Dalla lingua che parliamo ci riconosciamo subito sardi
Gramsci e la lingua sarda: un curioso e significativo episodio
di Francesco Casula
Domani sabato 6 giugno nella consueta intervista in Telecostasmeralda (ore 20.30, nella trasmissione a cura di Enrico Putzolu) parlerò di Antonio Gramsci. In questo spazio voglio ricordare quanto riferisce in una Lettera Alfonso Leonetti uno dei fondatori del Partito comunista, proprio insieme a Gramsci e altri – a proposito del rapporto fra Sardegna e lingua sarda e l’intellettuale di Ales.
[…] Anche il suo parlare era sardo. I lunghi anni passati lontano dall’Isola, ora a Torino, ora a Mosca e Vienna, ora a Roma, non avevano punto alterato la pronuncia sarda, con le o chiuse e i raddoppiamenti delle consonanti. [segue] Tipico e significativo mi pare un «erroruccio ortografico» che si incontra nelle lettera scritta da Gramsci il 27 ottobre 1926, a pochi giorni dal suo arresto, per la redazione dell’Unità a Milano. Lui, sempre così preciso, così ordinato e attento nell’allineare lentamente, meditatamente, riga dopo riga, parola dietro parola, con la sua solita scrittura nitida, scrive «eccittato» proprio con sue t, come se stesse conversando in sardo. Egli amava moltissimo infatti parlare la lingua sarda, appena ne aveva l’occasione, coi suoi fratelli Carlo e Gennaro, coi fratelli Ciuffo, coi compagni Polano, Piga, Frongia. E’ noto l’episodio della Brigata Sassari a Torino nel 1919. Meno noto è quest’altro episodio ugualmente significativo: eravamo nel 1921, un anno nero di spedizioni fasciste. La Questura di Torino, per salvare le apparenze, faceva vigilare l’ingresso dell’Ordine Nuovo, diretto da Gramsci, con carabinieri. Una volta ci venne inviata una squadra di carabinieri in maggioranza sardi. Conoscendo l’effetto magico che avrebbe fatto su di essi il dialetto della loro isola, Gramsci stabilì con gli altri compagni sardi, che entrando e uscendo, parlassero forte nella loro lingua, in modo che i carabinieri potessero sentire. L’effetto fu veramente magico, come Gramsci aveva previsto: i carabinieri consideravano il nostro giornale un «covo di sardi» e cominciarono a salutarci e a sorriderci con simpatia. Ma anche essi, come già era avvenuto con la Brigata Sassari furono presto allontanati dal nostro quotidiano e forse da Torino.
Penso da ultimo al Gramsci del carcere, al Gramsci che vicino alla liberazione, si prepara a ritornare nella sua Isola, dove egli meditava di ritemprare le sue forze fisiche e morali. Tutto questo è estremamente significativo. Lui grande militante della rivoluzione mondiale, grande internazionalista e uno dei più importanti capi del comunismo internazionale, arrivati alla fine della prigionia, sceglie la Sardegna come suo porto di salvezza, dove avrebbe potuto ricomporre l’integrità del suo essere per ripartire all’assalto del mondo degli sfruttatori e degli oppressori. Ciò non avvenne, perché come noi sappiamo, il suo corpo fu distrutto dai carcerieri fascisti, prima che il ritorno nell’Isola fosse possibile. Rimane tuttavia iscritto nella storia che Gramsci, per sua volontà, uscendo dalle prigioni fasciste aveva deciso di ritornare a vivere in Sardegna. Perciò possiamo concludere che il ciclo gramsciano, nato sardo muore sardo, senza nulla perdere del suo carattere internazionale. Questo anzi spiega quello e viceversa.
(Alfonso Leonetti, Roma 16 aprile 1975)
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