Che succede?
MESSAGGIO DEI VESCOVI DELLA SARDEGNA
La fede e il futuro del nostro popolo nel tempo della prova
“Consolate, consolate il mio popolo…” (Isaia 40,1)
———————————-
L’America che ferisce, quella da amare. Ora ci vuole un Kennedy
Ferdinando Camon
martedì 2 giugno 2020 su Avvenire.
[segue]
Ho un trauma da smaltire, un doppio trauma, e non ci riesco. Lo stesso doppio trauma ce l’hanno gli uomini e le donne della mia nazione, del mio continente, del mondo. Siamo sotto choc, e non riusciamo a liberarcene. Il doppio trauma è il presidente degli Stati Uniti nascosto nel bunker della Casa Bianca, per paura della folla che lo assediava, e la vista del cittadino americano nero morto sotto le mani della polizia, ucciso non per errore, non per caso, ma coscientemente e lentamente, in un tempo lungo, interminabili minuti e minuti. Ho detto “sotto le mani”, ma dovevo dire “sotto i piedi”. Perché l’uomo che muore è steso a terra, e il poliziotto che lo immobilizza più di ogni altro lo tiene bloccato con un ginocchio sul collo. Cioè: gli strozza il respiro. La vittima glielo dice, ripetutamente: “Non respiro”, ma finché lo dice vuol dire che è viva, e il poliziotto continua a premere, quando non lo dice più vuol dire che sta morendo, e il poliziotto tira via il ginocchio. Troppo tardi. La vittima muore. È un nero, ma a questo punto credo di poter scrivere “un negro”. C’entra la sua negritudine con la sua morte? Purtroppo sì, il poliziotto gli ha fatto quella violenza perché è un negro, e voleva dargli una lezione. Ha perso i nervi, il poliziotto, si tratta di un malaugurato incidente in una biografia integra? Purtroppo no, la biografia di quel poliziotto è già segnata da 18 citazioni in giudizio per atti di violenza. Dove siamo? In America, a Minneapolis. E cosa chiediamo, una rivolta contro le istituzioni, un assalto alle sedi della polizia, la venuta di uomini di legge e di governo estranei alla storia americana? Assolutamente no: ci uniamo a coloro che invocano e aspettano un nuovo Kennedy, come il primo Kennedy, John, o come il secondo, Bob. E non ditemi che Kennedy, primo o secondo, era estraneo all’America. Kennedy “era” l’America. L’America è democrazia ed è civiltà, se noi abbiamo democrazia e civiltà lo dobbiamo all’America.
L’America ci ha insegnato l’importanza dell’informazione e dei media. Se il caso del negro americano strozzato dal poliziotto dilaga sul mondo, non lo dobbiamo a tribunali federali o statali, o a procuratori, lo dobbiamo alle tv: una tv ha ripreso la lunga scena minuto per minuto, secondo per secondo, tutti nel mondo abbiamo sentito l’uomo imprigionato a terra col ginocchio sulla gola rantolare “Non posso respirare”, e abbiamo visto il poliziotto restargli col ginocchio piegato sulla strozza, e attorno a lui tre poliziotti dritti in piedi controllare che la scena andasse verso la sua conclusione. Cioè verso la morte. Dunque i poliziotti parte attiva e parte passiva nello strangolamento del negro sono quattro. Se ci fosse Kennedy, il primo o forse meglio il secondo, tutti e quattro sarebbero stati fermati e rinchiusi. La moglie di quello che ha posato il ginocchio sul collo della vittima ha chiesto subito il divorzio, dice che non può più vivere con un uomo capace di tanta violenza. Alla violenza lo Stato deve rispondere con la giustizia, e un presidente come i Kennedy così farebbe. Ma al posto di un Kennedy c’è un presidente il quale risponde che i dimostranti violenti sentiranno nei polpacci il morso di cani feroci. L’America ha nella sua storia, nella sua cultura, nel suo Diritto la soluzione di questo caso. Ma non è quella dei cani che mordono. È un’altra. Che non soltanto porterebbe questo caso a una soluzione, ma gli avrebbe impedito di nascere. È l’America dei Kennedy. Aspettiamo un nuovo Kennedy. E non è detto che l’attesa sia lunga.
—————————————–
MESSAGGIO DEI VESCOVI DELLA SARDEGNA
La fede e il futuro del nostro popolo nel tempo della prova
“Consolate, consolate il mio popolo…” (Isaia 40,1)
Come Vescovi della Sardegna, in questa stagione della nostra storia inedita e drammatica, che continua a chiedere a tutti – anche in presenza di confortanti segnali di attenuazione dell’epidemia – gesti di responsabilità per la tutela della nostra salute, desideriamo far sentire la nostra voce – concorde e solidale con le nostre Chiese – per interpretare e accompagnare tutte le altre voci che giungono dalle famiglie, dalle realtà associative, dalla scuola e dal mondo del lavoro. Ci sentiamo soprattutto accompagnati dalla voce del Maestro, che ci invita a essere forti nella fede, senza perdere mai la speranza, specialmente nella burrasca. Le nostre voci intendono far riecheggiare nuovamente le parole che papa Francesco, nell’indimenticabile preghiera del 27 marzo scorso in una piazza San Pietro deserta, pronunciò come appello alla nostra fede fragile: «Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai».
Non ignoriamo che anche in Sardegna, dove pure il virus Covid-19 ha avuto una diffusione molto inferiore rispetto ad altre Regioni, le conseguenze siano state evidenti, in particolare per l’esperienza della fragilità personale e collettiva che, accompagnata dalla paura del contagio, ha messo in discussione stili di vita, relazioni interpersonali e consuetudini secolari, alle quali eravamo tradizionalmente abituati. Se si aggiungono, inoltre, gli evidenti riflessi che l’epidemia sta avendo sulla nostra economia e sull’occupazione, intaccando anche il risparmio del nostro popolo e indebolendo la preesistente e fragile situazione della nostra Isola, non è sbagliato affermare che l’emergenza sanitaria sia diventata un’autentica emergenza sociale. Possa l’esperienza della fragilità che abbiamo vissuto e ancora viviamo aiutarci a valutare sempre con sapienza le nostre scelte di vita e i modelli di sviluppo che ci vengono offerti.
Noi Vescovi non siamo né politici né economisti, né tantomeno medici, ma vogliamo – a nome del Vangelo – accompagnare e far risuonare ancora più forti le voci provenienti dalle persone concrete e dai loro bisogni essenziali. Pensiamo alle famiglie, spesso più impoverite e senza un sostegno adeguato; ai ragazzi e ai giovani che hanno vissuto anche un’emergenza educativa, non solo scolastica; ai lavoratori che vivono l’incertezza della precarietà, senza certezze per il futuro; alle imprese, molte delle quali a rischio fallimento e agli anziani, che hanno pagato il prezzo dell’isolamento, diventando spesso vittime involontarie del virus. Pensiamo molto ai poveri, vecchi e nuovi, temiamo per loro perché c’è il rischio che continueranno a vivere nella solitudine, persino nell’abbandono. E non vogliamo dimenticare la realtà delle persone disabili, perché la loro fragilità e il loro disagio sono aumentati ancora di più con l’emergenza sanitaria.
Come Vescovi continuiamo a essere vicini a tutte le persone deboli che vivono nelle famiglie, nelle strutture sanitarie o nelle case di accoglienza, alle loro ferite fisiche, psicologiche e mentali, rinnovando la nostra profonda ammirazione e il nostro ringraziamento per chi si occupa di loro, non solo per un naturale senso del dovere, ma anche per i sentimenti più belli che fanno la differenza quando ci si prende cura degli altri, i sentimenti della passione per la vita.
Sentiamo come nostro compito, dopo aver ripreso con gioia le celebrazioni pubbliche della fede, quello di far rifiorire nel nostro popolo la speranza nel futuro, soprattutto quando ci giungono – talvolta disperatamente – appelli da persone in difficoltà, alla cui attenzione come Chiesa stiamo dedicando tutto il nostro impegno di pastori, insieme ai sacerdoti e ai diaconi, alle religiose, grazie alla generosità dei volontari delle nostre Caritas e dei vari enti che gravitano nel mondo ecclesiale, rispondendo talvolta anche solo ai loro bisogni immediati per affrontare la vita di ogni giorno.
Per questo desideriamo incoraggiare e rafforzare tutte le scelte che riguardano la concreta esistenza delle persone e il loro futuro. Mentre ci difendiamo giustamente dal “virus” che lavora per la morte, siamo però chiamati a sviluppare idee e progetti per un altro “virus”, quello per la vita. Appare necessario che la politica, l’economia, la sanità, la giustizia e la cultura si mettano in gioco, preparando una terapia adatta che consenta al nostro popolo un respiro ampio e rigenerante. Preoccupano invece alcuni sguardi limitati, interventi con il fiato corto e la lentezza nel passare dalle promesse ai fatti, anche a causa di un percorso burocratico esasperante.
Ci sentiamo incoraggiati come credenti anche dalla fede del nostro popolo, dalla memoria di donne e uomini che ci hanno trasmesso esperienze di rinascita e passaggi storici rivelatisi fondamentali per tutta la nostra storia.
In questa stagione altri temi meritano la nostra attenzione e quella dell’opinione pubblica. Il primo riguarda le scuole paritarie, che pur non essendo statali sono comunque pubbliche e non tutte cattoliche, la cui voce in Sardegna si è levata ultimamente per ricordare che promuoverle e difenderle significa tener conto non solo della loro specificità nel campo dell’istruzione, ma anche della necessità di mantenere la loro offerta educativa accessibile alle famiglie, in linea con la Legge n.62 del 2000, che attua l’articolo 33 della Costituzione. Senza dimenticare il valore della loro proposta educativa in una società pluralista come quella attuale e senza sottovalutare il risparmio economico che esse rappresentano per lo Stato.
Sempre nel campo educativo inoltre, insieme agli educatori, attendiamo con fiducia le Linee guida applicative per le nostre comunità e per i centri oratoriani che permettano – fin da questa estate – l’animazione dei bambini e dei ragazzi, veri tesori del nostro futuro. Siamo infatti persuasi della necessità di tornare in modo convinto a investire nell’educazione, favorendo per la scuola la libertà di scelta e assicurando risorse ai diversi settori che si occupano di formare le nuove generazioni.
Una parola desideriamo pronunciarla anche sul tema del turismo. Difficile pensare al futuro della Sardegna senza una salutare scossa che faccia ripartire questo settore. Sosteniamo con vigore l’ambizioso ma necessario impegno di tutti coloro, politici e imprenditori, che hanno manifestato tante idee innovative anche per quest’estate. La nostra Isola, con la sua naturale bellezza e la possibilità di essere una Regione Covid-free, può rappresentare un modello da imitare e contemporaneamente compiere una svolta significativa della sua storia. Importante accompagnarla e favorirla risolvendo finalmente l’annoso tema dei trasporti e contribuendo, con opportune e coraggiose decisioni, a offrire l’immagine di una Sardegna non solo autonoma ma anche accogliente e solidale, modello di una società che sa rigenerarsi e rinnovarsi. Un impegno particolare chiediamo alle comunità ecclesiali, perché offrano un’accoglienza liturgica e spirituale che aiuti ogni turista a rigenerare anche lo spirito.
Due gesti accompagnano questo nostro Messaggio. Uno religioso, con la celebrazione di oggi nella Basilica di Bonaria, la nostra Massima Patrona che imploriamo come Madre premurosa del nostro cammino e l’altro, non meno importante, di condivisione interdiocesana, rivolto al Centro di accoglienza “Il Gabbiano” della Comunità Padre Monti a Oristano, segno della nostra attenzione al mondo della disabilità, al quale doniamo 30 mila euro per dotarlo di adeguati presidi sanitari.
Che Dio ci benedica tutti, mantenendoci nel suo Amore.
Cagliari 2 giugno 2020
I Vescovi della Sardegna
Lascia un Commento