C’è da riflettere! Biolchini: sardi sveglia!

I sardi non vogliono essere una minoranza: ecco perché abbiamo Totò Riina e le basi militari (e non parliamo in sardo)

di Vito Biolchini, da vitobiolchini blog 24 maggio 2013 alle 16:02  

“Hai visto? In Sardegna ci mandano Totò Riina e Bernardo Provenzano”. L’amico mi guarda con aria beffarda, perché è l’ennesima sconfitta che noi sardi incasseremo in silenzio. “Sì, lo so ho visto i giornali”. Ma in realtà lo so da anni che qui arriveranno i boss mafiosi, perché a me certamente non era sfuggito che il Pacchetto Sicurezza votato nel 2009 dal Governo Berlusconi (ripeto: Governo Berlusconi) prevedeva tra le sue pieghe l’invio in Sardegna della stragrande maggioranza dei detenuti in regime di 41 bis.

“I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari”, c’era scritto nella norma votata allora dai parlamentari di centrodestra. E se questo si aggiunge che le uniche nuove carceri costruite dallo Stato negli ultimi anni si trovano tutte in Sardegna, il gioco è fatto.

Che poi a sbraitare contro l’arrivo in Sardegna dei boss mafiosi sia soprattutto il deputato del Pdl Mauro Pili (l’esponente di un partito che quella norma l’ha concepita, e magari Pili l’ha pure votata) è solo il segno della schizofrenia di cui la nostra isola soffre.

Nuove servitù si manifestano all’orizzonte, quella carceraria è solo l’ultima (e se volete approfondire vi segnalo la bella inchiesta, “L’isola delle carceri”, realizzata per Repubblica.it da Elena Laudante)

Se invece volete avere le ultime notizie sulle servitù militari, vi segnalo i pezzi usciti in questi giorni sull’esercitazione che c’è stata Decimomannu. Mi ha colpito molto il titolo che Cagliaripad ha scelto: “Sardegna palestra delle forze armate”. È la frase pronunciata dal capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, il generale Pasquale Preziosa, ed in effetti sintetizza benissimo il ruolo geopolitico della nostra isola. Ruolo sempre più importante, ed è per questo che quella contro le servitù militari è la battaglia più pericolosa e difficile di tutte.

Però non c’è solo la geopolitica a condannarci, c’è anche la cultura. La nostra cultura di isolani.

Ci siamo mai chiesti realmente per quale motivo il nostro territorio ospiti la stragrande maggioranza dei poligoni militari e presto anche la stragrande maggioranza dei boss mafiosi detenuti nelle carceri italiane? Perché noi sardi non vogliamo essere considerati una minoranza. Vogliamo essere parte di una maggioranza. E sbagliamo.

Noi sardi vogliamo far parte di un contesto più grande, e il contesto dal quale vogliamo essere legittimati è quello italiano (quando invece dovremmo guardare all’Europa). Ma non essendo riusciti ad essere considerati portatori di una cultura diversa, allora abbiamo fatto di tutto per essere considerati assolutamente uguali. E chi di dovere ne ha subito approfittato.

La comunità nazionale italiana poteva darci un sistema di trasporti decente, strade accettabili, poteva assecondare la nostra bellezza paesaggistica e la nostra cultura. Invece no: ci ha dato quello che gli conveniva darci: fabbriche che inquinano, bombe e mafiosi. Perché, a differenza nostra, gli italiani sanno bene che i sardi sono una minoranza senza coscienza, senza consapevolezza di sé. E, dunque, in quanto tale, difficilmente possono protestare.

E da qui nasce il paradosso. In un periodo storico dove le minoranze vengono tutelate sempre di più, e dove anzi per essere tutelati bisogna farsi minoranza, noi sardi (che minoranza lo siamo davvero: culturale e numerica) vogliamo rinunciare a questo status che ci spetta di diritto ed essere più italiani degli italiani. Anzi, gli “italiani” per eccellenza. Una follia. Ecco perché abbiamo le basi militari, perché i mafiosi presto saranno nelle nostre carceri, perché abbiamo solo (o quasi) fabbriche che inquinano.

Ancora oggi, con internet in tutte le case e i voli low cost, i sardi hanno la paura di essere isolati, di stare da soli. È una paura ormai infondata, ma è radicata in noi. Ci vorrà tempo per estirparla, perché in tanti non ne hanno neanche la consapevolezza. Nel frattempo, quello che ci danno lo usiamo come prova di una nostra esistenza in vita: anche i poligoni vanno bene se si parla di noi. Perché se non parlano di noi quelli di “fuori”, noi non esistiamo. Siamo ossessionati dal confronto con ciò che c’è in Continente, come se solo dal Continente potesse arrivare la giusta valutazione di ciò che siamo.

Infatti niente in Sardegna ha valore di per sé, perché per avere un minimo di consapevolezza di ciò che siamo e di quanto valiamo attendiamo il riconoscimento degli altri, degli “italiani”. Questo impressionante complesso di inferiorità ci porta a delle forme di autocolonialismo imbarazzanti, che trovano il loro sbocco nelle scelte politiche (con i candidati alle più alte cariche scelti sempre a Roma, o con criteri di appartenenza romana) che siamo chiamati a prendere.

Che fare dunque? Bisognerebbe iniziare ad avere l’orgoglio di essere una minoranza vera, riprendere a segnare le nostre differenze e pretendere che siano accettate. Ecco perché la lingua sarda è importante: perché è il primo e più grande elemento che segna la nostra differenza. Una Sardegna sardofona sarebbe meno soggetta alle decisioni inaccettabili imposte da un governo nazionale. Il quale, finché nessuno si ribellerà (una ribellione culturale, beninteso, solo e solamente culturale), continuerà a trattarci per quello che siamo: pochi abitanti di un’isola disabitata in mezzo al Mediterraneo nella quale si può fare qualunque cosa.

Una Sardegna sardofona sarebbe culturalmente autonoma, capace di dare valore alle cose che fa e che produce senza la lente distorsiva di un contesto nazionale che non ci capisce perché non ci vuol capire. Perché non si possono prendere seriamente in considerazione le ragioni del due per cento degli abitanti di uno Stato, a meno che quel due per cento non rappresenti una minoranza. Esattamente quello che i sardi non vogliono essere.

E poi non lamentiamoci se nelle carceri sarde arrivano Totò Riina e Bernardo Provenzano.

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