Coronavirus. Pensare, analizzare, agire. Il contributo dei redattori della rivista Rocca, della Pro Civitate Christiana di Assisi su ANZIANI, DISUGUAGLIANZE, MIGRANTI, SCIENZA
ANZIANI
gli scarti di un sistema
di Ritanna Armeni su Rocca.
E’ stata la presidente della commissione europea Ursula Von der Lyen a lanciare per prima l’idea.
Per combattere efficacemente i coronavirus è bene che gli anziani rimangano in quarantena fino alla fine del 2020. Non è chiaro se per anziani si intende chi ha superato i sessantacinque o i settanta anni di età, ma l’idea è piaciuta anche in Italia. Sono due mesi che il paese è fermo, è necessario riprendere l’attività produttiva, allentare le prescrizioni, ma occorre farlo gradualmente e allora – si dice – restino a casa gli anziani, quelli che sono più deboli, più soggetti alla malattia e alla morte.
Parte consistente dell’opinione pubblica ha approvato. Sì, gli anziani a casa. Gli altri fuori a lavorare o a cercare un lavoro, a studiare, a viaggiare, i più vecchi possono farne a meno. In fondo che cosa costa un altro po’ di carcere domiciliare a chi non è produttivo?
C’è voluto poco e quella che sembrava un’ipotesi come tante si è trasformata in un dibattito aspro e cattivo.
L’ipotesi di tenere a casa ancora per qualche mese gli anziani è diventata in parte dell’opinione pubblica necessaria e utile; il motivo della scelta è pian piano cambiato: non più la protezione della loro debolezza, ma la loro inutilità, anzi il danno che possono procurare al già debole stato sociale del paese.
Soprattutto nei social che – piaccia o meno – sono in gran parte lo specchio del paese.
In essi si riflette la gente per quello che è, fuori da ogni mediazione culturale, quindi anche con le brutture, gli eccessi, le forme d’inciviltà. E nei social il dibattito si è sviluppato con virulenza, la verità si è trasformata nel suo contrario, la polemica è dilagata.
Gli anziani da soggetti da proteggere si sono trasformati in pericolosi portatori del contagio, da vittime di un sistema sanitario, evidentemente impreparato e non all’altezza, in pericoli per la salute degli altri, dei giovani, dei produttivi.
Se si ammalano – qualcuno ha detto – occupano un posto in terapia intensiva e lo tolgono ai giovani. Gli ospedali devono essere decongestionati, i vecchi devono lasciare il posto.
Il fatto che gli anziani aspirino, come tutti alla libertà di movimento, a godere di una primavera o di un estate, a frequentare librerie, è segno di egoismo.
Fatto il primo passo se ne sono fatti altri. I vecchi che vogliono uscire e che vorreb- bero, come dice la Costituzione, avere gli stessi diritti e doveri di tutti i cittadini, sono stati trasformati in facili bersagli. Hanno avuto già tutto, si è detto: il lavoro che oggi scarseggia, i diritti che sono stati quasi del tutto annullati, la pensione che i precari se la sognano.
E poi ancora. Hanno distrutto il paese portando il debito a livelli insopportabili. Sono state le cicale del benessere e ora sono diventati i parassiti della crisi.
Per un curioso cortocircuito che si verifica spesso nelle vicende italiane, i fautori de «gli anziani a casa» non hanno cercato l’obiettivo vero delle proprie difficoltà, frustrazioni e disperazioni, hanno individuato quello più a portata di mano. E anche se non è giusto pazienza.
È avvenuto altre volte, anzi avviene quasi sempre. Non siamo ancora usciti da anni in cui i danni e le tragedie prodotte da una globalizzazione senza controllo poli- tico e sociale sono stati attribuiti alla corruzione della politica e poi alla politica tout court. Le conseguenze le paghiamo ancora. Ci sono stati anni in cui un pensiero mainstream, anche di sinistra, ha contrap- posto i garantiti, anche quando erano lavoratori manuali con salari bassissimi ai non garantiti, i giovani disoccupati. E questo è bastato per renderci ciechi sulle vere cause della fine di tante importanti garan- zie sociali. Per non capire che la disoccupazione era fatto strutturale su cui inter- venire e non una contrapposizione fra salariati e disoccupati.
Poi è venuto il momento in cui si sono contrapposti gli onesti e laboriosi italiani agli immigrati parassiti pur di non affrontare e risolvere i problemi epocali dell’immigrazione. Potrei continuare. Oggi si tirano in ballo gli anziani per nascondere i fallimenti della lotta all’epidemia, le man- canze enormi del servizio sanitario nazionale, l’incapacità di reazione immediata al virus della comunità scientifica, la mediocrità della classe politica, i ritardi e soprattutto le difficoltà di una ripresa economica e sociale in un paese in ginocchio. Quando s’iniziano queste guerre il primo a morire è il buon senso. Si dimentica ad esempio che l’epidemia è dilagata proprio nelle zone produttive del paese, dove i contatti e quindi i contagi sono maggiori e gli anziani ne sono stati vittime anche se loro presumibilmente non frequentavano i luoghi di maggior contagio. Che sono morti perché più deboli in un paese che non ha saputo curarli. Sì, il buon senso sparisce e lascia posto alla ricerca del nemico chiunque esso sia, purché vicino e ci eviti lo sforzo di pensare un po’ di più, di acuire il nostro senso critico, di guardare alla realtà. È più facile essere cattivi che intelli- genti. Ed è facilissimo essere cattivi quando il terreno è stato ampiamente preparato. Sono anni che in Italia i politici al governo – tutti i governi – attaccano i cosiddetti privilegi degli anziani, che riducono le loro pensioni, che li indicano come i privilegiati di un sistema di garanzie, che contrappongono la loro vita «facile» e sicura a quella precaria e incerta dei giovani.
Sono anni. È stato comodo, molto comodo. Adesso un altro passo è stato fatto. Sono diventati pericolosi per la salute, scarti di un sistema che per andare avanti deve metterli da parte.
Non vi chiedete più per favore se da questa tragica epidemia usciremo migliori o peggiori. È evidente che siamo già peggiori.
Ritanna Armeni
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DISEGUAGLIANZE
il virus
non colpisce tutti in modo uguale
di Roberta Carlini su Rocca
Inizialmente si era pensato a un virus che agiva come «a livella» di Totò, e che eravamo tutti uguali davanti al nemico sconosciuto, senza differenza tra ricchi e poveri. Anzi, una prima mappa della geografia del virus «privilegiava» le regioni più economicamente interconnesse, dalla metropoli industriale di Wuhan al fitto tessuto produttivo del Nord Italia. E poi, metropoli internazionali come Milano, Londra, New York in ginocchio. Manager, grandi attori, registi, intellettuali, usi a viaggiare per eventi, conferenze, commerci. Ma questi erano solo i vettori della diffusione di un virus destinato a colpire, oltre che il cuore, i meccanismi stessi della globalizzazione, che già era in pericolo per l’ondata di sovranismi e protezionismi, e adesso è minata dalla rottura di quelle «catene mondiali del valore» che caratterizzano l’economia dei giorni nostri. La risposta all’interrogativo sull’impatto del virus sull’altra grande malattia del nostro tempo, ossia la diseguaglianza, sta altrove. E va data in tre parti, cercando di capire quanto le diseguaglianze influiscono sulla letalità del Covid 19; qual è l’effetto delle politiche di contenimento della pandemia (i «lockdown») sulla diseguaglianza; e cosa succederà con l’arrivo della recessione mondiale che ne consegue.
la diseguaglianza da virus
Dei malati di Covid 19 in Italia non sappiamo niente. È vero, ogni giorno sono stati forniti i dati ufficiali, nel rito della conferenza stampa della Protezione civile delle 18. Ma erano solo i numeri sui tamponi, i contagia- ti, i guariti, i morti. Altri dati sono forniti dal ministero della salute, e ci dicono qual è l’età media dei deceduti (79 anni), la loro distribuzione per sesso (i due terzi sono uomini), la presenza di patologie pregresse al momento del ricovero (il 61,3% aveva altre 3 malattie, e solo il 3,6% non aveva alcuna altra patologia), la distribuzione geografica. Delle condizioni socio-economiche non sappiamo nulla. In altri posti questi dati sono disponibili: per esempio a Londra si sa che i quartieri più poveri hanno il triplo dei contagiati di quelli più benestanti. Una mappa del contagio – oltre che delle morti – che desse conto anche del lavoro, del titolo di studio, del reddito, della proprietà di case, o almeno della area di residenza, sarebbe molto utile, sia a scopi epidemiologici che per capire se il virus ha colpito maggiormente i più poveri.
Qualcosa però si può dedurre, dalle poche informazioni che abbiamo. La concomitanza di malattie pregresse è una di queste: la presenza di malattie croniche sale, ovviamente, con l’età, ma è legata anche alla condizione sociale delle persone. Come hanno notato i sociologi Giuseppe Costa e Antonio Schizzerotto, per esempio, «a Torino nel 2018, a sesso ed età identici, le persone con diabete di tipo 2 (una delle malattie croniche fortemente predisponenti per un esito infausto del contagio) ammontavano al 4,5 per cento dei laureati e al 13 per cento dei soggetti con la scuola dell’obbligo». Il legame tra la speranza di vita, la salute e la condizione socio-economica – dimostrato da molta letteratura scientifica – è evidente anche nella media generale che qualche tempo fa ha fornito l’Istat, secondo la quale la speranza di vita «si allunga» di tre anni per gli uomini laureati. Non abbiamo dati neanche sulle condizioni economiche degli anziani contagiati e morti nelle case di riposo – uno degli epicentri della tragedia del coronavirus, in Lombardia ma anche in tanti altre parti del mondo –, ma sappiamo che, almeno per l’Italia, nella maggioranza dei casi gli anziani che possono permettersi di mantenere una casa e un/una badante di solito preferiscono questa soluzione a quella della casa di riposo. Molto probabilmente, quando avremo dati più chiari e certi scopriremo quello che dalle cronache si può intuire, ossia che l’arrivo e la diffusione del virus possono essere casuali, ma la capacità di difendersi dal virus non è uguale per tutti. In altre parole, i più poveri sono più vulnerabili. E solo grazie alle rigide misure di distanziamento sociale decise il 9 marzo non abbiamo assistito – per fortuna – all’azione di un altro tipo di diseguaglianze, quelle territoriali: poiché il virus non è «sbarcato» in massa al sud, dove le condizioni di salute degli anziani sono mediamente peggiori, e dove la capacità degli ospedali di reggere l’urto sarebbero state ancora inferiori.
la diseguaglianza da lockdown
Un altro misuratore della «diseguaglianza da Covid» è legato proprio al «lockdown», ossia alla chiusura di attività e produzioni, scuole e università. L’Istat ne ha quantificato la portata sull’economia: dal 9 marzo ha chiuso i battenti il 34% della produzione, per un totale di circa 8 milioni di occupati (un terzo degli occupati totali in Italia). La chiusura ha avuto un impatto diverso a seconda delle varie situazioni: c’è stato chi ha perso una parte delle sue entrate – perché rientrava nelle categorie protette dallo scudo della cassa integrazione o dell’indennità di disoccupazione, che il governo ha allargato –, chi ha perso tutte le sue entrate – perché aveva un contratto a termine non rinnovato, o forme di lavoro ancora più precarie fino al «nero» –, chi ha perso anche l’investimento che aveva fatto nell’attività chiusa. Il Forum Diseguaglianze e Diversità ha fatto una stima del lavoro «fragile», quello più colpito dal lockdown e non protetto abbastanza dalla sicurezza sociale: in totale, 9-10 milioni di persone. Si tratta di lavoratori a termine, in somministrazione, a partita Iva, piccoli imprenditori di settori «non resilienti», ossia non in grado di reggere l’urto delle mancate entrate per un periodo così lungo. La conclusione è nell’aumento delle diseguaglianze da lavoro, ossia quelle che già c’erano tra persone che comunque lavoravano, non erano nella fascia «tradizionale» della povertà.
Ma di questi aspetti economici del lockdown si è discusso molto, anche se non sempre con decisioni conseguenti: gli ammortizzatori sociali, pur debitamente aumentati, non sono riusciti a coprire tutti. Eppure quegli strumenti, lascito del welfare del secolo scorso, si sono rivelati utili e maneggevoli, anche se ovviamente molto costosi per le finanze pubbliche.
Si è pensato meno, e si hanno meno stru- menti a disposizione, per un altro tipo di diseguaglianza enormemente esasperata nelle settimane in cui siamo stati tutti chiusi in casa. Quella che passa per le stesse mura di casa, gli spazi, le dotazioni; e quella che ha colpito i più giovani e piccoli, i ragazzi e i bambini che non sono potuti andare a scuola. In questo caso il virus è stato tutt’altro che «la livella» di Totò, ha colpito proprio in basso. Le nostre case non sono tutte uguali, e non solo per bellezza, ariosi- tà, presenza di un giardino o un terrazzo: parliamo delle condizioni di base, dello spazio. Nella media, oltre un quarto delle famiglie italiane – dice l’Istat – vive in sovraffollamento abitativo. La quota sale al 41,1% per le famiglie nelle quali ci sono minori. Che non avevano «una cameretta tutta per sé», e a volte neanche da condividere solo con il fratello o la sorella, per collegarsi con la maestra e fare lezione. A proposito: la stessa indagine dell’Istat dice che il 14,3% delle famiglie con almeno un minore non ha a casa un computer o un tablet. La scuola a distanza, bellissimo esperimento nel quale molti hanno scoperto qualcosa di nuovo e che potrà tornare utile in futuro, per almeno un decimo dei nostri studenti è semplicemente impossibile. Per- ché non hanno computer, o rete, o spazio vitale. La chiusura delle scuole, misura sanitaria obbligata, è da questo punto di vista un’ingiustizia sociale prima ancora che un pericolo educativo: e colpisce il fatto che nei dibattiti sui pro e contro della riapertura pochissimi abbiano parlato di scuola, e anzi che sia stato accettato in assenza di un qualsiasi dibattito pubblico il fatto che le scuole riapriranno per ultime, a settembre.
la diseguaglianza da recessione
In passato, per precedenti epidemie o choc, si è parlato di un effetto inverso sulla diseguaglianza: eventi tragici come pandemie e guerre storicamente hanno ridotto le diseguaglianze poiché, causando una riduzione della forza lavoro, hanno fatto poi salire i salari al momento della ripresa. Molti economisti prevedono che stavolta non sarà così. Non solo per quanto detto finora – i primi effetti del virus e del lockdown – ma perché le previsioni sulle conseguenze economiche della pandemia contengono numeri senza precedenti. Quel che si teme è una recessione prolungata e profonda, che dunque lascerà senza lavoro molte persone e per molto tempo. Ridisegnerà interi settori economici, e – se le cose vanno bene – se ne uscirà con produzioni diverse o diversamente organizzate e lavori «nuovi», ma nella transizione molti potrebbero restare incastrati. La capacità e le risorse dei vari livelli di governo saranno determinanti, così come le capacità e le risorse individuali – che dipendono dal talento, ma anche e soprattutto dal «capitale familiare», dall’istruzione ricevuta, da quella che ci si potrà permettere di conquistare in tempi di crisi. Tutti motivi per ritenere che la recessione post-pandemia (o in corso di pandemia) può far deflagrare il problema della crescente diseguaglianza, a meno che non entrino in gioco potenti meccanismi di redistribuzione del peso e del rischio. Come ha scritto l’economista Maurizio Franzini, uno dei maggiori studiosi della diseguaglianza in Italia, «le politiche, a tutti i livelli, dovranno essere estremamente attente a frenare i rischi di aggravamento delle dinamiche che negli scorsi decenni hanno prodotto crescente disuguaglianza nei mercato e che possono trarre perverso alimento dalla pandemia, che di certo non produrrà un automatico miglioramento delle disuguaglianze. Se quelle politiche mancheranno il futuro per i ‘poveri’ potrebbe essere perfino peggiore del loro passato».
Roberta Carlini
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MIGRANTI
una risorsa fondamentale
di Fiorella Farinelli
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La parola sanatoria nessuno ha il coraggio di pronunciarla, forse neppure di pensarla. Ma un varco, in questi giorni, sembra essersi finalmente aperto con una proposta di legge promossa dal Ministro dell’agricoltura. Parziale, certo, rispetto ai 600mila immigrati «clandestini» che ci sono oggi in Italia, quelli senza carte di soggiorno perché da anni mancano processi di regolarizzazione, quelli a cui è stato negato l’asilo e poi anche, grazie al primo Decreto Sicurezza, la protezione umanitaria. Ma in verità un po’ deludente perché le motivazioni dichiarate nel testo appaiono ispirate a ragioni di pura e semplice convenienza: nonostante i ghetti, il lavoro nero, l’esposizione di una così prolungata e disperata marginalità a mille rischi, dalla tentazione della criminalità al contagio da Covid-19. Se oggi la politica torna a parlare di regolarizzazione, se una proposta legislativa interministeriale (Agricoltura, Interni, Giustizia, Economia, Lavoro) la mette finalmente all’ordine del giorno, è infatti solo per scongiurare il pericolo, molto prossimo e concreto, che con l’imprevista carenza nelle campagne di lavoratori stranieri stagionali comunitari ed extracomunitari vada a male una parte consistente del raccolto di frutta e verdura della primavera e dell’estate, dalle fragole alle arance, dai piselli agli asparagi, fino all’uva dell’autunno. Da Nord a Sud, da Saluzzo, Trento, Verona a Rosarno e a Ragusa. Il meglio della nostra filiera agroalimentare, una delle poche in grado di prosperare anche in tempi di pandemia. Una perdita, secondo il presidente della Coldiretti, che ammonterebbe al 40% del prodotto. Anche qui la causa è il maledetto virus, perché sono state la paura del contagio e la chiusura di tantissime attività produttive e commerciali a spingere moltissimi romeni, albanesi, polacchi, moldavi a rientrare precipitosamente nei loro paesi, e perché la chiusura delle frontiere e il blocco dei voli impediscono ora di far arrivare altri stagionali dall’Africa e dall’Asia. Come si fa a rimediare? Dove si possono trovare i 270, forse 300mila che mancano all’appello dei raccolti? È così che tocca ricorrere in extremis agli «invisibili», proprio quelli che fino a un giorno prima della pandemia, non solo per Salvini ma per milioni di italiani, dovevano solo essere tutti quanti rispediti il prima possibile a «casa loro». Impresa poco praticabile allora, come si è avuto tutto il tempo di verificare quando ministro dell’interno era Matteo Salvini, e oggi scivolata palesemente nel regno dell’impossibile.
proposta di legge
Ma il varco che si sta profilando con la proposta promossa dal ministro Teresa Bellanova, e insistentemente richiesta nelle ultime settimane da associazioni di imprese e organizzazioni sindacali della filiera dell’agricoltura, si deve comunque apprezzarlo, e sostenerlo con decisione contro l’immancabile tempesta di contrarietà scatenata o minacciata da sovranisti e xenofobi di ogni risma. Intanto perché con la sua approvazione si aprirebbe per la prima volta dopo anni una faglia in quell’insostenibile clima politico/governativo per cui, per evitare che governi Salvini, si finisce per fare o non fare come vuole Salvini. E poi perché, proponendo di rilasciare un permesso di soggiorno a chi è disposto e trova lavoro nei campi (e negli altri due importanti comparti dell’allevamento e dell’acquacultura), la proposta afferma in un colpo solo due verità. Entrambe decisive, sebbene scomode, per far ragionare un Paese che sull’immigrazione e anche su altri temi ha da tempo perso la bussola, e persino la capacità di guardare in faccia la realtà. La prima è che, piaccia o meno, degli immigrati e del loro lavoro abbiamo un gran bisogno, di sicuro in un settore strategico come l’agroalimentare, ma poi forse per analogia anche in altri, per esempio quelli dei servizi domestici alle persone e delle costruzioni. La seconda è che solo eliminando le condizioni di ricattabilità assoluta di chi è stato finora colpevolmente lasciato senza diritti, si può venir fuori dalla vergogna di un Paese che, pur dicendosi democratico, ha accettato l’esistenza di una vasta area di lavoro servile e ne ha pure approfittato. Con tutto quel che inevitabilmente ne segue, fiorenti caporalati inclusi. E pazienza se da contratti finalmente regolari con persone finalmente regolarizzate dovessero derivare, oltre a nuove e sempre benedette entrate fiscali, anche qualche meno gradita lievitazione dei prezzi della frutta e della verdura per i consumatori. Se la cosa andrà in porto, sarebbe dunque un passo avanti notevole. Fatto sotto la spinta di un’emergenza, circoscritto a un solo comparto di lavoro, ma capace forse di favorire da subito e in futuro qualche tassello di possibili strategie sensate di integrazione. Alloggi dignitosi, per esempio, almeno come quelli che, un secolo fa, si predisponevano per le mondine, sistemi di «accoglienza diffusa» invece dei mastodontici Centri preferiti da Salvini, assicurazione contro gli incidenti sul lavoro, accesso ai medici di base e al servizio sanitario. E poi la possibilità, dopo un primo permesso di soggiorno per lavoro, di ottenerne altri.
Ma la partita, bisogna saperlo, è ancora molto aperta, e dall’esito tutt’altro che certo. Una parte delle imprese preferirebbe infatti la strada (finora fortunatamente stoppata da un netto rifiuto dei sindacati) della reintroduzione in agricoltura di voucher per utilizzare, invece che migranti stranieri regolarizzati retribuiti con salario contrattuale, meno costosi italiani cassaintegrati o non occupati percettori di altre indennità, mentre è significativo che, resa finalmente pubblica la proposta Bellanova, in ambienti della destra ci sia oggi chi per contrastarla sostiene che spaccarsi la schiena sotto il sole per raccogliere pomodori sarebbe improvvisamente diventato desiderabile per un gran numero di giovani italiani senza lavoro, anche studenti, anche laureati. Poco credibile, anche ai tempi del Coronavirus, che siano in tanti gli italiani disposti a farlo per più di una settimana o due, spostandosi magari da dove risiedono in altre località, ma dà l’idea degli ostacoli che continuano ad esserci, sia all’approvazione del testo così com’è sia a una sua coerente ed evolutiva attuazione.
diritto alla sanità e ai servizi pubblici
Vedremo. Fa comunque riflettere che in Portogallo, un Paese che sebbene più povero e arretrato di altri sta dando ottime prove nel contrasto del contagio, si sia deciso lo scorso 30 marzo di concedere un permesso di soggiorno fino al 1° luglio a tutti i «sans papier» che ne hanno fatto richiesta, e anche ai richiedenti asilo che chiedono di accedere ai servizi sanitari, una popolazione che sfiora, come da noi, le 600.000 unità. «In questa emergenza, ha dichiarato la ministra degli Interni portoghese Claudia Veloso, le persone non devono essere private del diritto alla sanità e ai servizi pubblici, e non ci si può permettere di avere sul proprio territorio persone che sfuggano al monitoraggio sanitario delle autorità». Un approccio impeccabilmente democratico ed efficacemente pragmatico, che per venire a capo delle contrarietà fa leva su quello che tutti in questa fase già sanno o devono essere aiutati a capire, cioè che dal pericolo del contagio e della malattia ci si può salvare solo dando a tutti le stesse possibilità di salvarsi. Un buon senso ancora troppo debole in Italia, e raramente espresso da chi, avendo ruoli istituzionali, avrebbe anche la responsabilità di usare argomenti capaci di guidare i cittadini verso il bene comune. Eppure è evidente che negli insediamenti informali, nei grandi Centri di accoglienza e in quelli per chi è destinato ad essere rimpatriato ci sono condizioni di vita che rendono impraticabili le misure di distanziamento sociale e le precauzioni igieniche. E che sono troppe, e troppo pericolose per sé e per gli altri, le persone che, in quanto prive di residenza anagrafica e di documenti, non hanno un medico di base, non possono rivolgersi a servizi sanitari se non di pronto soccorso, e hanno comunque paura di farlo. Un’emergenza nell’emergenza che è stata autorevolmente segnalata, già diverse settimane fa, da centinaia di associazioni con un appello che segnala il pericolo e propone tutta una serie di interventi per limitarlo. Ma anche nel dibattito pubblico sulle misure da adottare per uscire gradualmente dal lockdown, di tutto ciò non si parla, come se l’invisibilità di 600mila e più persone, e quindi anche la non tracciabilità di gran parte di loro, fosse un dettaglio del tutto trascurabile. Una cecità di cui potremmo pentirci amaramente, nella fase che ci aspetta di lunga convivenza con un virus per cui non ci sono ancora né terapie efficaci consolidate né vaccini.
È anche per questo che il provvedimento Bellanova ha un peso politico che va oltre l’obiettivo dichiarato della salvaguardia dei raccolti e del ripristino della regolarità e della dignità del lavoro in agricoltura. Non è un caso che, mentre dalla destra più sguaiatamente xenofoba vengono critiche e minacce, da altre parti si stia invece ragionando sull’introduzione di regolarizzazioni anche in altri comparti essenziali del lavoro, a partire da quello dei servizi domestici, le colf e soprattutto le preziosissime badanti che assistono anziani e disabili non autosufficienti. Una risorsa fondamentale di lavoro e di umanità in un Paese dove le residenze sanitarie per anziani si sono trasformate in focolai di infezione, con migliaia di morti. Ma sarà davvero approvato il provvedimento Bellanova?
Fiorella Farinelli
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SCIENZA
il virus
e l’inquinamento dell’aria
di Pietro Greco su Rocca
Il sasso nello stagno lo hanno gettato i medici della Società italiana di medicina ambientale insieme a un gruppo di ricercatori delle università di Bari e Bologna: la diffusione del virus Sars- CoV-2 potrebbe essere accelerata dal particolato – le famose PM10 e PM2,5 – con una duplice e micidiale azione: da un lato quella di booster, di amplificatore, degli effetti dell’attacco virale sulle vie respiratorie, dall’altro quello di vero e proprio carrier, di veicolo in grado di trasportare l’agente patogeno.
Una tesi in apparenza credibile: l’epidemia non è forse scoppiata in centri come la città cinese di Wuhan, la Lombardia in Italia, New York negli Stati Uniti, tutti luoghi ad alto tasso di inquinamento da particolato solido?
E non è forse vero che, in un rapporto firmato da ricercatori dell’università di Harvard, si rileva che la mortalità da Covid-2019 è maggiore del 15% tra la popolazione è esposta, nel lungo termine, all’aumento di 1 ìg/m3 (microgrammo per metro cubo) della concentrazione atmosferica di PM2.5? Queste domande, dalla risposta in apparenza scontata, contengono un pericolo, ben evidenziato da Fabrizio Bianchi, responsabile dell’Unità di epidemiologia ambientale dell’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr di Pisa: «Occorre sempre tener presente che la Covid-2019 è una malattia virale, dunque trasmissibile da uomo a uomo. E i primi determinanti di una malattia trasmissibile sono i contatti tra le persone. Facciamo attenzione perché potremmo finire per trattare una malattia virale come se fosse una malattia non trasmissibile ed è un errore che non dobbiamo fare. No, è una malattia virale che quindi necessita di essere trasmessa e le aree dove si trasmette sono effettivamente quelle più densamente popolate, quelle dove ci sono più scambi, dove le persone entrano maggiormente in contatto tra loro e verso il mondo esterno. È chiaro che molte di queste aree, avendo queste caratteristiche, sono anche inquinate: come lo sono Wuhan, New York, Milano, l’area tra Cremona e Piacenza».
la relazione tra inquinamento e virus
Fatte queste premesse, per non indurre alla tentazione di semplificare troppo cerchiamo di indagare il complesso rapporto tra virus Sars-CoV-2, malattia, mortalità e ambiente, riproponendo la domanda: qual è, se c’è, la relazione tra l’inquinamento dell’aria e la diffusione del nuovo coronavirus? La prima risposta generale è che ne sappiamo poco. E che prima di trarre affrettate conclusioni, come spiegano lo stesso Fabrizio Bianchi e Fabio Cibella (epidemiologo del Cnr di Palermo) in una lettera pubblicata domenica 29 marzo sulla rivista scientifica BMJ (British Medical Journal) è necessario cercare di capirne di più portando avanti ricerche scientifiche in tempi stretti. Perché capire come vanno le cose tra diffusione del virus può servire non solo a spiegare, ma anche ad agire in tempo reale. Questo è un punto decisivo: anche se i media classici e soprattutto i social ne parlano molto e anche se ci sono stati annunci di inizio di studi approfonditi, dal punto di vista scientifico non sappiamo ancora con sufficiente definizione di dettaglio qual è il rapporto tra inquinamento dell’aria e Sars- CoV-2.
il lookdown abbassa l’inquinamento atmosferico
Tre sono le aree di maggiore interesse per chi cerca di capire, in termini scientifici, come stanno le cose. La prima riguarda la diminuzione dell’inquinamento atmosferico nelle aree sottoposte a lockdown (ovvero a isolamento), a iniziare proprio dalla provincia dello Hubei, quella della città di Wuhan, in Cina, dalla Lombardia in Italia e dallo sta- to di New York negli Usa. Le misure effettuate da satellite – per esempio dal Copernicus Atmosphere Monitoring Service (Cams) – mostrano una forte diminuzione della concentrazione di biossido di azoto (NO2, un forte indicatore dell’inquinamento atmosferico) sia in Cina che sulla Pianura Padana sia in molte città americane. Nella regione dello Hubei a causa del lockdown il particolato è diminuito a marzo tra il 20% e il 30% rispetto a dicembre. L’inquinamento dell’aria uccide, nella sola Cina, circa un milione di persone l’anno. Cosicché, si calcola, la riduzione rilevata in questi primi tre mesi del 2020 ha (ma è meglio usare il condizionale, avrebbe) salvato la vita a 4.000 bambini e 73.000 adulti.
Paradossale, ma solo in apparenza: il virus, secondo le recenti stime, avrebbe ucciso nello Hubei circa 4.500 persone, ma a causa della diminuzione dell’inquinamento avrebbe indirettamente salvato la vita a un numero 16 volte superiore! Se fosse così – aspettiamo ulteriori indagini scientifiche, prima di confermarlo – avremmo una conferma della complessità del rapporto tra salute umana e ambiente.
Una riduzione degli inquinanti dell’aria analoga è stata rilevata, come abbiamo detto, anche sull’Italia settentrionale. Mentre il satellite Sentinel 5P dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa) ha rilevato un’analoga diminuzione degli inquinanti anche su New York, Los Angeles, San Francisco e Seattle. È lecito attendersi una diminuzione della mortalità da inquinamento dell’aria, dunque, anche in Italia e negli Stati Uniti? Ripetiamo: per averne certezza, occorre che si pronuncino epidemiologi e statistici.
In ogni caso, se anche questo fosse verificato: a) non possiamo né applaudire la Covid-2019 né diminuire di un’oncia il nostro sforzo di contrastarla; b) dobbiamo in ogni caso diminuire drasticamente l’inquinamento atmosferico e le sue conseguenze a prescindere da Sars-CoV-2.
In Cina è stata registrata anche la diminuzione delle emissioni di anidride carbonica, il principale gas serra (o climalteranti come amano chiamarli gli esperti). Ottima notizia. Ma non dobbiamo confondere tra un inquinante globale che non attacca direttamente la nostra salute, come l’anidride carbonica che contribuisce ai cambiamenti del clima, e gli inquinanti locali, come l’NO2 e il particolato, che attaccano direttamente la nostra salute e, in particolare, le vie respiratorie.
il virus a spasso sul particolato
Un secondo punto oggetto di attenzione nell’articolato rapporto tra Sars-CoV-2 e inquinamento dell’aria riguarda la capacità del particolato di essere un carrier ovvero di trasportare il virus. Secondo questa ipotesi l’inquinamento in tre aree ad alto tasso in inquinamento da particolato come Wuhan, la Lombardia e New York potrebbe essere spiegato, dunque, non solo dalla trasmissione diretta da uomo a uomo, ma dal trasporto del virus su microparticelle. Se fosse vero, il virus dimostrerebbe di essere molto più subdolo di quanto si ritiene e anche più «furbo» di tanti suoi fratelli. Questa possibilità va indagata. Ma, come ricordano Bianchi e Cibella, finora non c’è alcuna dimostrazione scientifica che il particolato sia un carrier del coronavirus.
anomalie
Ora ragioniamo per ipotesi, senza alcuna pretesa di solidità scientifica. Ma se l’inquinamento dell’aria e in particolare il particolato avessero un collegamento diretto – tipo causa-effetto – dovremmo risolvere due piccole o grandi anomalie. La prima è che – a tutt’oggi, speriamo mai – il coronavirus non si è drammaticamente diffuso nelle città più inquinate del mondo, che non sono quelle europee e nord-americane e, per quanto voglia un luogo comune, neppure quelle cinesi. Le dieci città più inquinate del mondo (dal punto di vista dell’aria) sono soprattutto in India (otto) e in Pakistan (due), altre più inquinate di Wuhan, Milano e New York ce ne sono disseminate in molti paesi del sud-est asiatico e, anche, in Africa. Lagos, in Nigeria, con i suoi 16 milioni e passa di abitanti è tra queste. Ebbene a quattro mesi dall’inizio della pandemia la diffusione del virus in India, in Pakistan, nel sud-est asiatico e in Africa non ha raggiunto la diffusione che ha avuto nello Hubei, nell’Italia settentrionale e a New York. È chiaro che la presenza di un’alta concentrazione di PM-10 e di PM-2,5 da sola non basta a spiegare la diffusione, la letalità (numero di morti rispetto ai contagiati) e la mortalità (numero dei morti rispetto alla popolazione tutta) del virus.
Seconda anomalia: l’ipotesi che l’inquinamento da particolato sia causa diretta della diffusione non spiega perché la Spagna e in particolare l’area di Madrid abbia mostrato un tasso di diffusione del virus paragonabile a quello della Lombardia. Nella penisola iberica, per quanto alto, il tasso di inquinamento dell’aria è nettamente inferiore alla Pianura Padana.
Queste correlazioni, ovviamente, sono puramente astratte. Potrebbero essere del tutto fuorvianti. C’è bisogno, ancora una volta, di una valutazione scientifica accurata, che non c’è. Dunque, prudenza nel proporre ogni tipo di ipotesi. Per ora non conosciamo con sufficiente definizione di dettaglio come agisce il virus. Di certo c’è solo che si trasmette da uomo a uomo. E, dunque, è su questo aspetto che dobbiamo concentrarci in prima battuta. Il che significa «distaziamento sociale»: ma sarebbe meglio dire «distanziamento fisico tra le persone», perché si può (si deve) essere socialmente vicini anche se a un metro minimo di distanza nello spazio fisico, appunto.
mortalità e inquinamento dell’aria
C’è, tuttavia, un terzo punto da tenere in conto e su cui fare ricerca (anche e soprattutto perché ha effetti tangibili sulla prevenzione e sulla cura): la correlazione indiretta tra letalità e inquinamento dell’aria. Non c’è dubbio: una sterminata letteratura scientifica consolidata ha dimostrato che l’inquinamento dell’aria ci rende più suscettibili alle infezioni da virus. Sia perché l’inquinamento rende più debole il nostro sistema immunitario, sia perché attacca direttamente le nostre vie respiratorie. Questo può spiegare almeno in parte l’alta letalità del Sars-CoV-2 in Lombardia e nella parte settentrionale dell’Emilia-Romagna. Chi da anni respira aria inquinata si è trovato in una situazione di maggiore debolezza quando è stato attaccato dal virus (da un virus trasmesso da persona a persona).
Ciò non toglie, tuttavia, l’alta letalità apparente in questa parte del paese sia, appunto, apparente. E che il gran numero di morti in assoluto (con un’età media intorno agli 80 anni e in gran maggioranza con una o più malattie sulle spalle) sia dovuto a un numero di contagiati molto più alto di quello emerso dalle verifiche.
Un giorno, speriamo non troppo lontano, lo sapremo con precisione.
Le stime indirette inducono a pensare che in Italia il numero di contagiati non sia di 180.000 persone (dato aggiornato al 20 aprile), ma di dieci o venti o anche trenta volte tanto: il che vuol dire due, quattro o sei milioni di persone che sono venute a contatto col virus. In questo caso la letalità non sarebbe del 13,3%, come calcolato al 20 aprile, ma dell’1,3% o anche meno (dello 0,7 se non dello 0,4%). Una bella differenza.
In attesa di saperlo, teniamo bene a mente le parole di Fabrizio Bianchi: «Anche se un giorno dimostreremo che il particolato atmosferico è carrier e booster di Sars-Cov-2, non bisogna far passare la convinzione che la causa prossima della Covid-2019 sia l’inquinamento dell’aria». Certo, l’inquinamento dell’aria e in particolare il particolato «restano potenti killer e causa di altre malattie; certo predispongono alla Covid-2019, aumentando la suscettibilità al virus». È altrettanto certo è che l’origine e la diffusione di questo nuovo patogeno «è a sua volta l’effetto di uno sviluppo insostenibile». Ma «non dimentichiamo che Covid-2019 è una malattia virale, che si trasmette da uomo a uomo».
Pietro Greco
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Rocca – Cittadella
06081 Assisi
e-mail rocca.abb@cittadella.org in prima battuta.
Riprendo da Aladin Pensiero questo bell’articolo di Ritanna Armeni, giornalista di valore e mia collega universitaria a Roma.
La sua riflessione attiene a un tema di cocente attualità. Leggetelo con attenzione (giovani e meno giovani).
Il nucleo essenziale è riassunto nel titolo: gli anziani? Scarti.
Siamo abissalmente lontani e distanti dalla cultura e dalla concezione sarda, per cui erano invece un tesoro inestimabile di esperienza e saggezza,: esempio prezioso per i giovani..
ANZIANI
gli scarti di un sistema
di Ritanna Armeni su Rocca.
E’ stata la presidente della commissione europea Ursula Von der Lyen a lanciare per prima l’idea.
Per combattere efficacemente i coronavirus è bene che gli anziani rimangano in quarantena fino alla fine del 2020. Non è chiaro se per anziani si intende chi ha superato i sessantacinque o i settanta anni di età, ma l’idea è piaciuta anche in Italia. Sono due mesi che il paese è fermo, è necessario riprendere l’attività produttiva, allentare le prescrizioni, ma occorre farlo gradualmente e allora – si dice – restino a casa gli anziani, quelli che sono più deboli, più soggetti alla malattia e alla morte.
Parte consistente dell’opinione pubblica ha approvato. Sì, gli anziani a casa. Gli altri fuori a lavorare o a cercare un lavoro, a studiare, a viaggiare, i più vecchi possono farne a meno. In fondo che cosa costa un altro po’ di carcere domiciliare a chi non è produttivo?
C’è voluto poco e quella che sembrava un’ipotesi come tante si è trasformata in un dibattito aspro e cattivo.
L’ipotesi di tenere a casa ancora per qualche mese gli anziani è diventata in parte dell’opinione pubblica necessaria e utile; il motivo della scelta è pian piano cambiato: non più la protezione della loro debolezza, ma la loro inutilità, anzi il danno che possono procurare al già debole stato sociale del paese.
Soprattutto nei social che – piaccia o meno – sono in gran parte lo specchio del paese.
In essi si riflette la gente per quello che è, fuori da ogni mediazione culturale, quindi anche con le brutture, gli eccessi, le forme d’inciviltà. E nei social il dibattito si è sviluppato con virulenza, la verità si è trasformata nel suo contrario, la polemica è dilagata.
Gli anziani da soggetti da proteggere si sono trasformati in pericolosi portatori del contagio, da vittime di un sistema sanitario, evidentemente impreparato e non all’altezza, in pericoli per la salute degli altri, dei giovani, dei produttivi.
Se si ammalano – qualcuno ha detto – occupano un posto in terapia intensiva e lo tolgono ai giovani. Gli ospedali devono essere decongestionati, i vecchi devono lasciare il posto.
Il fatto che gli anziani aspirino, come tutti alla libertà di movimento, a godere di una primavera o di un estate, a frequentare librerie, è segno di egoismo.
Fatto il primo passo se ne sono fatti altri. I vecchi che vogliono uscire e che vorreb- bero, come dice la Costituzione, avere gli stessi diritti e doveri di tutti i cittadini, sono stati trasformati in facili bersagli. Hanno avuto già tutto, si è detto: il lavoro che oggi scarseggia, i diritti che sono stati quasi del tutto annullati, la pensione che i precari se la sognano.
E poi ancora. Hanno distrutto il paese portando il debito a livelli insopportabili. Sono state le cicale del benessere e ora sono diventati i parassiti della crisi.
Per un curioso cortocircuito che si verifica spesso nelle vicende italiane, i fautori de «gli anziani a casa» non hanno cercato l’obiettivo vero delle proprie difficoltà, frustrazioni e disperazioni, hanno individuato quello più a portata di mano. E anche se non è giusto pazienza.
È avvenuto altre volte, anzi avviene quasi sempre. Non siamo ancora usciti da anni in cui i danni e le tragedie prodotte da una globalizzazione senza controllo poli- tico e sociale sono stati attribuiti alla corruzione della politica e poi alla politica tout court. Le conseguenze le paghiamo ancora. Ci sono stati anni in cui un pensiero mainstream, anche di sinistra, ha contrap- posto i garantiti, anche quando erano lavoratori manuali con salari bassissimi ai non garantiti, i giovani disoccupati. E questo è bastato per renderci ciechi sulle vere cause della fine di tante importanti garan- zie sociali. Per non capire che la disoccupazione era fatto strutturale su cui inter- venire e non una contrapposizione fra salariati e disoccupati.
Poi è venuto il momento in cui si sono contrapposti gli onesti e laboriosi italiani agli immigrati parassiti pur di non affrontare e risolvere i problemi epocali dell’immigrazione. Potrei continuare. Oggi si tirano in ballo gli anziani per nascondere i fallimenti della lotta all’epidemia, le man- canze enormi del servizio sanitario nazionale, l’incapacità di reazione immediata al virus della comunità scientifica, la mediocrità della classe politica, i ritardi e soprattutto le difficoltà di una ripresa economica e sociale in un paese in ginocchio. Quando s’iniziano queste guerre il primo a morire è il buon senso. Si dimentica ad esempio che l’epidemia è dilagata proprio nelle zone produttive del paese, dove i contatti e quindi i contagi sono maggiori e gli anziani ne sono stati vittime anche se loro presumibilmente non frequentavano i luoghi di maggior contagio. Che sono morti perché più deboli in un paese che non ha saputo curarli. Sì, il buon senso sparisce e lascia posto alla ricerca del nemico chiunque esso sia, purché vicino e ci eviti lo sforzo di pensare un po’ di più, di acuire il nostro senso critico, di guardare alla realtà. È più facile essere cattivi che intelli- genti. Ed è facilissimo essere cattivi quando il terreno è stato ampiamente preparato. Sono anni che in Italia i politici al governo – tutti i governi – attaccano i cosiddetti privilegi degli anziani, che riducono le loro pensioni, che li indicano come i privilegiati di un sistema di garanzie, che contrappongono la loro vita «facile» e sicura a quella precaria e incerta dei giovani.
Sono anni. È stato comodo, molto comodo. Adesso un altro passo è stato fatto. Sono diventati pericolosi per la salute, scarti di un sistema che per andare avanti deve metterli da parte.
Non vi chiedete più per favore se da questa tragica epidemia usciremo migliori o peggiori. È evidente che siamo già peggiori.
Ritanna Armeni