RECOVERY FUND. Bisogna saper spendere

di Andrea Gaiardoni su Rocca.
Superata la sbornia di elogi, per il premier Conte ora comincia un’altra salita, perfino più impervia di quella appena superata a pieni voti a Bruxelles, con 209 miliardi di euro portati a casa (almeno in teoria, la pratica andrà in scena il prossimo anno). [segue]
Perché sul tavolo restano non pochi quesiti da risolvere. Primo tra tutti: come spendere quell’enormità di denaro che il Recovery Fund, il primo progetto di debito comune europeo, farà affluire all’Italia per aiutarla a superare il pantano economico e sociale dovuto alla pandemia da coronavirus, in parte sotto forma di sussidi a fondo perduto, in parte come prestiti? Con chi condividere la scelta delle priorità? Con l’Europa certo, che anzi affiancherà ai nostri tecnici una task force (operativa dal 16 agosto), con a capo la vice segretaria generale della Commissione, la francese Celine Gauer. Procedura standard che sarà applicata a tutti i paesi, ma comunque il segno che se comune è il debito c’è poco da fare i nazionalisti: comune dovrà anche essere l’indirizzo che prenderà quel denaro. E gli investimenti dovranno tener conto delle linee guida dettate dall’Unione Europea: vale a dire digitalizzazione, investimenti per le infrastrutture, transizione green. Al di fuori di questo tracciato non ci sarà spazio. Qualcuno la leggerà come un’intrusione, molti altri come una garanzia. Il programma di spesa dettagliato dovrà essere stilato dai governi nazionali entro il prossimo ottobre. A quel punto sarà analizzato dalla Commissione Europea e, salvo contestazioni o «freni d’emergenza», come preteso dai paesi «frugali», approvato dal Consiglio Europeo a maggioranza entro la fine dell’anno in corso. La comparsa del denaro fisico è prevista nel 2021, anche se sarà possibile chiedere un anticipo pari al 10% dell’importo totale (dunque per l’Italia poco più di 20
miliardi).

chi deciderà?
Ma, qui da noi, chi deciderà il come-dove-quando? Solo governo o anche opposizione? Palazzo Chigi o Parlamento? E le parti sociali? E le Regioni, i Comuni? Il premier Conte, che con gli Stati Generali dello scorso giugno dovrebbe partire da una base concreta di programma, ha già parlato di un «Action Plan», da redigere su un tavolo comune, avvisando che «dal piano che verrà redatto dipenderà il futuro del nostro Paese». In realtà la cabina di regia
sarà affidata al Ciae (Comitato interministeriale per gli affari europei), che sarà coordinato dal ministro per gli Affari Europei, Amendola, e del quale faranno parte i ministri Gualtieri (Economia), Speranza (Salute), Patuanelli (Sviluppo Economico) e Di Maio (Esteri). Al Ciae spetterà il coordinamento con gli enti locali (Regioni, Province, Comuni). Ma l’ultima parola spetterà, comunque, al premier.
La parte tecnica sarà affidata al Comitato Tecnico di Valutazione, composto da un paio di membri per ciascun ministero. Forza Italia intanto ha presentato alla Camera una proposta di legge per istituire una Bicamerale, una Commissione parlamentare ad hoc (15 deputati + 15 senatori) per contribuire alla definizione del piano nazionale per la ripresa. Favorevole il Pd e parte dei 5Stelle. La Lega si scansa, come spesso accade quando la partita diventa di sostanza. Il suo leader, che aveva definito «una fregatura» l’esito del Consiglio Europeo sul Recovery Fund, preferisce occuparsi a tempo pieno di migranti e di negazionismo virale. Fratelli d’Italia appena incassata la possibilità d’invito già si mette a dettare le regole del gioco: presidenza della Bicamerale alle opposizioni e rappresentanza paritetica, altrimenti non ci stiamo. Un compromesso alla fine si troverà, ma sull’efficacia della Bicamerale qualche dubbio resta: troppo alta la voglia di polemizzare, di distinguersi, delle varie forze politiche, sia di governo sia di opposizione, e della loro cronica propensione alla campagna elettorale, come se fosse l’unica dimensione politica oggi possibile.

L’interesse comune, come spesso accade, non prevarrà se a incassare il premio, in termini di «paternità» dei provvedimenti, saranno altri. la bicamerale apre le polemiche
L’argomento ha ovviamente alimentato il dibattito politico. Giuliano Amato, ex premier e oggi giudice costituzionale, intervistato dall’Huffington Post si è detto favorevole a un coinvolgimento ampio del Parlamento: «Si tratta certamente di una responsabilità del governo, ma essendo impregnata di indirizzi è necessario che avvenga con la collaborazione del Parlamento. Noi siamo maestri sulle formule che prevedano il coinvolgimento di commissioni preesistenti o la costituzione ad hoc. Ma questa sarebbe una seria e opportuna espressione della democrazia parlamentare».
Contrarissimo Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale: «La Bicamerale è una pessima idea. Perché il Parlamento non deve amministrare, ma indirizzare, stabilire le priorità e i tempi, nonché le destinazioni, in maniera conforme al piano di riforme (quando ce ne sarà uno che non sia un libretto di sogni) e ai criteri concordati in sede europea. Il Parlamento si dovrebbe limitare a istituire una legge sola, breve, chiara che consenta di utilizzare gli stanziamenti allocati in tempi brevi».
Renato Brunetta, deputato di Forza Italia e candidato a presiedere la bicamerale, apre invece a una forma di condivisione e di collaborazione: «Mancano ottanta giorni alla presentazione dell’Action Plan: il governo, la maggioranza e l’opposizione, dovranno dialogare e condividere il da farsi, pur rimanendo, appunto, maggioranza e opposizione. Percorrere questo stretto sentiero attraverso un dialogo responsabile è l’unica scelta possibile. Altra strada non c’è».
Ma non è questa l’unica strettoia che il governo Conte dovrà superare. C’è la gestione dell’emergenza attuale, con tutti i nodi irrisolti: aiuti alle imprese e ai lavoratori, fisco, scuola, per fare solo qualche esempio. E c’è
l’altolà degli industriali. Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, in un’intervista assai critica rilasciata al Corriere della Sera ha chiesto al premier un cambio di passo:
«Le riforme necessarie per riuscire a spendere in modo efficace queste risorse, a oggi, non sono state nemmeno impostate. A partire da quella del lavoro, la più urgente. E poi fisco e burocrazia. Non è più tempo di task force e stati generali. Bisogna agire».
Confindustria chiede a Conte di rimuovere prima possibile il blocco ai licenziamenti, che il governo invece vorrebbe prorogare. E l’eliminazione immediata dell’Irap: «La pressione fiscale sulle imprese è altissima».
Anche Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, chiede a gran voce un cambio di passo al governo, ma su un differente versante: «Se vogliamo uscire dal tunnel di questa crisi si deve investire sul lavoro, combattere la precarietà, far ripartire l’economia attraverso gli investimenti», ha dichiarato a Repubblica. «Questo è il momento di compiere scelte radicali, innovative e coraggiose. Si deve uscire dalla logica neoliberista che ci ha condotto a tagliare la spesa sociale, la sanità, l’istruzione, e che ha precarizzato il lavoro raccontandoci che il mercato avrebbe risolto i problemi».

il libro dei desideri
Al netto delle esigenze, e degli interessi, delle varie componenti sociali, politiche ed economiche del Paese, la sfida che attende il governo è di assoluto rilievo. Nell’elenco di punti che certamente troveranno spazio nell’agenda di Conte (o del Ciae, o della Bicamerale) entrerà sicuramente la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione (a dirlo sembra semplice, ma togliere al sistema le incrostazioni della burocrazia sarà un lavoro colossale, se fatto bene), un ingente piano di investimenti in infrastrutture (strade, autostrade, porti) che coinvolga soprattutto il Sud, un’attenzione privilegiata a quell’economia che sappia fare del rispetto ambientale un acceleratore e non un freno. La task force di Colao, pochi mesi fa, aveva anche evidenziato l’importanza di investire nella ricerca e nell’innovazione
«avvicinando il mondo accademico e quello delle imprese».
Ovviamente questa lista di desideri da sola non basta. Serve ben altro, come ha spiegato a Formiche.net il presidente emerito della Corte Costituzionale, già vicepresidente del Csm, Cesare Mirabelli: «Ci troviamo già in forte ritardo rispetto alla necessità di fornire all’Europa progetti che siano finanziabili. Progetto significa la definizione non
solo generica dell’esigenza, ma del contenuto delle attività, dei tempi e dei costi.
Questo richiede una elaborazione attenta e ampia: non basta dire infrastrutture o giustizia, ad esempio. Inoltre il tutto andrà coordinato in maniera armonica secondo una scala di gerarchia». Come dire: a chiacchiere sono capaci tutti. E l’Italia, in passato, non ha dato grande prova di saper spendere i fondi europei. L’ultimo report pubblicato da Bruxelles rivela che il nostro paese, nel settennato 2014-2020, è stato secondo per finanziamenti ricevuti e ultimo
per capacità di spesa. Tradotto in cifre: ha ricevuto la disponibilità di 75 miliardi di euro, ma è riuscita a spenderne soltanto 26 (pari al 35%). Insomma, dovremo anche imparare in fretta a spendere bene e nei tempi richiesti.

la «spina» del mes
Poi c’è l’argomento sanità: l’ampliamento e l’ammodernamento degli ospedali, l’adeguamento (numerico e remunerativo) del personale medico e paramedico tanto incensato durante le fasi più acute della pandemia (gli «eroi» in prima linea, quei volti segnati dalla fatica e da ore e ore di mascherine indossate per assistere le prime migliaia di malati) quanto frettolosamente dimenticato. L’aumento della capacità complessiva di posti letto in terapia intensiva. Un argomento che da «oggettivo» è diventato «politico», in quanto strettamente correlato al Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, uno degli strumenti che l’Unione Europea ha disegnato ad hoc per gli Stati Membri per aiutarli a far fronte nell’immediato a spese che, direttamente o indirettamente, abbiano a che fare con il miglioramento del sistema sanitario. Dunque argomento diventato quasi un tabù per l’aperta ostilità di alcune forze politiche (soprattutto 5Stelle, ma anche Lega e Fratelli d’Italia), mentre a favore sono Pd,
Italia Viva, Forza Italia e parte di Leu. Sul piatto ci sono circa 37 miliardi di euro, immediatamente disponibili. Ma bisogna chiederli (e nessuno stato europeo l’ha ancora fatto). I contrari temono che gli Stati Europei possano pretendere un controllo sulla spesa di questi fondi evocando l’intervento della temuta Troika (Commissione Europea,
Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale), come in Grecia nel 2015. Denaro che arriverebbe sotto forma di prestito, dunque da restituire, ma a un interesse prossimo allo zero. Insomma, assai più convenienti della componente prestiti che arriverà dal Recovery Fund, che invece vede tutti d’accordo. Paradossi della politica. Se al posto di Mes l’avessero chiamato in qualsiasi altro modo probabilmente nessuno avrebbe obiettato.
Il problema vero, per Giuseppe Conte, che ha appena prorogato lo stato d’emergenza fino al 15 ottobre, è che dire no al Mes per non contrariare la base grillina può essere assai pericoloso. Il ministro dell’Economia Gualtieri è in pressing, come il segretario Pd Zingaretti, come il Commissario italiano a Bruxelles Gentiloni. Soldi in cassa non ce
ne sono. Quelli del Recovery Fund arriveranno nel 2021 (e non nei primi mesi). Lo scostamento del deficit appena approvato, 25 miliardi, peggiora ancor più i conti dello Stato. Fondi che saranno impiegati in «misure-tampone», come la proroga della Cig.
L’Italia non può fare a meno di una «copertura» europea, con o senza ricorso al Mes. La situazione economica e sociale è al limite, e da qui in avanti può solo peggiorare.
Ma nulla accadrà nell’immediato: se ne riparlerà a settembre. Sperando che nel frattempo, nell’afa di agosto, qualche pool di tecnici si occupi di redigere piani d’intervento credibili e attuabili da presentare a Bruxelles.
Andrea Gaiardoni
rocca-16-17-1-sett-20
ROCCA n. 16/17, 15 AGOSTO-1 SETTEMBRE 2020

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