Stravanati quegli anni! Anche quelli del “dopo-Toniolo”.
di Gianni Loy
Nel 1971 l’esperienza della Toniolo si era già esaurita. Ciascuno di noi andava per la propria strada ma continuavamo ad incontrarci. Perché molti di noi abitavano ancora nel quartiere e altri continuavano a frequentarlo. Poi, e soprattutto, perché i rapporti d’amicizia non potevano esaurirsi soltanto perché il portone di via Fara non veniva più aperto tutti i pomeriggi, come un tempo.
Una delle occasioni d’incontro, in estate, rimaneva il cinema all’aperto dei Salesiani, la domenica sera nel viale S. Ignazio. 50 lire per un western o qualcosa del genere. A condizione di non lamentarsi per una possibile rottura della pellicola o per una censura estemporanea, nel caso di qualche scena osé, realizzata coprendo con una mano il fascio di luce che usciva dal proiettore.
Continuavamo a frequentare quel cinema, per la verità, non tanto perché attratti dalla pellicola in programmazione, quanto perché occasione per un po’ di fresco, e perché avremmo quasi sicuramente incontrato qualche amico.
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Quella sera, sarà stata la seconda o terza settimana di luglio, incontrammo, tra gli altri, Lucianino Ortu, anch’egli vecchio frequentatore di via Fara, meglio conosciuto con il soprannome di Bulloni. Dico noi perché son quasi certo di essere stato in compagnia di Franco (Meloni). Era sicuramente presente anche qualche altro amico, nomino Franco perché sarà uno dei protagonisti della storia che mi accingo a raccontare.
Bulloni era dei più rappresentativi e assidui ragazzi dell’associazione. Ricordo che nei suoi confronti conservavo un senso di colpa, per la verità me lo trascino ancora, per una mia imprudenza che avrebbe potuto arrecargli un danno più serio di quello che, anni prima, gli avevo procurato. Si avvicinava il Natale, soprattutto il capodanno, e, al pari di molti altri ragazzi del quartiere, avevamo ereditato la tradizione di annunciare l’arrivo delle feste a suon di botti. Lungo le vie di Stampace, all’improvviso, incominciavano a sentirsi sporadiche esplosioni, si facevano più frequenti e intense quanto più si avvicinava l’ultimo giorno dell’anno. Il sistema era semplice: in drogheria si acquistava dello zolfo e in farmacia pastigliette, o bustine, di clorato di potassio, che a quel tempo venivano utilizzate per lenire la raucedine. Il clorato di potassio, – se in pastiglie dopo averlo sminuzzato – veniva mischiato con lo zolfo. Una piccola quantità di quella miscela veniva poggiata su una superficie dura, come una pietra del selciato o la lastra di marmo di un uscio, sopra il mucchietto veniva posata una piccola pietra liscia, come un pezzetto di marmo; quindi, con il tallone, si dava un colpo potente alla pietra che, scivolando sulla miscela esplosiva produceva un’esplosione più o meno forte a seconda della quantità di prodotto utilizzato e del luogo scelto. All’interno dell’androne di un palazzo, ad esempio, grazie al rimbombo, il boato era devastante.
Con l’avvicinarsi delle festività, alcuni farmacisti, a scopo preventivo, si rifiutavano di vendere il clorato di potassio ai ragazzi ma, in qualche modo, riuscivamo a procurarci gli ingredienti necessari per conservare quella tradizione.
Questa lunga premessa per spiegare la mia colpa. Mi trovavo, assieme a Luciano, nell’androne di un palazzo, nella zona tra la via Azuni e il primo tratto del Corso Vittorio Emanuele. Fui io a preparare la miscela e a depositarla nel pavimento di pietra di un androne. Fu Luciano a pestare con il tallone, con forza, sul pezzetto di marmo che, in quei giorni, tenevamo sempre in tasca.
L’esplosione fu tremenda. Sicuramente una delle più forti dell’annata. Solo che il contraccolpo e la vampata lasciarono un segno sulla gamba di Luciano. Le ustioni rimasero visibili per un po’, per alcuni giorni zoppicò leggermente. Avevo ecceduto nella dose, rischiando di fargli del male. Luciano, Bulloni, forse neppure lo ricorda, io conservo ancora il rimorso.
Tutto questo con la storia non c’entra, non c’entra, o forse sì. Sta di fatto che quella domenica notte, chiacchierando del più e del meno, scoprimmo che sia Luciano, in compagnia di un altro comune amico, che noi, intendo Franco ed io, avevamo in programma qualche giorno di vacanza a Parigi. Forse perché l’aria di Parigi, come si diceva in quel tempo, era tutta un’altra cosa. Scoprimmo di aver programmato il viaggio nello stesso periodo. Ci venne un’idea: Magari ci incontriamo a Parigi! L’idea ci parve favolosa. Fu così che lì per lì, su due piedi, ci demmo appuntamento in un certo luogo, ad una certa ora della mattina, per un certo giorno d’agosto, due o tre settimane più tardi. Non conoscendo la toponomastica della città, l’unico nome che ci venne alla mente fu quello della piazza antistante Notre Dame. Ci salutammo così, confermando quell’appuntamento. Non avremo avuto altra occasione d’incontro né la possibilità di sentirci per telefono, prima di quella data. Eravamo eccitati per la progettata avventura. L’idea era fantastica.
Compagno di viaggio di Luciano era Giorgetto Mura. Anch’egli, come quasi tutti, aveva un nome di battaglia: s’ebreu. Il perché di quel soprannome è intuibile: minuzioso calcolatore del proprio interesse, implacabile nell’esigere i crediti, contrario a ogni arrotondamento, pretendeva il suo sino all’ultima lira. Possedeva una forte propensione al risparmio, sempre impegnato nel confrontare, sino al centesimo, prezzi e qualità di ogni suo acquisto. Tale propensione, com’è immaginabile, si manifestava in tutti i suoi comportamenti, era un vero e proprio abito mentale. Fumava le sigarette più economiche, ovviamente: le Alfa senza filtro. Per sfruttarle sino in fondo, a volte, utilizzava uno spillo per avvicinare alle labbra l’ultimo, minuscolo mozzicone. Ed era un grande e simpatico amico, naturalmente.
Abitava in via S. Efisio, in una vecchia casa tenuta in piedi da alcune travi in legno che si appoggiavano sul palazzo di fronte, le case, verosimilmente, si sostenevano a vicenda, nella stessa via. La facciata era sostenuta da un’impalcatura, nata forse con intento provvisorio, divenuta, col tempo un tratto caratteristico dell’arredo urbano di quell’angolo del quartiere che si apriva proprio sopra la piazza S. Efisio.
Giorgetto aveva un fratello maggiore, molto più grande di me, mi pare già lavorasse quando io incominciavo a frequentare il ginnasio. Si chiavava Gianluigi. Per la verità, con questa storia non c’entra per niente ma mi piace ugualmente ricordarlo. Sì, perché per qualche tempo, nonostante la differenza di età, l’ho frequentato con una certa assiduità.
Ci incontravamo la sera spesso per andare a mangiare una pizza in una delle poche pizzeria del tempo, di solito in quella di via Santa Margherita, da don Alfonso, poco più su del bar Gaviano, oppure in quella di via Sardegna, tra l’ingresso secondario della Rinascente e l’hotel Italia, non ricordo come allora si chiamasse. Di solito, prendevo una pizza al prosciutto, qualche volta una capricciosa, all’epoca farcita esclusivamente con prosciutto cotto ed uovo; niente funghi, per intenderci. Ora che ci ripenso, non ricordo se già bevessi birra, probabilmente è lì che ho incominciato.
Il fatto che, nonostante la differenza di età, frequentassi Gianluigi, anch’egli della Toniolo, forse già senior, ha una sua spiegazione, anzi due. La prima è che mi era concessa ampia libertà di uscire la sera, cosa che, però, non era ancora consentita ai miei coetanei. Poiché con loro la giornata si chiudeva prima dall’ora di cena, quando in via Fara suonava l’ora del coprifuoco, a voler far tardi dovevo trovare altra compagnia. Il secondo motivo è che condividevo con lui l’interesse per la fotografia. Diciamo che Gianluigi era già un esperto, mentre io mi dilettavo. Quelle chiacchierate, con piglio serioso, di fronte ad una pizza, e la città semideserta nel far rientro a casa, dove immancabilmente trovavo mia madre ad aspettarmi, sono ancora un dolce ricordo.
Gianluigi non aveva alcun soprannome, a dimostrazione che ogni regola ha la sua eccezione, ma una fissazione sì. Era un grande collezionista di francobolli. Si diceva, ma poteva anche trattarsi di leggende metropolitane, che possedesse un esemplare del famoso “Gronchi rosa”. Inoltre, era un tedescofilo della peggior specie. A partire dalla fotografia, ovviamente; maneggiava solo materiali rigidamente made in Germany e si forniva esclusivamente da un fotografo di fiducia, Franz, svizzero-tedesco trapiantato a Cagliari che aveva bottega nella via XX settembre. E’ per merito suo se anch’io, tradendo parzialmente Cosentino, sono diventato suo cliente.
Quella predilezione, ma possiamo pure chiamarla mania, non si limitava al materiale fotografico ma si estendeva a tutti i campi, dagli strumenti di precisione all’alimentazione. Di ogni cosa controllava scrupolosamente la provenienza: l’origine teutonica, in tutti i campi, era indiscusso sinonimo di qualità, tutto il resto paccottiglia, o quasi. Ciao Gianluigi.
Quella giornata d’agosto non la dimenticherò mai. Ci trovavamo a Losanna, o li vicino, dove avessimo piantalo le tende non lo ricordo con esattezza, del resto dormivamo spesso lungo la strada, quando ancora il campeggio libero era consentito. Il mezzo di locomozione era una vecchia 500 nera, targata CA 157957 e l’equipaggio composto, oltre che da Franco e da me, da Giacomo, fratello di Franco e dalla sua giovane fidanzata, Paola. Quell’appuntamento di fronte alla cattedrale di Notre Dame non l’avevamo dimenticato ma neppure vi avevamo dato troppo peso. Sono tante le cose che si dicono. Tuttavia, avevamo ancora davanti una giornata. Proviamoci!
All’indomani, ci siamo messi in cammino di buon mattino. Abbiamo passato tutta la giornata in viaggio, sotto un sole cocente, concedendoci soltanto le poche soste indispensabili per qualche panino e per i bisogni fisiologici. La macchina brontolava. Tra gli scoppiettii del motore, segno di problemi allo spinterogeno, siamo riusciti ad arrivare, poco dopo l’imbrunire, alla periferia di Parigi. Mancava poco, ma rischiavamo di dare il colpo di grazia alla vecchia 500, anche se in realtà era quasi nuova. Le condizioni delle nostre schiene, costrette per tutto il giorno ad una innaturale posizione, non erano meno preoccupanti.
Piantammo le tende in una delle piazzole attrezzate che costeggiano l’autostrada.
La mattina del giorno seguente, caricati nuovamente i bagagli in macchina – nei giorni seguenti avremmo pernottato, mi pare, in un ostello della Maison d’Italie, – ci siamo avviati verso la cattedrale di Notre Dame. Confesso che non pensavamo affatto di trovare i nostri amici. L’appuntamento preso al dopo cinema di qualche settimana prima sembrava cosa lontana, più incerta che mai. Ma ci trovavamo a Parigi, avremmo pur dovuto incominciare la visita della città. Rimanemmo, a lungo, in un andirivieni lungo la piazza, ogni tanto sbirciavamo l’interno della cattedrale. Continuammo a passeggiare, per un po’, anche a tempo scaduto. Cominciavamo a organizzare il percorso per la visita della città, certi che l’incontro era ormai sfumato. E invece, dopo un’ora o poco più, ci vennero incontro.
Li incontrammo che sorridevano, come noi del resto, con aria di incredulità. Mi sembra di vederli, ciascuno con il proprio ghigno, l’uno scanzonato, l’altro arcigno, uguali a sempre, come fossimo ancora in piazza Yenne, ed invece ci trovavamo a Parigi. Era questa l’unica novità.
Cominciammo a raccontare, per prima cosa, le peripezie del viaggio d’andata. Avevano trovato sistemazione in un campeggio lungo il fiume Marne. Luciano, con la consueta ironia, riferì di come la tirchieria di Giorgetto avesse condizionato la loro prima settimana di viaggio.
- Mi ha fatto girare mezza Europa – raccontò – alla ricerca di un orologio di qualità e allo stesso tempo economico. Dopo aver visitato un’incredibile quantità di orologiai, ha finito per comprare un orologio che avrebbe potuto acquistare, e più a buon prezzo, in una bancarella di piazza del Carmine.
Luciano si divertiva nel raccontare la storia. Giorgetto si ritraeva ammusonito. Ma erano entrambi contenti, in fondo, del fatto di averci incontrato. Neppure loro ci avrebbero scommesso.
Tra burle e frizzi, passammo per la piazza della Bastiglia. Domandammo ad alcuni passanti dove fosse la prigione. Ci guardarono increduli, fu una delle nostre prime cantonate. L’aria di Parigi era davvero un’altra cosa, ma noi eravamo sempre gli stessi.
Più tardi, fummo attratti da un capannello di persone. Un venditore ambulante dimostrava, con enfasi, le virtù di una taglierina in diamante, un oggetto capace di tagliare non soltanto il vetro ma anche tanti altri materiali. Davanti a sé, sopra un tavolino pieghevole, aveva una pila di materiali, soprattutto vetri e cristalli, che utilizzava per dimostrare i prodigi della taglierina che offriva in vendita. Il pubblico poteva chiedere spiegazioni e porre domande.
Giorgetto si avvicinò al tavolo indicando, con aria seria, uno dei pezzi di vetro. Biascicò qualche parola incomprensibile, ma era chiaro che chiedeva una dimostrazione di come quell’aggeggio avrebbe potuto tagliare quel materiale.
Il venditore, con l’aria di chi si accinge a un’impresa, sollevò in alto il pezzo di vetro indicato da Giorgetto e lo mostrò al pubblico. Poi lo depose nel tavolo, tracciò una linea con una squadretta di legno e fece scorrere la taglierina premendo con forza sul manico. Staccò il frammento di vetro che aveva tagliato e, quasi fosse un trofeo, lo sollevò in alto per mostrarlo al pubblico e ricevere il plauso. Poi si rivolse a Giorgetto, gli rivolse alcune parole che, sicuramente, volevano dire: Hai visto?
Giorgetto, sentendosi osservato, non proferì parola. Fece un leggero segno di assenso col capo, poi si avvicinò nuovamente al tavolo. Passò in rassegna i materiali e, dopo aver riflettuto, indicò al venditore un altro tipo di cristallo. Questi, soddisfatto, ripeté la scena, mostrò il pezzo di cristallo al pubblico e disse qualcosa che significava: Ora vi farò vedere io!
Con la stessa facilità, tagliò un pezzo di quel cristallo. Dopo averlo mostrato al pubblico, si rivolse ancora verso Giorgetto. Gli disse qualcosa che, indubitabilmente, significava: Sarai finalmente convinco della della bontà di questa taglierina, quanti pezzi ne compri?
Giorgetto non si scompose. Assunse un’aria dubitosa, si avvicinò ancora una volta al tavolo e indicò un altro pezzo di vetro. Il venditore incominciò a mostrare insofferenza ma, noblesse oblige, ripeté ancora una volta l’operazione, ma con tono più dimesso, senza enfasi. Al termine, trascurando il pubblico, abbassò le braccia e, lentamente, senza proferir parola, fece qualche passo nella direzione di Giorgetto. Intendeva dire: Ora vediamo se sei qui per compare o se vuoi prendermi per il culo!
Giorgetto, che si trovava in prima fila, si guardò attorno, tutti gli sguardi erano rivolti verso di lui. Si allontanò rapidamente, quasi di corsa. Luciano gli su subito dietro. Non appena Giorgetto e Luciano si furono allontanati, il venditore si rivolse al pubblico, che apprezzò, e riprese il suo lavoro. Noi, che eravamo più distanti, ci allontanammo poco dopo, per non dare nell’occhio. Luciano e Giorgetto ci aspettarono poco lontano. Proseguimmo commentando e ridendo.
Ma la giornata non era ancora terminata. A Montmartre, uno sterminato coro di ragazzi e ragazze, seduti lungo la scalinata che porta al Sacre Coeur, sollecitato da un solista che, a voce alta, scandiva “Branca, Branca, Branca”, rispondeva all’unisono: “Leon, leon, leon”. Poco dopo, sul far della sera, non appena entrati nel quartiere di Pigalle, siamo stati assaliti dai butta dentro, tra cui numerosi gli italiani, che ci invitavano ad assistere ad uno spettacolo di spogliarello. Lungo Boulevard de Clichy, dopo aver declinato le prime sollecitazioni, visto anche lo sconto che ci veniva proposto, ci siamo convinti che si sarebbe potuto fare. Del resto, sapevamo che persino Cavalier Quintino Schirra, maggiorente della parrocchia, in occasione di un suo viaggio a Parigi, non aveva resistito alla tentazione E’ vero che, al ritorno, aveva poi confessato quel peccato a Don Arthemalle, almeno così si racconta, ma intanto quello sfizio se l’era levato. La decisione, per noi era stata semplice, quasi scontata, ma Lucianino e Giorgetto non la pensavano allo stesso modo. Bulloni intendeva entrare allo spettacolo, Giorgetto era decisamente contrario. Discussero a lungo, o meglio, litigarono. Il motivo della decisa opposizione di Giorgetto non era del tutto chiara, magari non voleva cacciare il prezzo del biglietto, chi lo sa. Certo è che la contrattazione tra i due durò a lungo. Ricordo che Luciano, a un certo punto, non riuscendo a persuadere l’amico in alcun modo, ricorse a un ultimo, disperato tentativo, giocava la carta finale per cercare di convincerlo.
- Insomma – gli disse con tono ultimativo – vuoi mettertelo in testa che venire a Parigi e non vedere lo spogliarello è come andare a Roma e non vedere il Papa?
Luciano aveva sempre un’aria, ironica, scanzonata, divertente, aveva sempre il sorriso tra le labbra. Giorgetto, proprio al contrario, un’aria diffidente, predisposta al mugugno, chiusa e sempre sulla difensiva, il che non gli impediva di socializzare, di essere un buon conversatore, buon amico e buon compagno di viaggio.
Finì che entrammo. Ricordo che Giorgetto, s’ebreu, stringeva forte la borsa che portava con sé; tutte le volte che una entraineuse gli si avvicinava, si ritraeva dall’altro lato raggomitolandosi. L’avevamo avvertito del fatto che il biglietto d’ingresso comprendeva soltanto una consumazione, mi pare che prendemmo una menta, e che le ragazze, con qualche moina, avrebbero cercato di indurre gli spettatori a consumare di più.
Di quel giorno rammento almeno una fotografia: portavo la barba, i cappelli lunghi e vestivo un caffettano verde, che ancora conservo, comprato nel mercato delle pulci.
Tutto qui. Una piacevole avventura sul filo della coincidenza.
Poco prima di lasciare Parigi per riprendere il nostro viaggio – avevamo ancora molto da fare: un appuntamento a Taizé per conoscere la comunità ecumenica e un altro appuntamento in Valle d’Ayas, con altri nostri amici del Movimento studenti che campeggiavano agli ordini di Padre Agostino – passammo al bar della residenza che ci aveva ospitato coi soldi contati e molta fame. Giacomo osservò, sopra il bancone, un barattolo, il cui contenuto era cremoso e giallastro, ed era gratis.
• Cos’è? Mi chiese.
• Burro. Risposi.
Fu così che spalmò un’abbondante quantità di mostarda sull’ultimo panino che gli era rimasto per la colazione. Nonostante l’abbia visto arrabbiato e affamato, almeno sino all’ora di pranzo, non mi sono venuti gli scrupoli, anzi, il ricordo ancora mi diverte.
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