Gli Stati Uniti d’America in balia di tre sciagure
LA LEGITTIMITA’ DELLA LEADERSHIP, LA VERA CRISI DELL’AMERICA
La storia romanzata racconta che mentre Roma bruciava, l’imperatore Nerone suonava la lira. Nel tempo reale dei nostri giorni, mentre l’America si spacca dinanzi agli occhi
del mondo attonito, travolta da una insurrezione scatenata dall’ennesimo crimine razzista, sconvolta da un virus che non perdona e logorata da una crisi economica che ha prodotto quaranta milioni di disoccupati, la sua controfigura di imperatore, Donald Trump, incurante degli obblighi morali oltre che politici di un capo di governo, cerca solo
accanite zuffe con la Cina, con l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, con la rete sociale di Twitter (che ironicamente gli permise a suo tempo di emergere come candidato) e con il suo predecessore Obama accusato di misfatti generici. Le principali città americane sono consumate da vere e proprie sommosse, che in realtà non sono nuove nella storia americana, ma che nelle circostanze attuali accelerano un
disfacimento nazionale. Lo sfacelo minaccia di avere tremende ripercussioni nella salute pubblica di una nazione che fino a tempi recenti ricopriva un ruolo dominante nello scenario
mondiale. La colossale sventura degli americani nell’avere un Trump alla Casa Bianca viene compatita dal resto del mondo, sopraffatto anch’esso dalla pandemia e ansioso che venga trovato al più presto un vaccino. Ma se uscirà finalmente un vaccino per debellare il virus, non ci sarà una cura per il flagello che da sempre travaglia l’America, il razzismo. Associato ad un’altra radice dell’esperienza americana, la
violenza, assicura la combustione che ancora una volta infiamma gli animi di una vasta parte dei suoi cittadini, quelli di colore, dai neri ai “brown”, dai poveri ai diseredati in una nazione che secondo le statistiche dovrebbe essere la più ricca del mondo.
Lungi dall’esercitare la suasione morale che spetta al cosiddetto “pulpito” presidenziale, Trump non ha perso l’occasione per aizzare le parti in causa bollando i partecipanti alla protesta di Minneapolis come “teppisti” e ripetendo uno slogan razzista pronunciato nel 1967 in Florida: “quando comincia il saccheggio, comincia la sparatoria”. Ma non basta. L’ultimo affronto di Trump è stato quello di diffondere su twitter il video di un suo sostenitore in cui si afferma: “l’unico buon democratico è un democratico morto”, un detto che nei secoli scorsi veniva riservato alla popolazione indigena dei nascenti Stati Uniti d’America sterminata all’insegna della Nuova Frontiera.
La profonda rottura razziale e culturale dell’America è emersa in misura drammatica nello stato del Minnesota a seguito dell’impressionante misfatto dell’agente di polizia che ha soffocato George Floyd. La comunità afro-americana è scesa in piazza e la protesta è ben presto degenerata in una vera e propria sommossa. Ma gli americani hanno dovuto prendere atto di un aspetto altrettanto inquietante, che fra i protagonisti più esagitati della dirompente violenza di piazza erano molti i bianchi. Ancora una volta, il presidente Trump ha infiammato ancor più gli animi accusando gli Antifa – sinonimo di anti-fascista – e la “sinistra radicale” di aver incoraggiato e intensificato la violenza e la distruzione di
auto della polizia ed edifici, oltre che molteplici saccheggi.
Il razzismo strutturale che infetta il sistema sociale e politico dell’America impone oggi un energico intervento politico ma certamente senza la retorica della paura che nasce dallo scoperto confronto su scala nazionale. Che l’America sia spaccata è ormai un fatto arcinoto. Lo spartiacque tra centri urbani e zone rurali è particolarmente visibile nel Minnesota dove ai due centri di St Paul e Minneapolis si oppongono le zone “rosse” (il colore repubblicano) delle aree agricole e dell’Iron Range, i distretti estrattivi del ferro attorno al Lago Superior. Gli ultra repubblicani sono scesi nelle due città con i risultati che tutti hanno visto ed il Presidente Trump li ha giustificati puntando il dito accusatorio sul “sindaco della sinistra radicale”. Trump spera fortemente di conquistare i voti elettorali del Minnesota, dove nel 2016 perse per soli 45.000 voti, pur prevalendo in 78 delle 87 contee che compongono lo stato. Resta il fatto comunque che l’ottanta per cento degli individui arrestati durante le tragiche nottate di Minneapolis proveniva da altri stati. E’ parimenti certo che tra i saccheggiatori di Minneapolis figuravano, insieme ad afro -americani, i “suprematisti” bianchi. Non pochi messaggi apparsi sui social media incitavano i “suprematisti” ad andare sulla scena delle proteste.
L’America è un Paese con troppe tradizioni istituzionali e sociali e troppa diversità perché lo si possa considerare maturo per una rivoluzione. La rivoluzione americana
avvenne, e terminò, come sollevamento contro il dominio esterno. Da allora, una maggioranza bianca ha esercitato il dominio esercitando il pieno controllo sulla presenza e sulle vite dei non bianchi. Tale dominio sta cominciando a venir meno in un Paese sempre più diverso dove il razzismo è tecnicamente fuori legge ma troppo radicato perché la sua impronta venga cancellata dal dna nazionale. Questo assomma due elementi essenziali del carattere americano, ed in modo specifico della maggioranza bianca, per quanto possa essersi ridotta nei numeri del censo: la libertà da un dominio superiore e l’affermazione di autonomia. L’ultimo tratto è il motivo ispiratore della crociata trumpiana contro la “palude” del sistema governativo di Washington. In realtà, Trump ha reso quella palude ancor più profonda, favorendo la classe degli ultra ricchi (l’uno per cento contro cui inveiva l’ex candidato Bernie Sanders) e delle grandi imprese, alle spese del popolo americano.
Infine, in un quadro di caos, non poteva mancare il subdolo richiamo alla necessità di imporre “law and order”, accoppiato dal servile Attorney General William Barr all’accusa secondo cui i disordini su scala nazionale sono imputabili a “gruppi estremisti di estrema sinistra”. In pratica, Trump calcola di trarre il massimo vantaggio possibile dalla “culture war” – la guerra della cultura – che ha puntellato la sua candidatura sin dagli inizi. E’ una “cultura” che previlegia la base bianca – ormai nota come MAGA – e protegge le forze di polizia
refrattarie al rispetto delle leggi sui diritti civili, come dimostra il caso del poliziotto di Minneapolis che era stato ripetutamente citato per comportamenti violenti ed anti-sociali. Prima ancora che George Floyd venisse soffocato da quell’agente, Trump aveva incoraggiato le forze di polizia ad essere “rough” ossia ruvide nei confronti degli
individui arrestati. A seguito di quel crimine, lo stesso Attoney General del Minnesota ha dovuto ammettere pubblicamente che gli afro-americani dello stato erano
giustificati nel temere la polizia locale.
Per concludere, l’America è un Paese in balia di tre sciagure: la pandemia che ha già fatto più di 100.000 vittime; la depressione che ha privato del lavoro quaranta milioni di americani e chiuso migliaia di aziende commerciali (molte delle quali certamente non riapriranno); una conflittualità interna da guerra civile. Non pochi anzi temono che quest’ultima prospettiva possa risorgere a seguito delle forti divisioni territoriali negli Stati Uniti. Per contro, vale la pena di ripetere che le sommosse razziali rappresentano una sequela ininterrotta, e che il numero delle vittime a Minneapolis ed altre città non ha toccato gli estremi del 1992 a Los Angeles dove più di sessanta persone persero la vita in cinque giorni di rivolta per l’assoluzione degli agenti di polizia colpevoli di pesanti percosse sull’afro-americano Rodney King. In ultima analisi, l’America deve venire a capo di una fondamentale crisi di leadership, la sola ancora di salvezza di una nazione che è inesorabilmente spaccata quando un vasto settore della sua cittadinanza si rifiuta di attuare e rispettare le misure di previdenza sanitaria dell’apparato federale e degli stati, fino al dettaglio di rifiutare la mascherina.
Con Donald Trump, è in gioco la legittimità della leadership. Qualcuno ha osservato, realisticamente: in una congiuntura incendiaria, Donald Trump ha giocato con i fiammiferi.
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Non sarà Donald Trump a guidare l’America verso il recupero della pace sociale e della prosperità, una convinzione condivisa dalla parte sana del Paese, pienamente cosciente che Trump sta perdendo il controllo della macchina governativa. Attendersi un miracolo sotto forma di una conversione del partito repubblicano è futile. Ma la conversione di un numero sufficiente di elettori, nauseati dalla “law and order” di Donald Trump, sarà più che sufficiente a porre fine alla sua presidenza.
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Il quesito dominante, alla vigilia ormai delle elezioni di Novembre, è questo: come reagirà il settore decisivo dell’elettorato, gli indipendenti e gli indecisi, alla
forzatura costituzionale di Donald Trump, presidente del “law and order”? Cosa può significare l’adozione del grido di battaglia del presidente republicano che ricalca la strategia di Richard Nixon, un presidente eletto con quella piattaforma ma poi costretto alle dimissioni per aver violato le norme costituzionali e le leggi civili?
E’ possibile che una maggioranza degli americani riconosca finalmente il vero senso del “law and order”, quello di sancire che le autorità della nazione, dalla presidenza agli organi federali, dalle amministrazioni degli stati alle autorità locali, riconoscano la legittimità dei diritti delle minoranze di colore e della loro protezione? Non imponevano certamente il rispetto della legge le forze di polizia che sgombravano ferocemente Lafayette Park, sparando pallottole di gomma, gas lacrimogeni e “pepper spray”, per permettere ad un presidente di farsi fotografare con la bibbia dinanzi alla storica chiesa episcopale di St.John.
Il “bullismo” di Donald Trump ha portato l’America dinanzi ad un abisso, il risultato di una politica distruttiva ed incompetente, come ampiamente dimostrato dal rapido diffondersi della pandemia del coronavirus, attribuibile alla stupefacente impreparazione del governo federale. La protesta di massa non è un fatto nuovo nella storia americana ma questa volta infiamma una vera e propria rivolta allo status quo che da sempre puntella il razzismo bianco e la brutalità delle forze di polizia. E’ un sorprendente sollevamento trasversale che abbraccia classi sociali, settori economici e la grande massa minoritaria afflitta dalle disparità di reddito e di opportunità. Non meno determinante nel quadro della protesta è la constatazione che l’epidemia ha fatto scempio di leggi e proclamazioni di eguaglianza mietendo una spropozionata percentuale di vittime tra i poveri, la gente di colore, dai neri ai brown, i più colpiti dall’ineguaglianza sociale ed economica che caratterizza sempre più gli Stati Uniti d’America.
Questa volta la protesta ha raggiunto le proporzioni di una sommossa nazionale che minaccia di sfociare nella proclamazione di uno stato di assedio, un corso di azione repressivo palesemente favorito da un presidente che agisce con l’unico intento di garantirsi l’appoggio della sua base. Sono molti quelli che sospingono questo timore ad una estremo inconcepibile per una democrazia liberale, quello di una decisione presidenziale di sospendere o posticipare il ricorso alle urne ai termini del mandato costituzionale. Donald Trump è capace di tutto, forte dell’appoggio di poco più di un terzo dell’elettorato americano, nel quale si distacca il movimento
degli evangelici ultra-conservatori – vale la pena di notarlo con l’ironia che si addice all’episodio – che non hanno mosso ciglio dinanzi alla mancanza di rispetto del presidente verso una chiesa ed il suo clero malmenato all’aperto. Tra tanti altri, Paul Krugman pone il quesito essenziale sul “come siamo attivati a questo punto?” E risponde che il “nucleo centrale” della politica americana degli ultimi quattro decenni è che “le elite ricche hanno usato il razzismo bianco come un’arma per conquistare il potere politico” e per attuare politiche hanno arricchito ancor più i ricchi a spese dei lavoratori.
La verità che va affermandosi in queste drammatiche giornate dell’America contemporanea è che una massa di americani ha finalmente reagito agli eccessi di una presidenza che ha fortemente indebolito le istituzioni nazionali e concentrato il potere nelle proprie mani. Questa grave deformazione del
mandato istituzionale è stata attuata da Trump sul modello di quanto predicava, e continua a predicare, un ideologo che ha cercato di infettare la stessa democrazia italiana, un certo Steve Bannon. La sua strategia è presto detta: è la “decostruzione dello stato amministrativo”, volta a smantellare le infrastrutture globali, a conquistare il potere e solidificare il controllo. Questa, per l’appunto, è stata sin dagli inizi la strategia di Donald Trump.
Il pericolo che income sugli Stati Uniti e sul mondo è che la rielezione di Trump porterebbe al rafforzamento del potere centrale nella branca esecutiva del sistema di governo degli Stati Uniti. Peggio ancora sarebbe se i democratici non
riuscissero a conquistare il Senato e il controllo del ramo legislativo. Per gli alleati dell’America ciò significherebbe vedere compromesse soluzioni globali per problemi globali. La politica estera americana è presentemente un feudo delle ambizioni politiche di Mike Pompeo, che passerà alla storia come il peggior segretario di stato americano, cortigiano del presidente ed incapace di esercitare alcuna leadership internazionale.
Una inquietante appendice della “law and order”, nell’interpretazione trumpiana di pugno di ferro contro i “teppisti”, è il ricorso alla militarizzazione, ossia
l’impiego di forze armate per contenere la marcia di proteste. E’ un terreno di controversia in rapido flusso, all’indomani della partecipazione di militari allo sgombero forzato di manifestanti dinanzi alla chiesa di Lafayette Park e della
dichiarazione del Segretario alla Difesa Esper che definiva quello scenario come “un campo di battaglia”. Non passavano ventiquattro ore che Mark Esper faceva marcia indietro rispetto all’impiego dello Insurrection Act del 1807 invocato da Trump come giustificazione per il dislocamento di forze armate in città americane, anche in mancanza di una esplicita richiesta delle autorità cittadine e dello stato di appartenenza. Esper dichiarava di non approvare il ricorso alle Insurrection Act se non in casi estremi (come “last resort” ossia ultima ratio), una valutazione che a suo dire non sussiste nelle attuali circostanze. Funzionari della
Casa Bianca non tardavano nel riferire l’irritazione del presidente, un chiaro prodromo della liquidazione del Segretario Esper.
In conclusione, non sarà Donald Trump a guidare l’America verso il recupero della pace sociale e della prosperità, una convinzione condivisa dalla parte sana del Paese, pienamente cosciente che Trump sta perdendo il controllo della macchina
governativa. Attendersi un miracolo sotto forma di una conversione del partito repubblicano è futile. Ma la conversione di un numero sufficiente di elettori, nauseati dalla “law and order” di Donald Trump, sarà più che sufficiente a porre fine alla sua presidenza.
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Fonte dell’illustrazione in testa
[…] LA LEGITTIMITA’ DELLA LEADERSHIP, LA VERA CRISI DELL’AMERICA di Marino de Medici – Editoriale di Aladinpensiero online. […]