Solo l’eguaglianza ci può salvare

micomega-3-20Uguaglianza, democrazia e coronavirus

di Gianfranco Sabattini

MicroMega ha dedicato quasi per intero il numero 3/2020 ai problemi sociali insoluti che l’emergenza coronavirus è valsa, in molte società democratiche ad economia di mercato, a riportare drammaticamente all’attenzione della classe politica e, in generale, dell’opinione pubblica. Di particolare interesse è il confronto di idee svoltosi, con riferimento all’Italia, sul problema del “legame indissolubile fra democrazia ed uguaglianza”, tra il direttore del periodico, Paolo Flores d’Arcais, da un lato, e Gustavo Zagrebelsky, dall’altro. I due interlocutori, troppo noti per indulgere sulla loro presentazione, sono del parere che il problema irrisolto dell’eguaglianza “portato in superficie” dalla crisi pandemica debba essere prioritariamente affrontato; le loro argomentazioni critiche (riportate in “Solo l’eguaglianza ci può salvare”) sono concentrate sulle implicazioni della mancata soluzione di tale problema, destinate a pesare negativamente sull’immediato futuro. [segue]
A parere di d’Arcais, “la lezione da trarre da quanto avvenuto finora, rispetto ai problemi che si porranno in un futuro immediato o meno immediato”, deve essere quella della rimozione dell’ineguaglianza; una lezione che l’establishment politico ha sempre stentato ad imparare, per la cecità a percepire i pericoli impliciti nella sua insufficiente azione. Non è casuale che gli avvertimenti relativi allo scoppio della pandemia non siano stati colti per tempo, nonostante da anni le autorità sanitarie internazionali prevedessero l’alta probabilità del suo verificarsi. A cosa è dovuta – si chiede d’Arcais – la cecità della classe politica a percepire i pericoli intrinseci ai problemi sociali irrisolti ereditati dal passato?
La risposta del direttore del periodico è che l’ideologia neoliberista degli ultimi decenni e le conseguenti pratiche di governo hanno comportato che i problemi connessi all’approfondirsi delle disuguaglianze distributive non potessero essere visti e correttamente valutati, in quanto non entravano nel “campo visivo” delle forze di governo, dovendo essere considerati “al massimo ipotesi di scuola”; è stato questo “accecamento ideologico”, protrattosi nel tempo, che ha impedito alla classe politica italiana di cogliere i pericoli del contagio pandemico. Se non quando la pandemia non ha assunto una dimensione sociale tale da allertare l’intera popolazione.
Ciò è accaduto perché – sottolinea d’Arcais – la classe politica si è assuefatta, negli ultimi decenni, “all’idea che la società debba essere quella affermata dall’ideologia, cioè un società in cui il welfare è un nemico, un peso, un costo anziché un investimento”; per cui, quando è scoppiata la pandemia, non si è riusciti a far fronte ai suoi esiti distruttivi, per l’insufficienza delle strutture sanitarie, in quanto tanti anni di tagli del welfare hanno essenzialmente colpito, in tutto l’Occidente apertosi alle idee neoliberiste, sia la sanità che la scuola.
In particolare, con riferimento alla sanità, i “tagli” della spesa pubblica hanno impedito che si provvedesse ad accumulare lo stock di strumenti sanitari necessari per affrontare le emergenze. Sacrificando il welfare, si è limitata la democrazia sociale, ignorando che il sistema di protezione dell’intera società non era un “di più” rispetto alla democrazia, ma “qualcosa di assolutamente necessario rispetto al suo funzionamento”.
La crisi della democrazia, in gran parte dei Paesi dell’Occidente, è infatti la conseguenza – afferma d’Arcais – dei tagli portati al welfare sotto la diretta influenza dell’ideologia neoliberista, che ha fortemente compromesso il regime democratico. E’ per questo motivo che l’affermazione secondo cui “solo l’eguaglianza ci può salvare” non deve essere intesa come uno slogan, ma come una necessità ineludibile, se si vuole evitare il collasso della democrazia; perché questa funzioni occorre che sia arricchita da “determinati ingredienti di eguaglianza”, convincendoci che essa non ha solo un significato formale e procedurale.
Per evitare che la democrazia sia ridotta a sola procedura, occorre arricchirla, oltre che di ingredienti di eguaglianza, anche di rappresentanti politici dotati di “caratura etico-politica”. Negli ultimi decenni, si è invece assistito alla formazione di personale politico che non ha “abbracciato l’attività politica come servizio civile”, ma ha supportato la propria carriera politica in base a meccanismi di selezione avversa che “hanno inevitabilmente condotto, di generazione in generazione, a una sempre maggiore mediocrità” dell’azione politica, legata unicamente a giochi di apparato.
Il problema che si impone oggi in Italia è, perciò, quello di trovare meccanismi di scelta del personale politico, idonei ad evitare gli esiti della selezione avversa, perché i rappresentanti dell’elettorato siano, oltre che sensibili, competenti nell’affrontare il problema dell’eguaglianza distributiva, la cui soluzione richiede un diverso approccio al governo del sistema economico. Rilanciare l’economia significa capovolgere però “completamente quello che è stato l’orizzonte oltre il quale in questi 30-40 anni non si è andati, quelli del neoliberismo”. A tal fine, secondo d’Arcais, occorre una classe politica che sia dotata dell’”audacia di operare a favore dell’eguaglianza contro chi ha troppo”, perché diventi possibile offrire alle generazioni future una democrazia che sia autenticamente sociale, cioè del welfare, in grado di accrescere sempre più l’eguaglianza; condizione, questa, imprescindibile se si vuole assicurare al sistema sociale la continua e costante capacità di dotarsi delle infrastrutture necessarie al affrontare razionalmente i rischi futuri.
Anche Zagrebelsky sottolinea l’insufficiente azione politica, mirata solo a contenere la rabbia sociale; di fronte al problema irrisolto della giustizia sociale; lasciando irrisolto il problema dell’equità distributiva, è stato inevitabile che gli interventi politici a sostegno delle famiglie in un periodo di emergenza, come quello che il Paese sta vivendo dopo lo scoppio della pandemia, abbia teso a ridursi a carità. Rispetto al futuro, a causa della disuguaglianza – secondo Zagrebelsky – si deve perciò temere il rischio che la classe politica posr-pandemica tenda ad aumentare la “dimensione caritativa” della propria azione. In tal modo sarà inevitabile l’allargamento della disuguaglianza sociale, per cui la politica tenderà sempre più ad aumentare la sua azione caritatevole, trascurando il fatto che “sulla carità si basa il paternalismo, mentre la democrazia si basa sui diritti”.
Se c’è un momento in cui bisognerebbe parlare do eguaglianza e di giustizia sociale, quello che stiamo vivendo è quanto mai appropriato, poiché diventa possibile giustificare l’introduzione nel sistema fiscale di una “patrimoniale emergenziale [...], in nome della solidarietà e della fratellanza”; il tema ò stato sollevato, dopo lo scoppio della pandemia, ma dal mondo della politica si è avuta solo una levata di scudi in pro di coloro che negli ultimi decenni hanno accumulato ingenti patrimoni.
Si sostiene – nota Zabgrebelsky – che “siamo in guerra”; se cosi è, si deve allora presupporre l’esistenza di un nemico che nella situazione distruttiva creata dalla pandemia dovrebbe essere il Covid-19; piuttosto che nel virus, forse sarebbe più opportuno chiederci se il nemico non debba essere individuato in noi stessi, per cui, non è tanto necessario combattere una guerra, quanto cercare “di capire, come hanno iniziato a fare gli scienziati, se le pandemie nascano anche da un’incrinatura dell’ecosistema”. Diventerebbe così possibile specificare meglio in che senso “siamo in guerra, evidenziando come il nostro nemico stia nel degrado dissennato degli ecosistemi, nella spoliazione delle risorse della natura”.
La cecità della classe politica impedisce però che si prenda atto di questo problema; ciò è dovuto al fatto che il personale politico si è ridotto, per le ragioni indicate da d’Arcais, a inseguire il consenso quotidiano, informando la propria azione al presentismo (cioè alla preoccupazione di far fronte solo all’emergenza del contingente), anziché al perseguimento di fini intesi “come idea generale costruita intorno a una qualche aspirazione alla giustizia, all’uguaglianza”. In questo modo, la capacità della politica di guardare in prospettiva si scontra con l’esigenza di “continuare a fare propaganda, una propaganda a caccia di un consenso immediato”.
Accade così che le categorie giuridico-politiche che si usano assumano un significato diverso a seconda che vengano utilizzate da chi “sta meglio” rispetto a chi “sta sotto nella scale sociale”: per chi sta meglio, la democrazia è un regime che, sulla base del consenso acquisito attraverso i mezzi di cui si dispone, permette di fare quello che si vuole; mentre, dal punto di vista di chi sta in basso nella scala sociale, la democrazia è “una richiesta di partecipazione”, la quale implica di per sé “un restringimento, un controllo, una contestazione della libertà di quelli che stanno in alto”. Ora, in una situazione sociale di grandi disuguaglianze, in assenza di adeguati controlli delle propensioni di chi sta meglio e di una inadeguata partecipazione di chi sta peggio alle decisioni politiche, la libertà garantita dalla democrazia riserva a chi sta in alto nella scala sociale il godimento dei diritti democratici molto più intensamente di quanto è consentito a quelli che stanno in basso.
Persistendo le disuguaglianze distributive, osserva Zagrebelsky, si dovrebbe fare attenzione a non usare le categorie giuridico-politiche in modo da nascondere “la radice dei nostri problemi” principali, qual è quello della disuguaglianza (rispetto, ad esempio, alla sopravvivenza fisica dell’essere umano, o alle dotazioni culturali). Questi problemi, strettamente legati “al tema della giustizia e, con la giustizia, alla democrazia”, sono centrali e riguardano la libertà e l’eguaglianza; a differenza della fratellanza (libertà, uguaglianza e fratellanza sono i tre pilastri sui quali è fondata le democrazia moderna), essi possono essere declinati “in termini formali”, in termini cioè di legislazione, (ovvero in termini giuridico-politici); la fratellanza, invece, essendo un atteggiamento etico, può essere affermata attraverso una cultura aperta al riconoscimento della irrinunciablità dello Stato sociale, del welfare, del patto tra capitale lavoro, al quale si devono i risultati conseguiti nel trentennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, in cui i diritti di chi stava peggio sono stati oggetto di un’attenzione politica maggiore.
Per realizzare una politica realmente orientata alla tutela dei diritti dei più deboli nella scala sociale – conclude Zagrebelsky – non va dimenticato il posto che deve essere riservato alla cultura ed alla scuola.

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