Italia reformanda
Le cause del malfunzionamento del sistema di governo dell’economia del Paese secondo Salvatore Rossi
di Gianfranco Sabattini
Secondo Salvatore Rossi, già direttore della Banca d’Italia e autore del recente “La politica economica italiana dal 1968 a oggi”, all’interno dei confini della scienza economica il tema dell’individuazione dei principi in base ai quali stabilire le finalità della politica economica ha polarizzato su di sé il dibattito e la riflessione degli economisti. La questione assume un particolare rilievo, se si considera che a differenti decisioni di politica economica corrispondono differenti configurazioni del sistema sociale. [segue]
Per queste ragioni – osserva Rossi – l’attenzione dei partecipanti al dibattito si è prevalentemente concentrata sui “modi di ordinare in una scala di valore sociale tutti i possibili stati della società, cioè tutte le situazioni in cui una collettività di agenti economici può trovarsi (anche) per effetto dei suoi policy makers”. Di conseguenza è stato naturale che il dibattito sulla natura e le finalità della politica economica fosse orientato a chiarire se lo stato della società da essa plasmato dovesse rispondere a un qualche principio “esterno e sovrimposto” alle preferenze individuali, o se esclusivamente da queste esso (lo stato della società) dovesse trarre origine.
Ai sostenitori del principio dell’individualismo metodologico, ispirandosi ad un’etica propria del liberalismo e negando qualsiasi vincolo al “libero esplicarsi delle preferenze e delle scelte dei singoli”, si sono contrapposti i fautori di una politica economica finalizzata a realizzare una configurazione del sistema economico che tenesse conto anche degli aspetti trascurati dalle preferenze individuali; ciò, al fine di rendere il sistema economico più rispondente a uno “stato della società” informato a criteri di equità distributiva.
A prevalere sono stati i sostenitori dell’individualismo metodologico, dal quale la scienza economica – ricorda Rossi – “ha derivato un corpus teorico assai cospicuo, incentrato sulla questione della misurabilità delle preferenze”, al fine di formulare una “grandezza sintetica” esprimente il benessere sociale.
Poiché l’individualismo metodologico negava la confrontabilità e la misurabilità delle scelte individuali, è stato inevitabile che il benessere sociale fosse studiato solo dal punto di vista dell’efficienza, separatamente da quello dell’equità distributiva, considerata come una questione estranea al dominio degli studi economici. Dopo un lungo periodo di egemonia del soggettivismo, è stata però riconosciuta l’importanza della questione distributiva e, di conseguenza, la necessità di “ricorrere a una qualche forma di confronto intersoggettivo delle preferenze”, al fine di ordinare secondo una scala di valori le diverse possibili configurazioni del sistema economico.
Si è così aperta la strada ai tentativi di costruire “funzioni di benessere sociale” che coniugassero l’efficienza con l’equità, in modo “da offrire – afferma Rossi -, pur con forme e contenuti variabili secondo la sottostante idea di giustizia, una misura del grado di soddisfazione economica della società e da indicare le condizioni perché essa [fosse] massima”.
Perché questo obiettivo potesse essere raggiunto, bastava forse lasciare agire la “mano invisibile” del mercato di smithiana memoria? O era invece necessario, in tutti i casi in cui il libero mercato “falliva”, l’azione di una politica economica attuata da “un’autorità investita del compito di influenzare i comportamenti economici dei singoli, in vista [...] del massimo bene collettivo?”. L’esperienza è valsa a suggerire che in tutti casi di fallimento del mercato fosse necessario attuare politiche economiche attive, in particolare di tipo macroeconomico (prevalentemente monetarie e di bilancio), per influenzare le modalità di funzionamento del sistema economico, al fine di renderle compatibili con la massimizzazione del benessere collettivo.
Sulla base delle considerazioni sin qui svolte (riguardo alla natura e alla funzione della politica economica), Rossi affronta la narrazione degli eventi che “hanno segnato la politica economica italiana dell’ultimo mezzo secolo”, cioè quella con cui si è inteso governare l’economia del Paese dal 1968 in poi. Questa data, a parere dell’autore, deve essere considerata come punto di partenza per diversi motivi: innanzitutto, perché è l’anno in cui si sono messe “in moto le lotte operaie che culmineranno nell’’autunno caldo’ del 1969; in secondo luogo perché il “baricentro politico italiano” si è spostato a sinistra”, all’insegna dì due parole d’ordine: riforme e programmazione.
La necessità di riforme veniva giustificata sulla base dell’assunto “che il sistema capitalistico italiano [dovesse] essere cambiato fin nella sua struttura per correggere i gravi squilibri sociali apertisi nel corso del suo sviluppo”. La seconda parola d’ordine (quella riguardante la programmazione), intrecciata con la prima, era giustificata dalla “convinzione che il processo di accumulazione capitalistica e di sviluppo economico [dovesse essere] guidato dal centro, indirizzato a fini sociali”, senza per questo che fossero bloccati del tutto o mortificati i meccanismi di mercato ed il profitto.
Trascorso appena un decennio, la diffusione del convincimento che i tentativi sperimentati (guidati dal centro) per correggere gli squilibri sociali non avessero avuto successo è sfociata in un’”esplosione protestatoria, prima studentesca, poi proletaria”, che si è colorata di “tinte rivoluzionarie”. L’istanza rivoluzionaria, anticapitalista, antiautoritaria, egualitaria e collettivista, della quale l’esplosione protestataria è stata portatrice, non ha sedotto – sostiene Rossi – la società italiana, in maggioranza orientata ad inseguire, sin dal “miracolo economico” del dopoguerra, altre aspirazioni e stili di vita, basati “non sulla responsabilità collettiva, ma sulle opportunità che i singoli [speravano] di poter trarre dal libero mercato e dalla libera iniziativa individuale”.
Sarebbe questa, per Rossi, l’origine di una “vera anomalia” che avrebbe segnato nel profondo il modo di governare l’economia nazionale. Il conato pseudorivoluzionario, pur fallendo il suo obiettivo dichiarato, avrebbe inciso “segni vistosi e duraturi non solo sul costume, ma anche sul sistema economico”, soprattutto a causa del “peculiare sistema politico” italiano, che nel dopoguerra sarebbe stato caratterizzato da elementi costitutivi (quali, principalmente, il parlamentarismo, il metodo elettorale proporzionale puro, la “conventio ad excludendum” nei confronti del Partito Comunista Italiano, principale partito di opposizione, ed altri ancora) che hanno impedito il consolidarsi “di una democrazia stabile, coesa e dotata della capacità di generare politiche non solo di corto respiro”.
Non casualmente, infatti, – nota Rossi – il periodo della storia che va dal 1968 ad oggi sarebbe quello in cui l’”intrinseco difetto di efficacia dell’azione di governo [...] del nostro sistema politico avrebbe mostrato il peggio di sé”; ne sarebbe prova la crescita della frammentazione del quadro politico in una molteplicità di partiti che hanno consentito la formazione di governi di coalizione spesso limitate nelle loro azione dal potere di condizionamento esercitato dai partiti più piccoli, ma anche la frantumazione interna del partito di maggioranza relativa (la Democrazia cristiana), in numerose correnti litigiose. Tutti eventi, questi, che sarebbero valsi ad accorciare la durata media dei governi, a causa della loro interna fragilità, in quanto, sebbene aperti alle domande che “il corpo sociale tumultuosamente avanzava”, erano privi però della capacità “di vagliarle, selezionarle, ricomporle in un disegno organico di politica economica”.
In tal modo, le istanze sociali manifestatesi nell’arco di tempo considerato (determinate da stati di crisi dell’economia internazionale, ma anche da turbolenze minoritarie oltranziste interne alla società civile italiana) sono state tutte e sempre accomodate casualmente, “nei modi familiari alla cultura politica” dei governanti succedutisi nel corso degli anni, attraverso un aumento indiscriminato degli impegni di spesa pubblica (a carico dei bilanci correnti e futuri dello Stato e senza un coerente disegno di copertura finanziaria), una estensione dell’impresa pubblica e una sostenuta proliferazione di vincoli amministrativi al funzionamento dei mercati.
In sintesi, a parere di Rossi, la riposta a tutti i motivi di crisi che i governi italiani hanno saputo dare è stata “una sola: meno Mercato, più Stato”; non però lo Stato riparatore dei fallimenti del libero mercato, ma uno Stato “dirigista e distorsivo della concorrenza, esso stesso creatore di ostacoli alla produzione efficiente e alla competitività internazionale”. Un tipo di Stato, la cui azione si è ripercossa negativamente sui cittadini italiani, a causa del fatto che il malcontento sociale, anziché essere attenuato o rimosso, si è invece rafforzato, per essere contenuto a spese del bilancio pubblico.
In Italia ha avuto così inizio l’aumento continuo del debito pubblico consolidato, con l’instaurazione di un circuito perverso che lo legava ai disavanzi, crescenti anno dopo anno, del bilancio pubblico corrente; ciò a causa degli interessi, correlati al debito che lo Stato era tenuto a pagare e che andavano ad incidere sul saldo primario (differenza tra le entrate e le spese dello Stato, escluse le spese per interessi passivi), con una progressiva riduzione della spesa primaria.
Il circuito perverso tra il debito pubblico consolidato e quello corrente ha avuto un’impennata notevole nel corso degli anni Settanta con i governi di solidarietà nazionale, il cui intento è stato quello di promuovere una “serie di iniziative legislative su un ampio ventaglio di materie”, dietro le quali era possibile intravedere – osserva Rossi – lo sforzo unitario “di far compiere decisivi passi in avanti alla costruzione dello Stato sociale e al processo di democratizzazione della società”. Il risultato è stato che le iniziative legislative intraprese sono state portate a compimento al prezzo di faticosi compromessi, la cui conseguenza è stata un’elevata espansione della spesa pubblica per il finanziamento della riforma sanitaria.
Rossi ritiene che tale stato di cose sia stato causato dai compromessi raggiunti da forze politiche “tanto irriducibilmente nemiche nella filosofia politica e rivali nella rappresentanza degli interessi sociali, quanto accomunate nella concezione dell’economia e della politica economica essenzialmente antiliberista”. I compromessi raggiunti da tali forze, “anche quanto [hanno fronteggiato] esigenze di giustizia sociale, non [hanno potuto] che essere intrinsecamente spartitori”, risultando prevalentemente vantaggiosi per i gruppi di pressione più influenti, presenti in vastissime aree della società.
L’impennata dell’indebitamento pubblico determinata dall’attività di governo di “solidarietà nazionale” è valsa a sottrarre risorse al futuro del Paese, creando le premesse dell’assoluta incapacità del sistema Italia a fronteggiare le sfide che sopravverranno negli anni successivi; in particolare, quelle connesse alla creazione del mercato comunitario e la successiva adesione alla moneta unica europea, ma soprattutto quelle che origineranno dopo lo scoppio della Grande Recessione del 2007-2008. L’intera storia economica e politica del periodo più che cinquantennale preso in considerazione legittima l’ipotesi – conclude Rossi – che “nell’impianto della politica economica” il Paese abbia incorporato una fragilità che ha riguardato invariabilmente i “governi di qualunque segno politico”, rivelatisi tutti incapaci di superarla. Quali le cause di questa incapacità?
Sulla base dell’analisi di Rossi è facile capire che queste cause sarebbero da ricondursi al fatto che le forze politiche siano state sempre eterogenee e conflittuali; ciò avrebbe impedito che il governo dell’economia nazionale fosse attuato in presenza di “un adeguato grado di coordinamento/cooperazione fra i suoi agenti nella definizione e nel rispetto delle regole basilari della convivenza civile e dell’attività economica”. Il mancato grado di coordinamento/cooperazione si sarebbe tradotto in processi decisionali politici inefficienti, intrinsecamente caratterizzati da una tara che avrebbe roso dall’interno la politica economica italiana. La tara avrebbe tratto origine dal momento fondativo della Costituzione repubblicana, alla cui approvazione hanno contribuito, sulla base di logoranti compromessi, forze politiche molto eterogenee sul piano ideologico, dando luogo allo stratificarsi di istituzioni fortemente conflittuali, a dispetto della loro comune ispirazione democratica.
Il rimedio alla conflittualità delle istituzioni dovrebbe consistere perciò nella riforma della Costituzione; ma considerate le difficoltà a realizzarla, a causa della persistente conflittualità tra le forze politiche che dovrebbero affrontare la riforma, Rossi è del parere che per rimediare alla “malattia istituzionale italiana”, potrebbe valere una riforma della pubblica amministrazione. Poiché anche quest’ultima risulterebbe di difficile realizzazione, per le stesse ragioni per cui sarebbe difficile riformare la Costituzione, a Rossi non resta che sperare che essa (la riforma della pubblica amministrazione) possa autodeterminarsi, in considerazione del fatto che, a volte, la storia effettua dei “salti”.
Strano questo modo di pensare al rimedio dell’inefficienza e dell’inefficacia dell’azione delle istituzioni italiane; ma ancora più strana è la riconduzione della causa prima dell’inefficienza e dell’inefficacia delle istituzioni all’eterogeneità delle forze politiche, trascurando il fatto che esse lo specchio dell’eterogeneità della società civile. Rossi, perciò, avrebbe dovuto ricondurre l’origine del “male oscuro” delle istituzioni italiane, non ai compromessi che hanno caratterizzato l’approvazione della Costituzione repubblicana, ma a quelli che hanno impedito che la raggiunta Unità del Paese fosse condivisa da una coesa ed omogenea società civile italiana. Sono le divisioni sociali mai risolte della società civile dell’Italia post-unitaria la causa prima della crisi delle istituzioni attuali e, sin tanto che le divisioni sociali non saranno rimosse, è vano sperare in un improbabile atto salvifico della storia.
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Illustrazione in testa. Da Ambrogio Lorenzetti (1290–1348): Effetti del buono e del cattivo governo in città
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