L’Italia a sovranità limitata. Come liberarsi dei vecchi e nuovi vincoli. Da Stato unitario a Stato federale?
I “vincoli” che condizionano la difesa dell’interesse nazionale
di Gianfranco Sabattini
L’Italia degli ultimi decenni, costantemente in emergenza, ha praticato la propria politica estera trascurando spesso la cura e la difesa dei propri interessi, anche con riferimento a quelle aree del mondo all’interno delle quali, per ragioni storiche e geografiche, era solita muoversi come uno degli attori principali. Una trascuratezza che è valsa ad amplificare le conseguenze negative del “vicolo esterno” del quale la Repubblica ha sofferto sin dal suo nascere, anche a causa del “vincolo interno”, espresso dal deterioramento delle istituzioni nazionali.
Racconta l’Editoriale di “Limes” (4/2020) che, all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, il viaggio in America compiuto da Alcide De Gasperi [3-17 gennaio 1947], capo del governo italiano, per chiedere “dollari, pane e carbone”, sia stato il prodromo che ha segnato l’inizio del massimo “vincolo esterno” nella storia d’Italia. [segue] Che cosa resta oggi, si chiede l’Editoriale, di quel vincolo, dopo che l’America ha allentato il suo interesse per la penisola, “quale antenna di controllo e trampolino di lancio nel Mediterraneo”? Una risposta all’interrogativo comporta la necessità che ci si collochi in una prospettiva temporale di lungo periodo, per tentare, secondo un approccio geopolitico, di valutare come la nazione italiana possa “agire nel mondo”, cogliendo così le possibili alternative che le si offrono per assicurare senso e scopo alla sua azione.
A tal fine, secondo Limes, è necessario che l’Italia si liberi del doppio handicap, la cui persistenza concorre a definire l’indesiderabile e dannoso vincolo interno alla sua proiezione nel mondo; innanzitutto, occorre che stabilisca a quale struttura istituzionale affidare il compito di volgere in risorsa il caos [che attualmente caratterizza la scena mondiale], sperimentando gli aggiustamenti o i mutamenti di rotta della propria possibile azione, in modo che risultino coerenti rispetto alla tutela dell’interesse nazionale; in secondo luogo, occorre che essa (l’Italia) stabilisca “l’orizzonte temporale” entro il quale acquisire la struttura istituzionale affidabile per rimediare al secondo handicap: la sua debole posizione sulla scena del mondo.
La necessità, per l’Italia, di rimuovere il primo handicap mutua la propria origine dalla consapevolezza che, se non si doterà di strutture istituzionali adeguate alla tutela dei propri interessi, “saranno altri a farlo”, sulla base del proprio metro. E dubbio che tale funzione possa essere svolta dall’attuale establishment politico-istituzionale, ora troppo impegnato a tamponare l’emergenza che caratterizza da tempo al situazione politica, economica e sociale del Paese. In linea di principio, invece dall’establishment attuale, questa funzione potrebbe essere svolta dalle burocrazie dello “Stato profondo”; ma queste, senza una strategia legittimata dalla politica, agirebbero in modo conforme alla cura della conservazione dei propri privilegi. Non resta, quindi che lo Stato nazionale, risorto dopo la smentita della sua morte (presunta “invenzione della vulgata tardoliberista”) e dopo il modo responsabile con cui gli italiani hanno affrontato l’emergenza pandemia.
Oggi l’Itale è sola: il vincolo esterno americano si è molto affievolito, per avere l’America cambiato i parametri della propria politica estera, mentre quello imposto dall’appartenenza alla Comunità europea, stante la situazione esistente, continuerà a pesare negativamente sul Paese, a causa dei limiti della struttura istituzionale comunitaria. In queste condizioni, per acquisire una maggiore visibilità internazionale, all’Italia non resta che fare riferimento allo spazio geopolitico di elezione: l’area del Mediterraneo, al cui interno lo Stato italiano dovrà essere il principale “guardiano” degli interessi nazionali, non potendo contare (per le ragioni precedentemente indicate) su un establishment politico-istituzionale distratto e sull’autoreferenzialità delle burocrazie dello Stato profondo.
A tal fine, lo Stato dovrà essere “attrezzato al grado di efficienza minimo per sostenere la competizione internazionale” e consentire all’Italia di “poter contare su di sé”, cercando “di intendersi con gli altri”. Ciò richiederà però che lo Stato si ristrutturi, tenendo conto della necessità di risolvere prioritariamente due problemi: quello dell’emergenza demografica e quello della propria riorganizzazione istituzionale. Dal punto di vista demografico, si dovrà decidere se accettare la tendenza della popolazione italiana alla decrescita, oppure compensarne la diminuzione con gli immigrati o, ancora, attuare politiche di contenimento del calo demografico attraverso la nazionalizzazione degli stranieri in base a criteri certi e selettivi. In ogni caso – come osserva l’Editoriale di Limes – si dovrà tener conto anche delle tendenze dei più immediati competitori: “nel 2065 l’Italia avrà 54,1 milioni di abitanti (rispetto agli attuali 60,5), notevolmente anziani, contro gli 81,3 del Regno Unito, i quasi 81 della Germania , i 72 della Francia”.
Per riorganizzarsi sul piano istituzionale, l’Italia, a parere di Limes, dovrà realizzare un “accentramento di poteri e responsabilità”, senza i quali lo Stato si ridurrebbe e mera burocrazia; un obiettivo del quale l’emergenza pandemica ne esplicita l’urgenza, poiché “le funzioni strategiche dello Stato” potranno risultare efficienti solo “se regolate in prima e ultima istanza dal centro”. Questa riorganizzazione dell’ordinamento costituzionale è tanto più necessaria – sottolinea Limes – se gli italiani intenderanno “continuare a vivere da italiani”, senza tuttavia rinnegare nel nuovo assetto istituzionale “le identità radicate in secoli di formidabili fioriture cittadine, ma coltivandole nell’impianto bimillenario della nazione per giocarle sulla scena del mondo”.
La riforma dell’ordinamento costituzionale del Paese dovrà configurare uno Stato senza Regioni, organizzato in dipartimenti territorialmente coerenti, di dimensioni intermedie fra quella regionale e quella provinciale. Ciò dovrà consentire, non solo il superamento del “disastro” causato dalla riforma costituzionale del Titolo V, attuata per inseguire un malinteso disegno federalistico, ma anche la rimozione del cosiddetto problema del regionalismo differenziato, un “pasticcio destinato a moltiplicare i conflitti fra centro e periferia, oltre che fra le stesse Regioni”. Una tale riforma, secondo Limes, non avrebbe nulla di ideologico, in quanto suggerita solo dall’urgenza che lo Stato ispiri la sua azione al “principio di efficienza sposato al vincolo di legittimazione”, in carenza dei quali ogni struttura istituzionale scadrebbe a “bardatura autoreferenziale”, che varrebbe ad estendere e ad approfondire la “frattura cittadini/istituzioni”.
Non manca nell’Editoriale di Limes la consapevolezza dei tempi lunghi che saranno richiesti dall’attuazione di una riforma istituzionale del tipo di quella indicata; tuttavia, si sottolinea che solo con essa diverrà possibile affermare la rilevanza costituzionale del “principio dell’interesse nazionale”, a “garanzia dell’unitarietà giuridica, economica e geopolitica della Repubblica” che, così attrezzata, potrà affrancare il proprio futuro, sia dal vincolo interno delle propria inefficienza, che da quello originario (nato nel lontano 1947) e soprattutto da quello europeo.
Prima di procedere oltre nell’analisi del peso che il vincolo europeo continua ad esercitare sulla capacità dell’Italia di tutelare i propri interessi in campo esterno, è utile svolgere alcune considerazioni sulla plausibilità della riforma proposta da Limes. Il superamento della confusione istituzionale indotta dalla modifica del Titolo V della Costituzione (che ha messo lo Stato su un piano di parità con gli enti sub-statali che lo compongono) è una necessità ineludibile, se si vuole aumentare l’efficienza dell’azione statale; come pure è ineludibile il superamento di una delle più disastrose conseguenze che ne sono derivate, ovvero il conflitto destinato a durare fra Stato e Regioni in fatto di autonomia fiscale.
Detto ciò, vien fatto di considerare che l’obiettivo della riforma istituzionale che viene proposta potrebbe essere meglio perseguito, e forse con minori opposizioni sul piano politico, se anziché uno Stato unitario, ne prefigurasse uno federale, superando in modo definitivo le carenze introdotte nell’azione statale dal modo particolare col quale è stato adottato alla nascita della Repubblica l’ordinamento regionale; un ordinamento che le successive modifiche, come sottolinea Limes, sono valse a rendere inefficiente l’azione dello Stato, a causa dei crescenti conflitti che hanno caratterizzato le relazioni tra lo Stato e le Regioni. L’attuazione di una riforma costituzionale in senso autenticamente federale, varrebbe invece a soddisfare, non solo un’antica aspirazione degli italiani, maturata sin dalla raggiunta Unità del Paese, ma, quel che più conta, a realizzare migliori condizioni per risolvere l’annoso problema del “dualismo territoriale” tra le regioni sviluppate del Centro/Nord del Paese e quelle arretrate del Sud; un dualismo che, quando fosse avviato a soluzione, consentirebbe di migliorare l’efficienza dell’azione statale, liberandola dalla “palla di piombo al piede” che da sempre la condiziona.
Il ridimensionamento del vincolo europeo, che pesa sull’Italia di oggi è, a giudizio dell’Editoriale di Limes, “questione di vita o di morte”, perché dagli aiuti “rapidi e corposi e senza troppe condizioni che dagli euro-soci dovremmo ricevere – nominalmente via Bruxelles, di fatto da Berlino – dipende se avremo un futuro dignitoso. Altrimenti sarà bancarotta. Non solo finanziaria”. Nell’ipotesi in cui ciò non si avveri, come sarà possibile all’Italia attenuare, almeno in parte, il vincolo esterno europeo, dipendente dal fatto che la “struttura attuale dell’Eurozona e dell’Unione Europea è più un problema che risorsa”, a causa di un impianto istituzionale che, per i suoi limiti, punisce i Paesi partner in difficoltà, anziché aiutarli?
Considerato lo stato in cui versa da tempo l’Italia a causa del proprio vincolo interno, il meglio che il Paese può fare consiste, per Limes, nel tenere nella debita considerazione “due riferimenti inaggirabili. Quelli di sempre”: Francia e Germania; avendo cura, però, di tenere i rapporti della “strana copia” costantemente instabili, onde evitare che essa giunga ad imporre sull’intera Europa il proprio direttorio, senza tuttavia che l’instabilità dei rapporti tra i due Paesi scada in un aperto conflitto d’interessi, i cui esiti si ripercuoterebbero negativamente sul resto dell’Unione. Quanto più l’Italia riuscirà a partecipare, nel ruolo di “partner inferiore”, a un’intesa con Francia e Germania, tanto più riuscirà a farsi ascoltare a livello internazionale e a non essere “oggetto ambito” da parte del triangolo sino-russo-americano, ovvero delle massime mondiali.
Inutile sottolineare che l’essere parte del gruppo di Paesi che contano in Europa non deve significare la rinuncia, da parte dell’Italia, a modificare i termini del Trattato di Maastricht, approfittando dell’identico interesse avvertito dalla Francia; ciò, al fine di rimuovere la rigidità delle regole poste a garanzia della stabilità dell’euro, che hanno aggravato il funzionamento del sistema economico nazionale e aumentato le derive disgregatrici sul piano sociale. A tali disfunzioni l’Italia ha tentato di rispondere con proposte di riforma non sempre corrispondenti al superamento della sua situazione di crisi politica, economica e sociale, con il pretesto, perché venissero accettate, che fosse il bene dell’Europa a richiederle.
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