TERZO SETTORE, questo (tuttora) sconosciuto.
TERZO SETTORE che cosa è cambiato, dentro e fuori.
Fiorella Farinelli, su Rocca.
Li abbiamo visti in azione negli ultimi mesi, gli uomini e le donne del volontariato. Sulle ambulanze in corsa verso gli ospedali nelle strade deserte delle città assediate dalla pandemia, nelle case e negli alberghi trasformati in lazzaretti, nelle mille iniziative a supporto dei rinchiusi nei tanti ghetti esposti al contagio della nostra modernità crudele. Gli edifici occupati dai senza tetto, le baraccopoli degli ultimi degli ultimi, i campi Rom, i marciapedi e i lungofiume desolati dei più disgraziati. E poi i luoghi apparentemente più facili del conforto agli anziani rimasti soli, dell’aiuto alle famiglie con disabili abbandonati dai servizi pubblici, dei pasti da preparare per le file sempre più numerose delle mense dei poveri. [segue] Un volontariato diffusissimo, articolato e duttile, capace di rispondere anche ad altre più specifiche e nascoste necessità, dagli sportelli telefonici di aiuto psicologico per chi ha avuto lutti e traumi al supporto one-the-one ai genitori in difficoltà con i figli impegnati nella didattica a distanza. Anche ora che l’assedio sembra essersi allentato, resta alto l’impatto sulla vita sociale dell’azione dei volontari. Che non si limitano a far fronte alle carenze del pubblico in tanti campi diversi (c’è un forte risvolto negativo, si sa, nel lungo lavoro «da remoto» di gran parte degli impiegati pubblici), ma rammendano il tessuto della coesione sociale e ricostruiscono il senso di comunità anche quando tutto sembra potersi sfilacciare con la perdita del lavoro, la solitudine e l’incertezza del futuro, lo sconvolgimento della vita di prima, le povertà che dilagano. «Una fonte irrinunciabile di umanità, ha detto l’8 maggio scorso il presidente Mattarella nel suo messaggio alla Croce Rossa, che ci aiuterà ad aprire una nuova stagione di sviluppo civile, economico, sociale». Una certezza, comunque, soprattutto nel Nord del Paese, come nella provincia di Bergamo, dove su 1,1 milione di abitanti sono 4.300 le organizzazioni no profit e circa 100.000 i volontari. E anche in Veneto, dove non a caso è a Padova che è stato recentemente riconosciuto lo status di «città europea del volontariato». Ma in tutta Italia è fitta e ricca la rete di un impegno civico di cui andare orgogliosi, 6,9 milioni i volontari che operano stabilmente nelle associazioni e negli enti del privato sociale, 11 milioni le persone che partecipano con continuità alla loro vita organizzativa e sociale, almeno 3 milioni, secondo il Censis, i volontari «individuali», che agiscono costantemente o saltuariamente fuori dalle reti associative. [*]
il terremoto della pandemia
Ma dietro a quello che vediamo c’è stato un terremoto. Non solo perché tra gli ammalati e i morti per Covid 19 di Bergamo, Brescia ed altre città ci sono stati anche tanti volontari, e chi da anni li guidava e organizzava, ma per la perdita di una delle colonne tradizionali del volontariato, quegli anziani passati improvvisamente dal ruolo di chi aiuta gli altri al suo rovescio, chiusi in casa perché soggetti a maggior rischio di ammalarsi e di far ammalare, e quindi bisognosi loro stessi di aiuto. Una perdita non solo numerica (prima della pandemia gli over 65 erano quasi il 40% del volontariato organizzato) ma anche di esperienza e di competenze. Il volontario non è solo chi aiuta gli altri a titolo gratuito ispirato dalla volontà di contribuire al «bene comune», come recita l’articolo 17 dello Statuto, ma chi nel farlo mette in campo sia conoscenze specifiche – i bambini, i disabili, gli ammalati, gli stranieri… – che competenze organizzative, relazioni, una credibilità che si sviluppano solo con l’esperienza. Conoscenza del territorio, capacità di «fare rete», rapporti con le istituzioni, sapere a chi rivolgersi e come utilizzare bene le risorse dei tanti che direttamente o indirettamente aiutano. Un terremoto quando, messi fuori gioco i più esperti, è stato sollecitato a partecipare ed è in effetti immediatamente subentrato un esercito di giovani. Energie fresche e preziose, ma anche persone nuove, di solito inesperte, da coinvolgere, formare, motivare anche oltre l’emergenza, e a cui trasmettere informazioni e competenze. Non solo. Nei mesi della pandemia, si sono ridotte di un terzo, perché stornate sugli ospedali e la ricerca medica (si tratta di 1 miliardo e 200 milioni), le donazioni di singoli, fondazioni, banche che permettono di pagare gli affitti dei locali e di retribuire i dipendenti che costituiscono l’ossatura tecnico-organizzativa degli enti (circa 800mila), quelli che fanno i bilanci, curano i locali e le attrezzature informatiche, si occupano degli acquisti, il retroterra obbligatorio di servizi, insomma, delle attività di volontariato. Con molte associazioni che hanno dovuto chiudere i battenti perché storicamente impegnate in attività culturali, ricreative, ludiche che oggi non si possono fare, o che si devono riciclare in forme e in campi più pressanti ed urgenti. Il volontariato uscirà cambiato dall’esperienza della pandemia, ma l’impresa non sarà delle più facili.
È successo, fra l’altro, che per un bel po’ di tempo dal governo non sono venute attenzioni né aiuti. Difficile dire se per distrazione dovuta alla concitazione dell’emergenza o, più credibilmente, per la lunga scia di freddezze e di diffidenze lasciate in eredità ai giallo-rossi dalla dura battaglia scatenata contro le ong e tutto quello che gli assomiglia dai giallo-verdi. Che in verità sono anche precedenti all’epoca di Salvini ministro degli interni, fin dal discredito rovesciato dal populismo nostrano sull’intero terzo settore dopo lo scandalo delle cooperative sociali di Roma Capitale. Come se tutta quanta la realtà dell’associazionismo e del volontariato fosse attraversata da rischi di corruzione, interessi illeciti, convenienze inconfessabili. È un fatto, comunque, che ci sono volute le pressioni di autorevoli esponenti del mondo cattolico, che è parte consistente degli enti no-profit, perché finalmente con il Decreto di marzo «Cura Italia» si introducessero disposizioni analoghe a quelle già ottenute da altri comparti. Lo slittamento al 31 ottobre di una serie di adempimenti burocratici e fiscali e, finalmente, l’estensione della Cassa Integrazione anche ai lavoratori degli enti no profit in difficoltà. E poi gli incentivi alle erogazioni liberali, proprio come per le donazioni allo Stato, agli enti pubblici, alle fondazioni (ma è sintomatico che ci sia voluto un emendamento del Parlamento perché agli enti no profit venissero all’ultimo momento aggiunti anche gli «enti religiosi»). Un’analoga freddezza, al limite dell’irresponsabilità politica rispetto al concretissimo rischio di chiusura, il prossimo settembre, di attività educative essenziali, c’è del resto anche nei confronti degli enti no-profit educativi che gestiscono asili nido e scuole per l’infanzia. Sebbene sia ampiamente noto che, se dovessero effettivamente cessare le attività, sarebbero centinaia di migliaia i bambini tra 0 e 6 anni che sarebbe impossibile accogliere tutti e subito nel settore educativo a gestione pubblica, dello Stato e dei Comuni.
assistenti civici e servizio civile
Ma l’incomprensione di che cosa è volontariato, di quali siano i suoi valori, funzioni, competenze, è dura a morire. Lo si è visto in questi ultimi giorni, con la proposta avanzata dal ministro Boccia e dal presidente Anci De Caro di un reclutamento, da parte della Protezione Civile, di 60mila «assistenti civici» che dovrebbero essere utilizzati dai Comuni per assicurare, di qui alla fine dell’emergenza Covid-19, il rispetto del «distanziamento sociale». L’apposito bando, che dovrebbe essere rivolto prioritariamente a disoccupati, cassaintegrati e percettori del reddito di cittadinanza (per 16 ore settimanali di lavoro gratuito alla dipendenza dei Comuni), è stato ripetutamente annunciato ma ancora non emanato. Probabilmente perché poco condiviso dentro la stessa coalizione di governo, a partire dal ministro degli interni Lamorgese che ha espresso riserve di metodo e di merito. E perché bersagliato da critiche ed irrisioni da più parti, grandi giornali compresi. Sul piede di guerra è ovviamente l’opposizione che, in modo anche pretestuoso e con l’intenzione evidente di attaccare sempre e comunque il governo, paventa il rischio che i 60mila «assistenti» siano il modo per dar vita a uno Stato «della sorveglianza» e del «controllo autoritario» (quantomeno curioso da parte di chi, come la Lega, ha propugnato per anni le «ronde» anticriminalità in tutte le città del Nord), mentre resta invece vaga e approssimativa la predisposizione di tutti i dispositivi che dovrebbero servire al tracciamento rapido e all’isolamento di eventuali nuovi focolai di contagio. Ma scontento e scarsa convinzione ci sono anche nell’area della maggioranza, dove sono in tanti a chiedersi perché ricorrere ad un provvedimento ad hoc per ottenere un qualche impegno in attività di interesse sociale di soggetti come i percettori di reddito di cittadinanza per cui quell’impegno è già previsto. E comunque come potrebbero, i suddetti 60mila «assistenti», assicurare il rispetto del non assembramento e del distanziamento sociale, visto che non possono sanzionare né multare gli eventuali e probabili trasgressori. Non sarà che, come per i navigator – che dovevano finalmente attuare le po- litiche attive del lavoro e che, una volta reclutati e retribuiti, sono invece spariti dai radar – è la solita e vacua politica degli annunci a fini di visibilità politica e di consenso elettorale? È probabile, ma il problema vero, come sottolinea il mondo del no profit, è che ad un’esigenza giusta si dà una risposta sbagliata. Sbagliata prima di tutto perché un volontariato selezionato senza una preparazione apposita alla mediazione sociale e senza protocolli specifici di comportamento può finire facilmente o in errori di valutazione della trasgressione e del pericolo effettivo o in eccessi di controllo autoritario e burocratico. A lasciar correre insomma o viceversa a esagerare nel controllo. Col rischio di scatenare tensioni, invece che di prevenirle, di essere parte del problema invece che di risolverlo. Ma sbagliata anche perché, se proprio si ritiene di avere bisogno, in questa fase due, di addetti alla moral suasion di cittadini trasgressori delle regole, sarebbe stato meglio puntare ai giovani del Servizio Civile, che sono gestiti da enti e associazioni esperte nella mediazione in luoghi e circostanze difficili. E qui viene fuori la verità. Cioè che, a fronte della richiesta di un consistente incremento del Fondo per il Servizio Civile (370 milioni fino al 2022, 270 a decorrere dal 2023) che avrebbe consentito di restringere la forbice tra i 39.000 giovani che entreranno col bando appena chiuso e i 90.000 che si erano candidati, il governo è riuscito a stanziare solo 20 milioni. È dunque sull’incomprensione politica dell’importanza, in questi mesi così difficili, di un volontariato giovane, motivato, formato e adeguatamente organizzato (e anche sorretto dalla pur modesta retribuzione di 437 Euro mensili), che sembra essere nato il fungo di un’iniziativa approssimativa ed estemporanea come quella del ministro Boccia. Sperando che il fungo, se proprio deve esserci, non sia velenoso.
Fiorella Farinelli
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ROCCA 15 GIUGNO 2020
TERZO SETTORE
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Sussidarietà per una nuova socialità che mette al centro la persona e porti al ridisegno delle Istituzioni
di Franco Meloni
Sostiene Giulio Marcon nell’editoriale della News Sbilanciamoci del 26 maggio u.s. nel quale stronca il progetto governativo delle “guardie civiche”: “In Italia abbiamo oltre 335mila organizzazioni non profit e 5,5 milioni di volontari. Perché invece di lanciare questo assurdo e sconclusionato bando, il governo non ha lanciato un piano speciale di sostegno a queste organizzazioni (troppo poco c’è nell’ultimo decreto per il terzo settore ed il servizio civile), come la Caritas o l’Arci, siglando specifici accordi e protocolli d’intesa per lo svolgimento di determinate funzioni in ambito sociale, sanitario, culturale, eccetera?
L’articolo 118 della Costituzione recita: Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà. Il reclutamento di una “guardia civica” è una cosa ben diversa.
Abbiamo subito chiesto che a questo annuncio non fosse dato seguito. Speriamo che la proposta sia archiviata per sempre. La strada è un’altra: è quella che abbiamo indicato nel nostro documento In salute, giusta, sostenibile. L’Italia che vogliamo. Per il welfare e per le nostre città serve un piano pubblico di investimenti, di assunzioni, di politiche capaci di sconfiggere la povertà e l’emarginazione, contribuendo a ricostruire le condizioni della convivenza civile e sociale”.
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Sul concetto di sussidiarietà ci sembra utile fornire sintetici elementi di chiarificazione. In un successivo intervento cercheremo di ragionare sulle sue implicazioni nella gestione dei beni comuni, rispetto alla creazione di lavoro e della sua valorizzazione.
La sussidiarietà come principio di organizzazione sociale trova accoglimento e sistematizzazione teorica nella dottrina sociale della Chiesa cattolica. Il primo documento che la contiene è l’enciclica Rerum Novarum (1891) di papa Leone XIII. Successivamente la Chiesa ha ulteriormente elaborato il concetto attraverso le encicliche di altri Papi: Pio XI Quadragesimo Anno (1931); Giovanni XXIII Mater et magistra (1961); Giovanni Paolo II Centesimus annus (emanata nel 1991 nel centenario della “Rerum Novarum”), la quale ultima riafferma e attualizza le precedenti elaborazioni: «… una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune».
Ma veniamo alla definizione giuridica accolta nel nostro ordinamento (giova anche ricordare che il principio di sussidiarietà è posto alla base dei rapporti tra l’Unione Europea e gli Stati aderenti) e, soprattutto, alle conseguenze della pratica della sussidiarietà orizzontale.
Il principio di sussidiarietà è regolato dall’articolo 118 della Costituzione italiana: “Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà”. Ne consegue che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni per permettere alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente nello svolgimento della loro attività. L’intervento dell’entità di livello superiore, qualora fosse necessario, deve essere temporaneo e teso a restituire l’autonomia d’azione all’entità di livello inferiore.
Il principio di sussidiarietà si esplica in due dimensioni:
- verticale: la ripartizione gerarchica delle competenze deve essere spostata verso gli enti più vicini al cittadino e ai bisogni del territorio;
- orizzontale: il cittadino, sia come singolo sia attraverso i corpi intermedi, deve avere la possibilità di cooperare con le istituzioni nel definire gli interventi che incidano sulle realtà sociali a lui più vicine.
Con riferimento alla sussidiarietà orizzontale, la Costituzione legittima la partecipazione dei cittadini alle decisioni e alle azioni che riguardano la cura di interessi aventi rilevanza sociale, prevedendo che le amministrazioni pubbliche la favoriscano, con conseguenze positive per le persone e per la collettività in termini di benessere spirituale e materiale. L’applicazione di questo principio ha un elevato potenziale di cambiamento positivo delle amministrazioni pubbliche in quanto la partecipazione attiva dei cittadini alla vita collettiva concorre a migliorarne la capacità di rispondere ai bisogni delle persone e alla soddisfazione dei diritti sociali. In questa direzione sono ormai numerose le amministrazioni pubbliche che hanno intrapreso iniziative per favorire la sussidiarietà orizzontale – ad esempio i Comuni attraverso appositi regolamenti per la gestione con i cittadini, singoli e associati, dei beni comuni urbani – e dall’altro le entità della società civile si sono mosse con azioni concrete, in tutta Italia e anche in Sardegna, seppure con un marcato ritardo che si spera di colmare rapidamente. Al riguardo si segnala la recente costituzione di un Osservatorio regionale per i beni comuni.
L’applicazione pratica del concetto di sussidiarietà dovrebbe comportare un ridisegno totale degli ordinamenti istituzionali, con un alleggerimento delle burocrazie e una semplificazione istituzionale e con l’apertura di ampi spazi per l’esercizio della democrazia partecipativa. La Sardegna dovrebbe giovarsene anche nella riforma del proprio assetto istituzionale divenuta oramai necessaria, anche in seguito all’esito dell’ultimo referendum costituzionale.
(Franco Meloni)
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