America, America
IL DISPERATO ASSALTO DI TRUMP ALL’INTEGRITA’ DEMOCRATICA
di Marino de Medici*.
Fino all’ultimo, Donald Trump non smetterà di tentare di distruggere l’integrità della democrazia americana. Sono molti, certamente la maggioranza degli americani, a temere che l’integrità di quella costruzione umana e politica che il mondo ammirava negli Stati Uniti d’America sia oggi gravemente minacciata da un individuo che non porta rispetto alcuno alle istituzioni ed ai canoni di un governo democratico. La sconvolgente prova di quel che è avvenuto è nel fatto che oggi l’integrità della America manca un senso di responsabilità sociale, e che la nazione sia spaccata dal rigetto di norme sanitarie che dovrebbero essere rispettate, e magari imposte, per tutelare la salute pubblica e l’esistenza dei cittadini poveri e compromessi dall’età e dalle malattie.
L’ultimo sviluppo in ordine di tempo che conferma la dissennata offensiva della presidenza Trump all’integrità democratica è il tweet che lancia la proposta di rinviare l’elezione presidenziale del 3 novembre, facendo scempio del dettato costituzionale secondo cui tale elezione avviene nel primo martedì di Novembre successivo al primo lunedì. Persino un portavoce della catena Fox, che ha abilitato Trump sin dal primo giorno, ha espresso il parere che la sparata del presidente sia “una flagrante espressione della sua presente debolezza”. Non a caso, il tweet del presidente è giunto subito dopo l’annuncio che l’economia nazionale aveva registrato il peggiore trimestre nella storia americana. Lungi dall’avere alla Casa Bianca un leader sensibile alle conseguenze del disastro economico, che proprio alla fine di luglio ha privato i disoccupati del sussidi decretati dal Congresso, gli americani sono i destinatari di un’arringa presidenziale contro il voto espresso per posta, che Trump definisce “il più impreciso e fraudolento nella storia”.
[segue]
Tutti ormai – ad eccezione dei ciechi che formano la “base” sodale di Trump – ritengono che obiettivo del presidente repubblicano sia quello di seminare il dubbio attorno all’esito della consultazione presidenziale. I fedeli trumpisti ricorrono all’argomento che il voto postale porterà a ritardi e complicazioni negli scrutini al punto che i risultati di vari stati non potranno essere annunciati per parecchi giorni. Tanto vale, per loro, rinviare le elezioni. A parte l’intollerabile anti-costituzionalità della mossa presidenziale, è assurdo sostenere che la prospettiva di ritardi negli scrutini sia causa sufficiente per sospendere un’elezione, quando in passato gli americani hanno tenuto consultazioni elettorali in tempi di guerra, da quella civile ai conflitti mondiali.
L’America soffre intanto le immani conseguenze del flagello di Covid-19 che non accenna a scemare. E’ il caso di dire che in America tutti i nodi vengono al pettine.
Una causa fondamentale della rescrudescenza dell’epidemia è il prematuro tentativo dell’amministrazione Trump di riaprire l’economia, al fine di propiziare un ritorno alla normalità a fini elettorali. Ma un’altra causale del disastro può essere individuata nella pubblica avversione alle mascherine. Ed ancora, ha pesato l’incapacità del
presidente di servire da modello alla popolazione propugnando i benefici della mascherine. Trump non l’ha fatto ma ha anzi ridicolizzato i portatori di mascherine, con il risultato di approfondire la polarizzazione politica dell’impatto epidemico. Last but not least, la nazione ha sofferto le manchevolezze della guida sanitaria, confusa e negligente, anche a motivo della sovrana incompetenza del presidente che in un momento cruciale ha minimizzato il morbo che minacciava gli Stati Uniti. La polarizzazione non mancherà di farsi sentire quando, fiduciosamente tra non molto,
sarà disponibile un vaccino anti-virus, destinato in via prioritaria alle sacche più indigenti e più colpite dall’epidemia. In pratica, le autorità sanitarie dovranno valutare i fattori razziali ed etnici tenendo per l’appunto presenti gli effetti sproporzionati che il Covid-19 ha avuto sulle comunità di colore.
Ed infine, i fatti di Portland non mancheranno di influenzare il voto di Novembre.
Trump ha fatto della città dell’Oregon il terreno di battaglia contro quelli che egli condanna come “anarchici ed agitatori”. Le proteste per la giustizia razziale inscenate da una massa di cittadini, prevalentemente bianchi, erano giustificate da un forte retaggio razzista nello stato dell’Oregon. Quando l’Oregon divenne stato nel 1859, la sua costituzione vietava alle persone di colore di entrare nello stato e di soggiornarvi. La regione che fa capo a Portland era caratterizzata anche da una diffusa presenza del Ku Klux Klan allineato a fenomeni di nazionalismo bianco. Le proteste degli ultimi quindici anni sono insomma espressione di una lunga rivolta contro le istituzioni di suremazia bianca. Di straordinario c’è il fatto che il movimento di protesta accomuna i giovani bianchi alle comunità indigene e di colore e trova i suoi bersagli nel centro giudiziario e nella corte federale. Gli agenti federali inviati a Portland dal presidente Trump hanno di fatto esasperato la situazione.
Si tratta di forze paramilitari del Dipartimento di Homeland Security, alle quali è stato affidato il compito di ”proteggere” gli edifici federali al centro della città. E’ un compito che ha permesso agli agenti federali di impiegare gas lacrimogeni, proiettili non letali e granate stordenti contro alcune centinaia di dimostranti, tra cui molte donne.
La Governatrice dell’Oregon, Kate Brown, aveva negoziato un accordo con la Casa Bianca per il ritiro del grosso della forza paramilitare, un passo che Brown attribuiva alla decisione di Trump di “salvare la faccia”. In realtà, il facente funzioni della Homeland Security smentiva che fosse in atto un ritiro e subito dopo il presidente minacciava di inviare altre truppe sul posto. “Se il governatore e il sindaco non arrestano il crimine e la violenza, il governo federale farà quel che le forze di polizia locale avrebbero dovuto fare”. Se le tattiche violente contro i dimostranti hanno avuto un risultato è stato quello che Trump si proponeva, creare un conflitto civile a fini politici. Per il momento, gli sforzi delle autorità locali di negoziare una “de-escalation” della situazione reggono, ma resta sempre il pericolo che Trump aggravi il confronto con la minaccia di fare ricorso alla guardia nazionale, con gravi ricadute interne soprattutto al Congresso.
Il sospetto di molti democratici è che Trump manovri per fare di Portland una nuova Chicago, dove nel 1968 Richard Nixon trasse vantaggio dalle brutali reazioni della polizia alle manifestazioni attorno alla convenzione democratica e cavalcò la tigre del “Law and Order” fino a strappare la presidenza. Il caos nelle strade americane è chiaramente parte integrante della strategia di Trump che punta tutto sui tumulti, sull’insicurezza e sull’odio partigiano della sua “base” al fine di delegittimare le prossime elezioni per influenzare un esito tanto sorprendente quanto distruttivo dell’integrità delle istituzioni. E’ uno scenario sconcertante che non si avvererà perchè le istituzioni sono forti (con il Congresso in mano per metà ai democratici) ma che dimostra quanto continuerà a pesare sull’America l’ombra della più infausta presidenza nella sua storia.
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*Marino de Medici è romano, giornalista professionista. Decano dei giornalisti italiani in America, oggi ottantasettenne, vive negli USA da 60 anni. E’ stato Corrispondente da Washington dell’Agenzia ANSA e Corrispondente dagli Stati Uniti per il quotidiano Il Tempo. Ha intervistato Presidenti, Segretari di Stato e della Difesa americani, Presidenti di vari Paesi in America Latina e Asia. La sua produzione giornalistica ha spaziato dalla guerra nel Vietnam, ai colpi di stato nel Cile e in Argentina, a quaranta anni di avvenimenti negli Stati Uniti e nel mondo. Ha anche insegnato giornalismo e comunicazioni in Italia e negli Stati Uniti. Non ha ancora finito di viaggiare e di scrivere dei luoghi che visita. Finora è stato in 121 Paesi e conta di visitarne altri.
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