maggioranza di persone. E una grande maggioranza di persone ha indicato il proprio sostegno a molte delle componenti del Green New Deal: la garanzia di occupazione lavorativa; l’investimento su energie rinnovabili al 100%; il ripristino di terreni e foreste; l’investimento nei trasporti pubblici, e così via.
Conclude il saggio:
Ci aspetta una lotta lunga e difficile, piena di tensioni e di domande: qual è la volontà del popolo, e chi è il popolo, e come realizzare la sua volontà con istituzioni rigide, infrastrutture ancor più rigide, un capitale a piede libero e un popolo invece non pienamente libero? Il tutto mentre la natura, sempre più imprevedibile, si disinteressa di noi.
Questo è, sfortunatamente, lo stato della politica, di questi tempi, anche in momenti in cui la posta in gioco è alta e chiara e l’obiettivo è quello di realizzare pienamente la democrazia. Tuttavia, non c’è un’altra via d’uscita: bisogna passare di qui.
Proviamo a riassumere questo complesso ragionamento sulla base degli articoli citati: l’economia di mercato, cioè il capitalismo come l’abbiamo conosciuto finora, non è in grado di affrontare i temi della sostenibilità sociale e ambientale. Ma il capitalismo sta nuovamente cambiando, anche perché le nuove tecnologie rivalutano il ruolo dell’individuo e aprono nuove prospettive di partecipazione e di potere alla classe lavoratrice. Non è però scontato che i lavoratori siano disposti a fare scelte di medio e lungo termine che possono comportare sacrifici, anche se cresce la sensibilità ai temi dell’ambiente e della difesa del Pianeta. Dobbiamo dunque trasformare questa nuova sensibilità in una maggioranza “non silenziosa” per imporre un sistema che regoli i meccanismi di mercato nel rispetto del Pianeta e verso un maggiore equilibrio sociale. Questa è la battaglia politica che abbiamo davanti.
Vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle. È importante però che in questa battaglia si possa contare sull’impegno dell’Europa, confermato in questi giorni dalla pubblicazione del primo Strategic foresight report annuale, diffuso in vista dello State of the Union che la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen presenterà il 15 settembre. La parola chiave del rapporto è “resilienza” riecheggiando in questa scelta la parola d’ordine lanciata da tempo dall’ASviS: soltanto consolidando i nostri punti di forza – sostiene la Commissione – si può “rimbalzare avanti” dopo la crisi del Covid.
Il rapporto analizza la resilienza nelle sue quattro dimensioni interconnesse: socioeconomica, geopolitica, verde e digitale, e spiega la sua importanza per raggiungere i nostri obiettivi strategici di lungo termine nel contesto delle transizioni verde, digitale e giusta.
Il documento non si limita alle parole, ma propone anche due prototipi di dashboard, strumentazioni statistiche per misurare le resilienze dei Paesi dell’Unione in campo socioeconomico e in campo geopolitico, verde, digitale. Come nell’Agenda 2030 dell’Onu, infatti, ogni effettiva trasformazione si deve poter monitorare attraverso indicatori che anno dopo anno indichino lo stato dell’arte e la necessità di interventi.
Questo documento può essere letto come una conferma della volontà europea di perseguire un modello di sviluppo che si basi su un capitalismo emendato per poter raggiungere gli obiettivi di sostenibilità e su una crescita dei meccanismi democratici che diano più forza alla partecipazione popolare.
I segni che cogliamo nella nostra attività confermano i progressi nella sensibilità collettiva anche in Italia. Li vediamo nella mobilitazione per il prossimo Festival dello Sviluppo Sostenibile, nel nuovo protagonismo dei giovani, anche nella nuova attenzione all’Agenda 2030 mostrata dal mondo politico, con il collegamento reso esplicito sul sito della Camera tra il lavoro delle Commissioni permanenti e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Il Rapporto annuale che l’ASviS presenterà l’8 ottobre a conclusione del Festival metterà in chiaro le priorità da perseguire per uno sviluppo sostenibile in questa epoca così diversa da come ce l’eravamo immaginata e contribuirà alle scelte del Paese che deve cogliere l’occasione unica dei fondi europei per scelte di rinnovamento verso l’economia verde e la digitalizzazione.
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