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Il futuro non è la normalità nella scuola
di Giacomo Cossu
Sbilanciamoci!, 8 Settembre 2020 | Sezione: Editoriale
Per l’istruzione serve un piano strategico che riguardi gli edifici e i banchi ma non solo. I tagli al personale hanno causato fenomeni dannosi per la didattica – e per la sicurezza – come le “classi pollaio”, privando le scuole del personale necessario per ampliare l’offerta didattica e innovare i metodi di insegnamento.
Negli scorsi mesi a Santiago del Cile spiccava un grattacielo la scritta “non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”. Nel pieno dell’emergenza sanitaria, di fronte alle enormi difficoltà nel riaprire le scuole e le università in condizioni di sicurezza, questo slogan dovrebbe essere la bussola di ogni riflessione riguardo l’istruzione. La garanzia del diritto allo studio e la tutela della funzione democratica dell’istruzione possono realizzarsi solamente se si guarda alle difficoltà di questi giorni con attenzione a quali sono le radici strutturali di questa crisi. Ci sono tre aspetti particolarmente significativi da analizzare, che permettono di inquadrare gli ostacoli ad una ripartenza in sicurezza all’interno di una seria e concreta visione organica per il rilancio dell’istruzione: le possibilità di accesso alla formazione, la condizione delle lavoratrici e dei lavoratori della conoscenza, lo stato dell’edilizia scolastica e universitaria. Questi focus permettono di individuare i principali danni causati dal taglio dei finanziamenti alla scuola e all’università – rispettivamente di 8 miliardi e 1,5 miliardi – operati da Tremonti e Gelmini dieci fa e mai più compensati dai Governi successivi.
L’accesso all’istruzione nel nostro Paese è solo formalmente garantito, ma non ci sono adeguati strumenti per garantire a tutte e tutti gli studenti le stesse possibilità e la libertà di studiare. Secondo il Rapporto BES 2019 dell’ISTAT, l’uscita precoce dagli studi riguarda il 14,5% dei giovani, un dato che arriva ad oltre il doppio nelle regioni meridionali. Nel corso degli ultimi mesi questa drammatica esclusione di centinaia di migliaia di giovani dalla formazione è esplosa a causa dell’introduzione emergenziale della didattica a distanza. Infatti il sistema scolastico ed universitario, già privo di adeguati strumenti per garantire a tutti la partecipazione alla formazione, ha ulteriormente escluso ampie fasce di studenti privi dei dispositivi tecnologici o di un contesto familiare che potesse supportare la partecipazione alle lezioni in condizioni straordinarie. Secondo l’indagine Italia sotto sforzo. Diario della transizione 2020/1 del CENSIS, solo l’11% dei dirigenti scolastici intervistati ritiene che tutti gli studenti delle loro scuole abbiano partecipato alle lezioni online, mentre risulta che nel 40% delle scuole oltre il 5% degli studenti non abbia avuto accesso alla didattica a distanza – anche in questo caso al Meridione si riscontrano dati nettamente peggiori. Lo stesso ministero dell’Istruzione a luglio 2019 pubblicava un report in cui si sostiene che la dispersione scolastica sia direttamente connessa ai livelli di povertà e ai livelli di istruzione della famiglia di provenienza. Gli interventi dello Stato per risanare questa ingiustizia e mancata applicazione della Costituzione si sono mostrati fallimentari in tempi ordinari e ancor più nella pandemia. Occorre approvare una legge nazionale per il diritto allo studio che garantisca l’abolizione dei costi diretti legati all’istruzione – dal contributo volontario alle tasse universitarie – così come i costi indiretti, fornendo i materiali didattici tradizionali e digitali in comodato d’uso a tutti gli studenti che ne abbiano necessità, oltre che rendendo gratuiti i servizi indispensabili alla frequenza delle lezioni e allo studio, dall’abbonamento per il trasporto pubblico alla connessione personale ad internet. Insieme all’abolizione di questi ostacoli economici, devono essere risolte le disparità territoriali nell’offerta didattica, in particolare garantendo l’apertura delle scuole di tutto il Paese per tutta la giornata, finanziando il tempo pieno e progetti didattici e autogestiti da parte degli studenti, in modo da coinvolgere gli studenti che provengono dalle condizioni socio-culturali che più spingono ad abbandonare l’istruzione.
La necessità di potenziare l’offerta didattica e la qualità della formazione evidenzia un altro enorme fallimento dello Stato in materia di istruzione. Il nostro Paese ha infatti un’età media del corpo docente tra le più alte nell’area OCSE, accanto ad un rapporto tra docenti e studenti molto elevato. I tagli alla spesa in istruzione hanno comportato una forte riduzione del personale docente e amministrativo, causando fenomeni dannosi per la didattica – e per la sicurezza – come le “classi pollaio” e privando le scuole del personale necessario per ampliare l’offerta didattica e innovare i metodi di insegnamento. Nell’università il calo del numero dei docenti e il dimezzamento del numero dei ricercatori a tempo indeterminato causati dalla riforma Gelmini hanno comportato un eguale problema di carenza di personale. La pandemia ha spinto il Governo ad un intervento emergenziale, con la programmazione di un nuovo concorso straordinario da 70 mila cattedre e con l’assunzione di 50 mila precari per colmare una parte della carenza di organico nella scuola, dimostrando ancora una volta quanto la classe dirigente del nostro Paese non abbia la minima capacità di affrontare i problemi strutturali dell’istruzione. Una seria politica dell’istruzione dovrebbe prevedere la stabilizzazione di tutte le migliaia di lavoratori che hanno 36 mesi di servizio alle spalle – come peraltro prevede il diritto dell’UE – insieme ad una programmazione delle assunzioni calibrata sul fabbisogno delle scuole, uscendo dal metodo dei concorsi straordinari e dalla trappola della precarietà in cui sono costretti tantissimi lavoratori della conoscenza.
Il rispetto dei diritti dei lavoratori della conoscenza e maggiori assunzioni permetterebbero di appianare grandi disuguaglianze presenti nel sistema di istruzione del Paese, ma non sarebbero sufficienti senza un piano radicale per l’edilizia scolastica e universitaria. Metà degli edifici scolastici è stato costruito prima del 1970 e presentano una struttura degli edifici assolutamente inadeguata a metodi didattici innovativi e alle esigenze di studenti e docenti. Se guardiamo all’edilizia universitaria, notiamo che l’espansione del numero programmato e del numero chiuso – che oggi con la pandemia dimostra la sua pericolosità data la carenza di medici – è stata in gran parte la risposta delle autorità accademiche e del governo nazionale alla carenza di strutture per la didattica, nonostante la falsa retorica inaccettabile sull’esclusione dagli studi per motivi meritocratici. Oggi paghiamo i mancati investimenti nell’edilizia scolastica e universitaria, non avendo a disposizione spazi adeguati per garantire il distanziamento sociale e la tutela della salute di studenti e lavoratori della conoscenza. La pandemia avrebbe dovuto indurre all’elaborazione di un piano urgente di ristrutturazione degli edifici scolastici e universitari, una politica che avrebbe effetti positivi sull’occupazione e sulla riconversione ecologica del patrimonio pubblico, come richiesto da sindacati e associazioni, ma l’attenzione del Governo è stata rivolta alla deregolamentazione degli appalti con il DL Semplificazioni, anziché alla pianificazione di un intervento pubblico per rispondere alle reali necessità della popolazione.
Questi tre fondamentali aspetti della crisi dell’istruzione avrebbero dovuto indurre il Governo ad evitare slogan e approssimazione, riconoscendo immediatamente che il sistema scolastico e universitario non hanno gli strumenti per rispondere alle necessarie tutele della salute pubblica. Da questa consapevolezza si deve partire per elaborare un programma di governo serio e concreto, per garantire innanzitutto l’accesso alla formazione a distanza, mentre si predispone la stabilizzazione del personale necessario e un piano di edilizia scolastica e universitaria urgente. Le risorse necessarie sarebbero ingenti, come denunciano da anni studenti e lavoratori della conoscenza. Le risorse stanziate dal Governo sono irrisorie rispetto alle necessità e nettamente inferiori alle risorse destinate agli sgravi fiscali a pioggia per le imprese come il taglio dell’IRAP. Approfittando degli stanziamenti del Next Generation EU, lo Stato dovrebbe investire oltre 20 miliardi in istruzione, portando la quota di PIL destinato alla formazione al 5%, in linea con la media dell’area OCSE, in cui siamo stabilmente agli ultimi posti per investimenti in istruzione con solamente il 3,6% del PIL. Si tratta di scelte coraggiose ma indispensabili, per non tornare ad una normalità dominata da ingiustizia e contraddizioni, bensì per costruire un futuro migliore per tutto il Paese.
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Rapporto Bes Istat 2019
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