Coronavirus. Pensare, analizzare, agire.
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Ne usciremo migliori o peggiori?
di Ritanna Armeni, su Rocca.
Questa domanda che ha scandito i giorni del coronavirus è – va detto – senza mezzi termini una domanda inutile e, anche, un po’ deviante. Non bastano due o tre mesi di quarantena, di angoscia, di malat- tia a rendere l’umanità migliore o peggio- re. Altri e più lunghi sono i percorsi.
Vale la pena di chiedersi, invece, che cosa queste settimane hanno dimostrato. O meglio – ancora più modestamente – che cosa ci auguriamo ci abbiano insegnato. Quali riflessioni ci hanno portato e come queste possono essere utilizzate per il futuro.
A me hanno confermato qualcosa che già sapevo ma che si è presentato con una forza sconvolgente: l’esistenza dell’imponderabile e i limiti delle previsioni umane. Sono fatti noti, direte, ma spesso – troppo spesso – ce ne dimentichiamo. E questo ci dà arroganza e presunzione. L’esplosione imprevedibile e incontrollata di un virus che oggi terrorizza miliardi di abitanti del globo ci ricorda che non dominiamo completamente la natura, tanto meno ne siamo i padroni. La scienza spesso troppo sicura ha ancora molta strada da compiere; il progresso continuo, ineluttabile e scontato è un’illusione. L’hanno dimostrato proprio in quest’occasione la sorpresa, le incertezze, gli opposti pareri degli scienziati e degli esperti. Il coronavirus, la quarantena, la riflessione hanno fatto capire quanto il controllo di noi stessi e della nostra vita sia aleatorio e quanto sia non fatalistico ma realistico tenerne conto in futuro. Il secondo insegnamento riguarda il rapporto o meglio lo scontro tra il mercato e la salute umana.
Veniamo da decenni di supremazia dell’economia che ha vinto sulla politica, sulla natura, sulla cultura. Naturalmente in questi anni abbiamo assistito anche a uno scontro del Mercato (quello con la M maiuscola, globale e pervasivo) con la salute e la vita umana. L’abbiamo visto ogni giorno nei disastri ecologici del pianeta, nella vita di tanti popoli distrutti dalle scelte economiche di altri, ma mai in modo così concreto, diffuso, globale ed evidente come nei giorni della pandemia. Il virus ha reso impossibile edulcorarlo, farne qualcosa di limitato, attribuirlo all’ideologia di qualche dissidente nei confronti delle magnifiche sorti e progressive del mercato. Gli stati, i governi, le organizzazioni di quasi tutti i paesi del mondo si sono trovati di fronte al dilemma chiaro ineludibile, non rinviabile a riunioni, convegni e conferenze: continuare a privilegiare l’economia e, quindi, il funzionamento del sistema così com’era andato avanti fino a quel momento a scapito della salute e scontando la morte di molti o fermarsi, bloccare la produzione e il sistema economico per proteggere la salute dei cittadini, di tutti i cittadini, La scelta non si era mai posta prima in modo violento, chiaro, sotto gli occhi di tutti. C’è stato il dubbio e, nel dubbio, il virus è andato avanti. La lentezza delle decisioni ha mostrato quanto fosse forte l’ideologia del mercato e della produzione a tutti i costi. Paesi come la Francia, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna hanno per molto continuato a favorire il business chiudendo gli occhi di fronte al contagio. L’Italia è stata più veloce nella scelta della salute ma non tanto da evitare la catastrofe in molte zone del suo paese. Credo che l’ideologia del mercato sia ancora molto forte, ma il virus ne abbia evidenziato le debolezze, mancanze ed errori più che in altri casi. E credo che un insegnamento ci sia: non può essere rinviata una ricomposizione, un equilibrio maggiore dello sviluppo economico con l’ambiente e con la salute. Se questo si rompe le conseguenze non sono più limitate e parziali, non riguarda- no più questa o quella parte del pianeta. Riguardano proprio tutti. E possono prefigurare qualcosa che ci fa pensare alla fine dell’umanità.
C’è poi un terzo insegnamento che mi piacerebbe fosse esteso. La pandemia – reale, concreta, dolorosa – avrà conseguenze sociali ed economiche ancora non definite, di certo profonde e drammatiche. Queste esigono un percorso di verità. Mai come oggi le chiacchiere, le baruffe della politica, la retorica, le parole vuote sono non solo inutili ma offensive per chi da questa pandemia è e sarà ancora di più colpito nella vita, nei bisogni, nelle condizioni materiali e nelle aspirazioni. Andiamo incontro a un periodo – avrebbe detto Winston Churchill – «di lacrime e sangue». Nel quale, come lo statista inglese ben intuì, non si deve mentire, non si deve illudere. Tutto deve essere fatto nella massima chiarezza. Sarebbe bene che la durezza di quel che ci aspetta fosse esposto ai cittadini, che i fatti non fossero occultati o edulcorati che i sacrifici non fossero nascosti, che delle difficoltà si parlasse senza indugi. Quando finirà la pandemia non comincerà una nuova primavera ma un autunno e un inverno durissimi con più debito, più disoccupazione, più povertà, nel quale pagheremo i tentativi di arginare la malattia con un peggioramento delle nostre condizioni materiali. Sappiamo anche che i primi a soffrirne (non è una novità) saranno i più deboli. Ma molti altri possono esserne travolti. Per questo occorre subito una strategia, una linea chiara e precisa che renda i sacrifici inevitabili almeno compresi e accettabili. Il coronavirus che ci ha fatto soffrire così tanto ha un solo merito. Gli italiani hanno dimostrato di essere un popolo maturo e consapevole. Non meritano bugie, tentennamenti, rinvii, illusioni. Spero che chi ci governa lo abbia capito. Non so se sarà all’altezza.
Ritanna Armeni
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CRISI ECONOMICA
ripartenza tra salute e lavoro
di Roberta Carlini, su Rocca.
Dobbiamo pensare ai più deboli». «Che è adesso ‘sta novità?».
Il dialogo contenuto in una bella vignetta di Mauro Biani, pubblicata su La Repubblica nei giorni dell’insorgenza dell’epidemia di Covid 19, è perfetto non solo in sé, ma anche per parlare delle conseguenze economiche del coronavirus. Paragonate per la durezza del loro impatto alla Grande Recessione del 2008, anzi no a quella dell’influenza spagnola del 1918, oppure no, alla Grande depressione del 1929, o ancora a una delle due guerre mondiali del secolo scorso. Ogni paragone ha una sua parte di credibilità; eppure lo choc economico da coronavirus è imparagonabile ad altri del passato, per la sua simultaneità – con un lasso di tempo molto breve, si è esteso all’intera economia mondiale –, per le sue caratteristiche, e per le differenze tra la struttura economica di oggi e quella del secolo scorso. Ma un elemento comune tra le lezioni del passato e la sfida di oggi è proprio in quelle parole provenienti dalla satira: dobbiamo pensare ai più deboli. E questa è una novità, rispetto all’impianto della politica economica corrente prima che il virus cambiasse il mondo.
che crisi è
Dai giorni di febbraio nei quali, con i primi casi italiani ufficialmente accertati, è stato chiaro che il virus era sbarcato in Europa, come era prevedibile, è risultato evidente anche che il suo impatto economico non sarebbe stato limitato a uno «choc cinese». Ossia all’effetto della brusca frenata della enorme potenza della fabbrica del mondo, gigantesco mercato di provenienza e di sbocco di merci e capitali. No, non era più «solo» questo. Ma uno choc economico simultaneo – con sfasamenti temporali brevissimi, dell’ordine di una o due settimane – su tutte le economie dei paesi industrializzati e in via di sviluppo. Lo choc ha tre facce: viene dalla domanda di beni e servizi (i consumi si fermano, gli investimenti pure), dall’offerta (le fabbriche chiuse, tranne che per i beni essenziali) e, a seguire, dalla finanza e dal sistema creditizio (banche in difficoltà con i loro debitori, e instabilità delle borse e dei cambi).
«Siamo in guerra», ha detto il presidente francese Macron, e tanti altri suoi colleghi hanno seguito questa metafora. Approssimata per difetto: poiché nelle guerre «vere» da un lato i danni in vite umane sono molto maggiori, e così anche la perdita di infrastrutture materiali, per la distruzione di impianti, strade, ferrovie, ponti; dall’altro c’è – di solito – una domanda pubblica per le necessità belliche, che per esempio ha forgiato la nascita della grande industria italiana nel caso della prima guerra mondiale, e ha sancito l’evoluzione verso il «keynesismo di guerra» nella seconda guerra mondiale. Uno storico dell’economia, Barry Eichengreen, ha preferito fare altri raffronti, ricordando il numero di disoccupati e il calo del prodotto interno lordo che furono causati dalle due grandi crisi economiche (quella del ’29 e quella del 2008) e dall’epidemia della «Spagnola» del 1918. Durante quest’ultima, morirono solo negli Stati Uniti più di mezzo milione di persone; in alcune città chiusero negozi e ristoranti, l’economia ebbe un calo ma tutto sommato se la cavò riprendendo subito dopo. Quanto alle grandi recessioni del secolo scorso e di quello presente, le perdite dell’occupazione e del prodotto sono state gigantesche, ma «spalmate» nel giro di qualche mese o anche anno. Mentre stavolta l’impennata dei disoccupati è immediata: gli Stati Uniti, il Paese che ha il conteggio più rapido dei suoi disoccupati, hanno visto salire il numero dei sussidi di disoccupazione dai 211.000 della prima settimana di marzo a circa 10 milioni. Per i Paesi europei avremo i dati ufficiali più tardi, e forse il moltiplicatore sarà minore, visto che abbiamo una struttura del mercato del lavoro diversa. Ma la rapidità del declino della produzione e del consumo è identica. Secondo le stime dell’Ocse, si sta perdendo il 2% del Pil per ogni mese di lockdown. E l’Organizzazione mondiale del lavoro prevede, per il secondo semestre del 2020, la cancellazione di 195 milioni di posti di lavoro.
Questa caratteristica deriva dalla stessa natura della crisi, che è, in qualche modo, un effetto delle misure di contenimento del contagio. Per appiattire la curva dell’epidemia, che sarebbe altrimenti schizzata verso l’alto causando una vera strage in vite umane, vista l’impossibilità per gli ospedali di reggere l’impatto di un’ondata gigantesca di ricoveri in terapia intensiva, i governi (prima quello cinese, poi quello italiano e a seguire quasi tutti gli altri) hanno fermato l’economia con l’unica politica messa in campo e finora dimostratasi efficace: il distanziamento sociale. Era inevitabile – anche se alcuni governi hanno tentennato molto prima di decidere la chiusura; era, ed è, costoso, ma avrebbe potuto essere ancora più costoso, anche per l’economia, non farlo. È stato fatto di corsa, forse troppo tardi in alcuni casi: come dimostrano le testimonianze di quanti nelle zone-focolaio della Lombardia, che sono anche tra le più produttive e le più connesse con il commercio internazionale, hanno chiesto che si chiudessero le fabbriche ben prima di quando è poi effettivamente avvenuto. Dunque si può dire che è stata, ed è, una recessione «indotta», per motivi di salute pubblica.
che crisi sarà
Questo non vuol dire che è tutto sotto controllo e che basterà un clic per tornare alla normalità della produzione. Quel che è complicato dal punto di vista epidemiologico – decidere quando riaprire, con quali precauzioni e modalità, con quale scansione temporale – dal punto di vista economico è una sfida quasi impossibile. O quantomeno, impossibile da affrontare con gli strumenti e la mentalità del passato. Il primo motivo è evidente nel ruolo che i governi hanno già assunto ovunque, entrando in campo con grandi pacchetti di soldi, in prima battuta per pagare le spese sanitarie (almeno in Europa); poi per garantire la sicurezza sociale a chi si trova senza salario, e per evitare un’ondata di fallimenti delle imprese; sullo sfondo, per il cosiddetto «stimolo fiscale», per aiutare la ripresa. Per l’emergenza, si ricorre al debito: nessuno, neanche tra gli economisti più allineati con l’ideologia dello «stato minimo» e l’ortodossia del bilancio in pareggio, contesta la necessità di fare debito pubblico in questa fase. E tutti i governi stanno ricorrendo al debito pubblico. Nello spazio monetario comune europeo, il patto di stabilità e crescita, che ha governato per decenni la nostra politica fiscale e le discussioni attorno ad essa, si è dissolto in poche ore: è stato sospeso, come gli stessi trattati prevedevano, per l’eccezionalità del momento. Il problema è che questo non basta. Paesi con economie e finanze pubbliche diverse si trovano in condizioni diverse, e se
– per fare un esempio – l’Italia dovesse essere costretta a pagare interessi più alti sul suo debito questo avvierebbe un circolo vizioso capace di far saltare tutto. Di qui la richiesta di una mutualizzazione del debito, ossia che tutti i Paesi dell’euro si assumano insieme il rischio e la responsabilità: richiesta osteggiata da alcuni governi del Nord Europa, stretti attorno alla Germania, e non accolta dall’eurogruppo, che ha invece deciso di affidarsi ad altri strumenti per prestare ai governi soldi a tassi più vantaggiosi di quelli di mercato. Questi strumenti sono il cosiddetto Sure (destinato a coprire le spese per la disoccupazione, ma sottodimensionato rispetto all’entità delle domande di senza lavoro che ci saranno in Europa), la Banca europea per gli investimenti e il Mes, ossia il Meccanismo europeo di stabilità, che per l’occasione è stato «liberato» dal peso della condizionalità, il che vuol dire che i governi che chiedono quei prestiti non dovranno assoggettarsi a piani di austerità, purché usino i fondi per spese sanitarie «dirette o indirette». Tutti strumenti utili ma assai sottodimensionati rispetto all’entità dei bisogni. L’eventuale varo dei coronabond, oppure un uso diverso del bilancio europeo (che però ammonta solo all’1% di tutto il Pil europeo e sarebbe già destinato ad altri scopi), saranno discussi nelle prossime settimane.
Eppure l’Unione europea, che non ha neanche potuto mettere in campo un sistema statistico standardizzato per contare i suoi contagiati e i suoi morti, dovrebbe fare d’un balzo quel che non ha fatto nel- la crisi del 2008, e poi in quella greca del 2010, e «pensare ai più deboli» – come dice Biani – sarebbe l’unico modo per salvare anche «i più sani». C’è da sperare che, dopo il copione un po’ triste e ripetitivo dell’eurogruppo, prevalgano le voci nuove, anche all’interno di quegli stessi Paesi che adesso si oppongono alla ricerca di strumenti per mettere in comune rischi e opportunità, e anche che si affermi una leadership politica in grado di interpretarle.
Non è l’unica sfida per l’economia. L’altra è ricostruire quelle catene internazionali del valore, spezzate dal contagio. Fare in modo che la riapertura, quando ci sarà, non sia una corsa ad accaparrarsi i nuovi pezzi di mercato lasciati sguarniti dai perdenti, a costo di ignorare i pareri degli epidemiologi e le loro raccomandazioni, e di subire nuove e ancora più letali ondate di contagio. In altre parole, fare in modo che la cooperazione prevalga sulla competizione, per salvaguardare le condizioni di una sana competizione nel futuro.
Roberta Carlini
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Rocca da La Repubblica online e sulla pagina di Mauro Biani maurobiani.it
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ROCCA 1/15 APRILE 2020
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