Europa, Europa

819fd9f7-d403-4b27-915b-c944c9a74948
——————————————————————
UNIONE EUROPEA
una svolta storica

di Roberta Carlini, su Rocca.

Qualcuno ha scomodato Alexander Hamilton, il fondatore del bilancio federale statunitense, per segnalare il passaggio storico che l’Unione Europea ha compiuto nel pieno della crisi da Covid-19. La svolta è arrivata con il documento franco-tedesco nel quale l’asse che da sempre ha determinato le svolte (e, in negativo, i fallimenti) del processo di unificazione europea, ha dato il via a una possibilità nuova: quella per cui la Commissione europea, l’esecutivo di Bruxelles, può prendere denaro a prestito sui mercati e girarlo ai Paesi che ne hanno bisogno, cioè i più colpiti dalla pandemia e dalla successiva crisi economica. Quel documento, frutto di un accordo tra Macron e Merkel, è stato poi leggermente emendato ed è stato fatto proprio dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, con la proposta intitolata Next Generation EU: se questa passerà la lunga e difficile fase di contrattazione politica che adesso si apre, i governi europei avranno a disposizione 500 miliardi di trasferimenti e altri 250 di nuovi prestiti. Questi vanno ad aggiungersi agli altri strumenti via via approvati da quando «il grande lockdown» (definizione del Fondo monetario internazionale) è iniziato.
Di questi si è già parlato su Rocca n.10: si chiamano «Sure», il piano per coprire gli ammortizzatori sociali per chi ha perso il lavoro; Mes, ossia il «vecchio» meccanismo europeo di stabilità sfrondato delle delle sue condizioni-capestro; più i prestiti della Banca europea degli investimenti, per assistere le piccole e medie imprese. In più, c’è la sospensione dei vincoli del Patto europeo di stabilità e crescita, per cui gli Stati possono a loro volta indebitarsi senza dover più rispettare i paletti posti dai trattati europei, quelli attorno ai quali si svolgevano le contrattazioni e i conflitti ogni autunno sulla manovra economica.
Tutti gli strumenti precedenti al Next generation EU, e che sono già operativi (se un governo vuole accedervi), prevedono in sostanza nuovo debito pubblico, ma fanno anche in modo che questo tipo di aiuto non si avviti in testacoda su se stesso: poiché questo succederebbe se l’aumento del debito per i Paesi già fortemente esposti come l’Italia comportasse una forte crescita dei tassi di interesse che il governo stesso deve pagare su quei debiti. Meccanismi finanziari come il Sure e il Mes servono a tenere bassi e uniformi i tassi; ma soprattutto a questa esigenza provvede l’altra arma sfoderata dall’eurozona all’inizio della crisi, attraverso la Bce. Dopo l’iniziale passo falso compiuto quando ha annunciato che «la Bce non è qui per tenere a bada gli spread», Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, ha steso una rete di protezione diretta proprio a tenere a bada gli spread dalla speculazione. Una riedizione, molto rafforzata, del «bazooka» di Mario Draghi.

dal debito al trasferimento
Il salto di qualità della proposta della Commissione è nel passare dal debito ai trasferimenti. Ai Paesi come l’Italia – ma in realtà a tutti, dato che tutti avranno bisogno di aumentare l’intervento pubblico nell’economia – non è data solo la possibilità di farlo ricorrendo all’emissione di propri titoli, ma anche l’accesso a fondi trasferiti direttamente da Bruxelles: sarà l’Unione a indebitarsi per conto dei governi, godendo così di condizioni molto più favorevoli sui mercati e prevedendo emissioni di titoli che saranno ripagati solo tra molti anni (dal 2018 al 2058). Non solo: la ripartizione di questi fondi tra i Paesi seguirà il principio del bisogno e non quello del loro peso relativo. Dunque l’Italia avrà più di tutti – 82 miliardi. Come farà l’Europa a ripagare questo debito? Il piano prevede in parte che siano gli Stati, nel tempo, a finanziare il rimborso; e in altra parte che possa imporre proprie tasse per pagare il servizio del debito (gli interessi). Si tratterà di tasse che fanno pagare i giganti del web che per ora non pagano niente (la digital tax), di imposte sulle emissioni carboniche finalizzate a disincentivare le produzioni inquinanti, e di una tassa sulla plastica. È ancora troppo poco per scomodare la memoria di Hamilton, poiché la sua riforma pose davvero le basi di un bilancio federale, che vuol dire autonoma capacità impositiva e di spesa. Ma è molto, moltissimo, rispetto al pantano in cui l’Unione europea stava affogando, per incapacità di una politica economica comune, una moneta senza Stato. Adesso, abbiamo una politica della moneta più attenta ai bisogni degli Stati (sia pure senza dimenticare la sua missione che è quella della stabilità); e un embrione di politica fiscale, attraverso quella che di fatto è l’emissione di titoli del debito europeo – anche se guai a chiamarli «eurobond», questa parola fa venire il sangue agli occhi a molti nordici.
Se, nonostante l’opposizione dei suddetti nordici, la proposta della Commissione vedrà la luce, saremo alla prima manovra economica comunitaria. Motivata non da una conversione altruistica, ma dalla necessità di evitare il disastro nelle quali tutte le economie europee, fortemente interconnesse nelle produzioni e nei commerci, precipiterebbero di fronte a un crollo dell’economia di uno di essi. Se l’Italia, come si è ipotizzato, avrà 82 miliardi, vorrà dire che da Bruxelles ci arriverà una capacità di spesa pari al 4,5% del nostro prodotto lordo, ai quali dovrebbero aggiungersi circa 90 miliardi in nuovi prestiti, per un totale di 170 miliardi. Per fare un paragone, fino a pochi mesi i governi italiani erano costretti a elemosinare da Bruxelles scostamenti di bilancio dell’entità di decimali di Pil.

due sfide
Si aprono ora due sfide, una esterna e una interna. Quella esterna è nella tenuta del patto e nella conquista del consenso di tutti gli scettici, che siedono in molti governi ma soprattutto nelle opinioni pubbliche dei Paesi europei che hanno i bilanci in attivo o in pareggio e hanno un radicato pessimismo circa la capacità dei governi del Sud di imboccare sentieri virtuosi. È vero che c’è molto di macchiettistico e stereotipato in alcuni giudizi, e che tutti dovrebbero prendere atto del fatto che siamo di fronte a una crisi nuova ed enorme, che niente ha a che fare con vecchi vizi di «spesa facile» senza responsabilità. Ed è vero che, come si diceva prima, le economie di quei Paesi sarebbero a loro volta a rischio se anche stavolta, come nel 2008, l’Europa rispondesse senza coesione e senza politica comune a uno choc esterno. Ma è anche vero che quei pregiudizi hanno un fondo di realtà, ed è nei decenni nei quali la politica fiscale italiana ha speso senza investire, ha distribuito a pioggia senza curarsi della sostenibilità; non ha messo a posto un’evasione fiscale gigantesca, non ha inciso sulla bassa produttività, non ha affrontato i nodi strutturali della sua debole struttura industriale.
E qui viene la sfida interna: come spenderemo quei soldi? La Commissione europea ci chiede di farlo rilanciando l’economia. E scrive: «Rilanciare l’economia non vuol dire tornare allo status quo che c’era prima della crisi, ma lanciarsi in avanti», in particolare nella riconversione verde e nell’innovazione digitale. Il «green new deal», rimasto finora a livello di slogan, adesso trova finanziamenti e una lista di investimenti: infrastrutture ed edifici (in questo caso, per lo più ristrutturazione dell’esistente in senso ecologico); transizione a un’energia pulita, basata su fonti rinnovabili; trasporti e logistica; economia circolare. Il piano digitale invece prevede investimenti nelle reti, politica industriale per favorire grandi campioni tecnologici europei, intelligenza artificiale. Chiude il quadro la raccomandazione di «una crescita giusta e inclusiva per tutti», dunque l’uso e la riforma degli strumenti di protezione sociale.

scegliere
Siamo ancora ai titoli di testa. Ma potrebbero bastare per evitare la riedizione dei vecchi film, ossia un generale assalto alla diligenza della spesa pubblica. La vera novità sarebbe nel decidere la strategia e selezionare le aree di intervento. Scegliere. Cosa non fatta nel passato, e purtroppo non fatta neanche nei decreti dell’emergenza Covid. È giusto che all’inizio si sia dato a tutti, anche per accelerare le pratiche (purtroppo senza riuscirci) e coprire il più possibile. Sul terreno dell’assistenza, la priorità è raggiungere chi ha più bisogno – e non è successo, dato che si è dovuto aspettare settimane per pensare alle lavoratrici e ai lavoratori domestici, e i precari con contratti a tempo determinato scaduti sono ancora in gran parte esclusi dai sussidi. Ma soprattutto, con il decreto rilancio si è dato uno sgravio fiscale sull’Irap a tutte le imprese, che fossero nei settori colpiti dalle chiusure o no. E il ministro dell’economia Gualtieri ha annunciato come sua strategia una generalizzata riduzione delle tasse sui redditi medio-bassi, che certo sarebbe molto gradita e fruttuosa in termini di consenso, ma è il contrario di una politica selettiva e di investimenti diretti. Stavolta le condizioni poste dall’Europa – «lanciarsi in avanti» – possono aiutarci. Seguirle aiuterebbe anche i nostri negoziatori a convincere il resto d’Europa che siamo davvero a una «Next generation». Ci sarà il coraggio politico di farlo?
Roberta Carlini
———————-
rocca-12-2020-15-giu-2020
———————-
Gli europeisti di fronte a ciò che resta del disegno europeo
di Gianfranco Sabattini, su il manifesto sardo.

E’ ancora diffusa l’idea che la realizzazione dell’Unione europea sia il più rilevante evento del mondo occidentale dal dopoguerra ad oggi; ciò, per diverse ragioni, quali in particolare, il superamento della rivalità tra i Paesi membri, la libera circolazione dei cittadini europei, il rispetto delle diversità culturali, la cooperazione con gli Stati non comunitari, il progressivo equilibrio tra competenze comunitarie e sovranità di nazioni, il metodo democratico seguito per mediare tra i diversi punti di vista ed altro ancora.
L’insieme di tali ragioni è ancora sufficiente per convincere la maggioranza dei cittadini europei che, per affrontare il futuro, sia preferibile rimanere nell’Unione, nonostante le difficoltà che si oppongono alla prosecuzione del processo di integrazione politica, ormai fermo da lungo tempo. Attualmente, quindi, anche se sono aumentati coloro che ripongono fiducia sulle soluzioni nazionali, la maggioranza dei cittadini europei è del parere che ritirarsi dal percorso comune sarebbe di grave pregiudizio al futuro del Continente e dei singoli Stati membri.
Tuttavia, il progetto europeo sta attraversando una grave crisi di fiducia. L’esito del referendum britannico sulla Brexit e la diffusione di movimenti antieuropei indicano che il disgregarsi del progetto comune è uno scenario ormai possibile, proprio in un momento come quello attuale, in cui maggiore è l’avvertimento che sarebbe necessario avere più Europa come scala minima per poter contare sulla scena internazionale e dare risposte concrete ed efficienti ai problemi più sentiti dai cittadini.
Il possibile rilancio del processo di integrazione è oggi frustrato dal fatto che le due “famiglie politiche” che hanno sinora gestito il processo, i cristiano-sociali e i socialdemocratici, sono fortemente indebolite, poiché con la crisi del 2007-2008 sono comparsi i movimenti populisti che, sebbene siano al potere solo in alcuni dei Paesi membri, sono in grado di condizionare l’azione dei singoli governi, divenuti fragili per via dell’indebolimento dei partiti tradizionali.
Inoltre – afferma Yves Mény, in “Per l’Europa è ora di essere radicali” (Il Mulino, n. 1/2019) – i Paesi membri dell’Unione sono divisi in sottogruppi, “ma anche in ‘club’ spesso antagonisti (Lega anseatica, Gruppo di Visegrad, Coppia franco-tedesca, tentativi populisti di costruire una ‘lega’ di eurocritici, ecc.). Gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, dal canto loro – secondo Mény – lo hanno capito così bene che stanno “soffiando sulla brace, cercando di sfruttare al meglio i divari che si sono allargati tra ‘amici’”. E’ perciò un eufemismo – continua Mény – dire che l’Europa “sta andando male”, sia nel suo insieme (Unione Europea), che con riferimento ai singoli Stati membri. Non c’è Paese europeo che sia libero da difficoltà che minano le sue fondamenta, perfino “là dove tutto sembra andare per il meglio sul fronte economico, come in Germania, in Svezia, in Olanda o in Danimarca”.
I Paesi membri dell’Est dell’Europa, pur godendo di una crescita stabile, tendono tutti a non “soddisfare gli ideali di ‘buon governo’”, mostrando spesso di non aver compiuto una vera transizione democratica, lasciandosi alle spalle i vecchi regimi. Al Nord, le democrazie scandinave, per tanti anni considerate modelli da imitare, sono agitate dalle pretese dei movimenti populisti e sciovinisti. Nella parte occidentale del Vecchio Continente, il Regno Unito ha deciso di abbandonare l’Europa; una scelta destinata a pesare non solo sulla Gran Bretagna, ma anche sulle due Irlande. Dal canto suo, anche la Francia, pur non essendo governata da movimenti populisti, è agitata al suo interno da profondi contrasti che stanno rendendo la sua coesione sociale “tanto fragile quanto esplosiva”. Infine, la Spagna si trova anch’essa in una situazione controversa, caratterizzata da proteste sociali e dal problema catalano, di difficile soluzione, mentre solo il Portogallo, dopo un lungo periodo di austerità, sembra inserito in una prospettiva di crescita, essendosi sottratto al “virus populista”.
Al centro dell’Europa, la Germania – sostiene Mény – ha riscoperto “con sgomento che i vecchi demoni del passato non sono stati sconfitti del tutto e che, nonostante la sua invidiabile prosperità economica, gli antagonismi, gli odi e le divisioni sociali sono profondi all’interno dei suoi confini e ben visibili all’esterno”. Il Sud dell’Europa non fa eccezione rispetto alla altre grandi circoscrizioni geografiche dell’Unione Europea: l’Italia è da tempo retta da governi deboli e instabili, alle prese con un debito pubblico consolidato alle stelle, con un livello inadeguato di investimenti e con la paralisi delle riforme strutturali; l’Austria condivide la prosperità economica del Paese vicino del Nord, ma soffre della svolta a destra populista e xenofoba del Pese vicino del Sud; la Bulgaria e la Romania soffrono di una corruzione diffusa e del fatto che gli ex partiti comunisti “sono riusciti a qualificarsi e a controllare il potere in altre vesti”; Malta e Cipro si sono trasformati in paradisi fiscali e in centri di riciclaggio di “denaro sporco, mentre la Grecia, dopo un decennio di austerità, stenta ancora ad uscire definitivamente dal “tunnel” della grave crisi nella quale era caduta.
La situazione dell’Unione europea non è migliore se valutata dal punto di vista delle sue Istituzioni. Molti Paesi, ad esempio, membri sono in una situazione di opposizione radicale nei confronti della Commissione; fatto, questo, che rende difficile l’accettazione delle sue proposte di riforma e di adeguamento delle politiche nazionali. Si tratta di una situazione che ha solo favorito – a parere di Mény – il consolidarsi di una situazione paradossale, caratterizzata dalla formazione di due poli: da un lato, il polo del “potere economico”, che cerca di sfuggire ad ogni forma di controllo politico; dall’altro lato, il polo dei “governi democratici”, sempre più sottomessi a pressioni pubbliche che li rendono incapaci di risolvere i problemi che i cittadini chiedono che siano affrontare. L’Europa è così stretta nell’”occhio del ciclone”, sia nelle sue componenti che nel suo insieme, perché i suoi strumenti di governo “sono inadeguati al centro e impotenti alla periferia”.
La situazione è resa ancora più negativa sul piano del rilancio del processo di integrazione dalla mancanza di autorevoli leader; prevalgono così singoli gruppi di europeisti, ma le loro proposte, poco partecipate e prive di autorevolezza, risultano inappropriate, anche perché avanzate in un contesto dove è del tutto impossibile mobilitare un’opinione pubblica stanca di sentirsi rispondere che la soluzione dei problemi è solo possibile sulla base di compromessi e di “aggiustamenti incrementali”.
Perché la maturazione di questa situazione di stallo? Per una robusta schiera di osservatori, la risposta è da rinvenirsi nella firma del Trattato di Maastricht, che è stato il risultato di un compromesso finalizzato a contenere il crescente “peso” politico ed economico della Germania, attraverso la costituzione di un mercato comune interno, cui avrebbero dovuto far seguito la ripresa del processo di unificazione politica del Vecchio Continente su basi federaliste e la conduzione di una politica di difesa ed estera comune. A parte la costituzione del mercato interno, le spinte federaliste e quelle per una difesa e una politica estera comuni, all’epoca appoggiate anche dalla Germania, sono state fortemente ridimensionate su pressione di alcuni importanti Stati membri, quali il Regno Unito, l’Olanda e i Paesi scandinavi.
L’Unione Europea è venuta a così a caratterizzarsi solo sul piano dell’integrazione economica e finanziaria, dando vita a un mercato comune in cui è stata realizzata piena libertà di circolazione dei beni e dei capitali, rafforzato dalla creazione di una Banca Centrale e di una moneta comune. Secondo le idee neoliberiste del tempo, le regole di funzionamento del mercato interno dovevano essere quelle della libera concorrenza, con l’esclusione di qualsiasi possibilità di un intervento degli Stati a favore delle proprie imprese; un tal modo, nel rilancio del processo di unificazione degli Stati europei è stata privilegiata la competizione, non la solidarietà. [segue]
Un sistema simile poteva funzionare senza avvantaggiare costantemente qualcuno a danno di altri solo se vi fosse stata una sostanziale parità di condizioni di partenza; sotto questo profilo, alcuni Paesi, come l’Italia ed altri dell’Europa mediterranea, si sono trovati in una posizione di debolezza relativa rispetto a quelli più sviluppati; posizione che si manifesterà in tutta la sua estensione col sopraggiungere della crisi del 2007-2008.
La mancata realizzazione dell’assetto istituzionale federale non ha favorito una convergenza delle diverse economie, per cui l’onere dell’aggiustamento è stato lasciato alla responsabilità dei singoli Paesi. Nella situazione attuale, perciò, qualunque riflessione sul futuro dell’Europa non può che partire dal blocco del processo di involuzione, nella consapevolezza che la tendenza sempre più diffusa a privilegiare le sovranità nazionali, in luogo di una sovranità condivisa a livello europeo, avrà la conseguenza di compromettere irreversibilmente le realizzazione dell’antico progetto di unificazione dell’Europa.
Accontentarsi di aggiustamenti incrementali, di veti incrociati e di compromessi – prosegue Mèny – non può che portare a una catastrofe. Gli europeisti che ancora restano sono chiamati, non solo ad avanzare proposte più incisive, ma anche a “minacciare di praticare una sorta di strategia di provocazione europeista”; in altre parole, se gli europeisti vogliono realmente salvare l’Europa, devono sconfiggere, con la riproposizione della loro azione, lo “squilibrio mortale” che da tempo si è consolidato tra “le regole dell’integrazione negativa (l’eliminazione delle protezioni) e quelle dell’integrazione positiva (spesso impossibile da introdurre a causa dei meccanismi decisionali che la governano)”. E’ indispensabile – ritiene Mény – che vengano messi in discussione i meccanismi decisionali prevalenti, se gli europeisti vogliono realmente rilanciare il processo di costruzione dell’Europa federale.
In assenza di vere politiche di solidarietà, è quindi necessario, conclude Mény, che gli europei reagiscano “per preservare le loro conquiste democratiche, politiche e sociali”, consapevoli che limitarsi ad osservare, a disapprovare e ad agire ai margini non farà che “accelerare il declino e la fine della più bella utopia […] inventata dall’Europa: an ever closet union“.
————
mulino_2_2020

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>