Capitalismo e democrazia politica
Il difficile rapporto tra capitalismo e democrazia
di Gianfranco Sabattini
Il rapporto tra capitalismo e democrazia è sempre stato oggetto di un serrato dibattito, riproposto in questi ultimi anni soprattutto all’interno delle democrazie avanzate, per gli esiti della Grande Recessione 2007-2008. Dopo i “trent’anni gloriosi” vissuti da tali democrazie nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, le trasformazioni economiche e politiche seguite al miglioramento delle condizioni di vita hanno imposto ai sistemi sociali ad economia di mercato la formulazione di nuovi orientamenti dell’azione politica; in particolare, questi hanno comportato, come sostiene Carlo Trigilia (“Capitalismo e democrazia politica. Crescita e uguaglianza si possono conciliare?”, Il Mulino, n. 2/2019), l’adozione di nuove “chiavi di lettura” della realtà economica, per comprendere i possibili effetti negativi della globalizzazione (fenomeno che cominciava ad emergere già nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso), ma anche per approfondire l’analisi del complesso rapporto creatosi tra capitalismo e democrazia, al fine di poter condurre un’adeguata attività politica di correzione e di contrasto. [segue]
Come poi l’esperienza è valsa ad evidenziare, la globalizzazione delle economie nazionali, pur portando “a un miglioramento delle condizioni di vita di un numero consistente di abitanti della parte più arretrata del pianeta”, nello stesso tempo, però, “si è accompagnata a una crescita vistosa delle disuguaglianze sociali nelle democrazie avanzate, accentuata dalla crisi economica degli ultimi anni”. Le conseguenze di tutto ciò si sono ripercosse, oltre che sul piano economico, anche su quello politico, con la comparsa e il consolidamento dei movimenti populisti; ma soprattutto, con l’approfondirsi delle “difficoltà dei partiti tradizionali, in particolare dei partiti di sinistra” che, nel corso dei “trent’anni gloriosi”, avevano fatto “della democrazia politica una leva per conciliare crescita economica e riduzione delle disuguaglianze”. Di fronte a questa situazione è apparsa allora giustificata l’urgenza di rivedere il rapporto tra capitalismo e democrazia, al fine “di ridisegnare nuovi meccanismi regolativi”, in grado di coniugare la crescita economica con la coesione sociale meglio di quanto riuscisse a fare la prospettiva neoliberista (divenuta egemone con la globalizzazione).
Il diffondersi e il persistere degli esiti negativi della Grande Recessione hanno contribuito a riproporre, tra i critici dal capitalismo, “l’idea di un’incompatibilità di fondo, o comunque di una tensione difficilmente risolvibile” tra il capitalismo e la democrazia, nel senso che non è possibile rendere compatibile il primo con la seconda, perché quest’ultima, perseguendo obiettivi di riduzione delle disuguaglianze, finisce “per intralciare la libertà dei capitalisti” nella ricerca della massimizzazione del profitto. Capitalismo e democrazia potrebbero “convivere”, solo se la democrazia “fosse debole e non intralciasse il capitalismo”. L’idea dei critici del capitalismo non è stata estranea anche a molti economisti favorevoli all’economia di mercato, secondo i quali l’incompatibilità tra capitalismo e democrazia è da ricondursi al fatto che nelle economie di mercato le istituzioni politiche democratiche sono inevitabilmente spinte “a invadere il campo dell’economia con interventi redistributivi che, alla ricerca di consenso degli elettori, alterano il funzionamento del mercato e mettono a repentaglio la crescita”.
Che il rapporto tra capitalismo e democrazia sia problematico – afferma Trigilia – non si può certo negare; tuttavia egli sostiene che è possibile ipotizzare che il capitalismo possa tendere “ad avvicinarsi maggiormente alle promesse di sviluppo e di efficienza sulle quali fonda la sua legittimazione, quanto più è sfidato da una democrazia politica forte e salda che spinge i singoli capitalisti a innovare piuttosto che a adagiarsi su rendite di vario tipo e sulla loro posizione di vantaggio strutturale sul mercato del lavoro”. In questo contesto, la democrazia uscirebbe rafforzata rispetto alle sue promesse di “riduzione delle disuguaglianze e di crescita del benessere collettivo”, quanto pù motivasse i capitalisti a trovare un conveniente accordo per un’attività di investimento a sostegno dello sviluppo.
Sulla base dell’ipotesi adottata, Trigilia analizza i possibili rapporti tra capitalismo e democrazia secondo tre forme ideali: “capitalismo senza democrazia”, “democrazia con debole capitalismo”, “capitalismo e democrazia conviventi con un relativo equilibrio di forze tra loro”. La prima forma è propria dei regimi autoritari, nei quali, senza il condizionamento della democrazia, i capitalisti possono massimizzare i loro profitti, in assenza però di quelle condizioni di libertà e di efficienza dinamica legata alla concorrenza necessaria ad avvicinare il capitalismo alle promesse (di crescita e di benessere collettivo) che valgono a legittimarlo. La seconda forma (capitalismo con debole democrazia) lascia presupporre che la democrazia resti lontana, non solo dalle sue promesse di realizzare un ordine sociale segnato da minori disuguaglianze, ma anche da procedure democratiche solide dal punto di vista qualitativo, per via del fatto la bassa qualità dell’azione delle istituzioni democratiche è insufficiente a “spingere” i capitalisti ad innovare. La terza forma (quella in cui capitalismo e democrazia convivono in presenza di un relativo equilibrio di forze) è quella che, a parere di Trigilia, risulta essere di maggiore interesse, perché rappresenta la situazione in cui ha preso forma dopo la guerra, fino alla metà degli anni Settanta, il rapporto tra capitalismo e democrazia che ha coinvolto i Paesi occidentali ad economia di mercato nel grande processo di crescita sperimentato dopo il 1945.
Quali sono stati – si chiede Trigilia – i caratteri che hanno connotato il rapporto tra capitalismo e democrazia nel dopoguerra? La sua risposta è che tali caratteri sono essenzialmente consistiti nel fatto che l’attività di governo ha sperimentato una larga azione volta a favorire il pieno impiego, rafforzare le relazioni industriali e costruire uno Stato di sicurezza sociale keynesiano. Per effetto dell’insieme di queste politiche, la democrazia è riuscita “a ridurre in misura significativa le disuguaglianze sociali”, avvicinandosi alla sua “promessa di realizzazione di un ordine sociale più giusto”. In tal modo, la crescente soddisfazione delle esigenze del mondo del lavoro ha consentito che il capitalismo si legittimasse, mentre l’espansione delle politiche sociali (pensioni, sanità, salari), contribuendo ad integrare i redditi da lavoro, ha concorso a ridurre le disuguaglianze. Per questa via, osserva Trigilia, la forza della democrazia, anziché risultare un ostacolo al capitalismo, ne ha rafforzato “il ruolo a sostegno del benessere collettivo”, aiutandola “ad avvicinarsi alla sua promessa di giustizia sociale”.
Alla fine degli anni Settanta, l’età dei “gloriosi trent’anni” è cessata, con la sopravvenienza dell’esaurimento del processo di crescita iniziato nell’immediato dopguerra; in conseguenza di ciò, coloro che denunciavano l’incompatibilità tra capitalismo e democrazia hanno potuto sostenere la validità delle loro tesi, secondo le quali, se la democrazia non viene frenata da opportuni ostacoli istituzionali, si creano le condizioni perché le domande del mondo del lavoro rivolte verso le imprese e lo Stato generino inflazione (per la tendenza del mondo politico in cerca di consenso a soddisfarle) e un incontrollabile aumento della spesa pubblica. Cosi, tanto i critici, quanto i sostenitori del capitalismo hanno potuto rilanciare l’affermazione che “capitalismo e democrazia possono convivere solo se si pongono limiti alla tendenza della politica ad interferire con l’economia attraverso redistribuzione e sostegno alla relazioni industriali”. L’esperienza successiva agli anni Settanta è valsa però a dimostrare che tale convincimento non sempre ha avuto riscontro nella realtà.
Studi comparati di politica economica, condotti sulle modalità di governo seguite da molti Paesi democratici ad economia di mercato, hanno evidenziato come, a fronte delle domande del mondo del lavoro rivolte verso le imprese e lo Stato, vi siano state – sottolinea Trigilia – reazioni di segno diverso, rese possibili da “assetti istituzionali basati su contrattazione e accordo a livello centrale tra governi e grandi organizzazioni degli interessi del lavoro e delle imprese sulla principali politiche economiche e sociali”, che hanno consentito di tenere sotto controllo la crescita salariale e l’espansione del welfare State. Quindi, sostiene Trigilia, la fine del grande processo di crescita postbellico non ha dato luogo ad un unico percorso, ma a percorsi alternativi: quello dell’”Europa continentale e nordica”, che ha consentito al capitalismo di restare ancorato alla democrazia, conservando un equilibrato rapporto tra capitalismo e democrazia con cui è stato possibile coniugare crescita ed equità distributiva; quello proprio dei “Paesi anglosassoni” che, con le svolte conservatrici di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, “sono tornati ad affidarsi maggiormente al mercato, sacrificando in parte le politiche sociali”; infine, quello dei “Paesi dell’Europa del Sud (tra cui l’Italia)”, che è consistito in una via intermedia tra i due adattamenti precedenti.
Dalla crisi del modello di crescita e sviluppo degli anni “gloriosi” non è disceso quindi un processo generale di indebolimento del rapporto tra capitalismo e democrazia; tuttavia, occorreva riconoscere che il quadro complessivo era cambiato e che di tale cambiamento era necessario tener conto, se si voleva affrontare con successo il governo delle sue conseguenze. Come si è detto, però, non tutte le democrazie, soprattutto dopo la Grande Recessione del 2007-2008, hanno seguito la stessa strada e la diversità di percorso le ha condotte ad esiti economici e sociali differenziati; dal confronto tra le diverse esperienze, l’assetto istituzionale delle democrazie che ha consentito di conseguire i migliori risultati sembra – a parere di Trigilia – il “modello di democrazia di tipo negoziale” prevalso nei Paesi del centro e del Nord dell’Europa, per aver limitato la “spinta dei partiti” a soddisfare le richieste del mondo del lavoro. A differenza di tali Paesi, quelli anglosassoni hanno preferito dare maggiore risalto al mercato, privilegiando la crescita, al prezzo però di una maggior disuguaglianza distributiva, mentre i Paesi del Sud dell’Europa, a causa dell’indebolimento dei partiti di sinistra, hanno dovuto fare i conti con la comparsa e il diffondersi dei movimenti populisti, rivelatisi ostili alla prospettiva liberal-democratica della democrazia negoziale.
Tuttavia, anche quest’ultima forma di democrazia, sebbene sia riuscita a conseguire i migliori risultati sul piano economico e su quello sociale, ha finito col presentare segni di indebolimento. Da questo tipo di esperienza, conclude Trigilia – si può forse “ancora imparare”: non si tratta di pensare a improbabili “trapianti istituzionali”, ma di “acquisire dall’analisi comparata maggiore consapevolezza che è possibile conciliare crescita e minore disuguaglianza attraverso una redistribuzione efficace”, che si affidi alla soluzione dei “nodi cruciali sul piano dell’assetto istituzionale e delle politiche”.
In particolare, prioritario sembra essere il ruolo dell’assetto istituzionale da dare alla democrazia, per favorire l’attuazione delle politiche “più favorevoli a far funzionare il capitalismo al servizio del benessere collettivo e la democrazia al servizio della giustizia sociale”. Rispetto a questo obiettivo, i partiti di sinistra sono state vittime – secondo Trigilia – di una sorta di “cattura cognitiva”, che li ha portati a formulare e a proporre politiche non più in grado di limitare gli effetti negativi del capitalismo sulla democrazia. Occorre che le forze di sinistra si riscattino dalla “cattura” della quale sono vittime, ricuperando gli antichi valori che nel passato le hanno condotte con successo ad addomesticare gli “animal spirit” di un capitalismo disancorato da una forte democrazia.
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