In tempo di coronavirus

dali-finwestraOltre le nuvole dalla finestra
di Veronica Rosati.

All’inizio di questa emergenza, affacciati ai balconi o nella riservatezza dei nostri salotti, prevaleva l’unanime speranza che, comunque fosse andata, ne saremmo usciti migliori. In un’Italia ancora in quarantena, chi se lo può permettere si sorprende ad osservare dalla sua finestra un mondo nuovo. Ci siamo abituati al silenzio che ha avvolto le nostre città. Non ci sorprendono più le vie vuote e con le stesse auto parcheggiate da un tempo indefinito.
Nemmeno qui, in una vivace cittadina dell’hinterland di Milano.
Nonostante il bombardamento mediatico, la saturazione di informazioni, di dati e di teorie statistiche o scientifiche, non riusciamo né vogliamo abituarci a convivere con il virus. Il Covid-19 ha ora il volto dei nostri cari, di persone con una storia il cui valore prescinde dall’età anagrafica o dalle – ormai famose – patologie pregresse. Il virus è raccontato dal silenzio delle bare caricate sui mezzi militari nella bergamasca, dai rumori artificiali degli ospedali e dal dolore nascosto di chi attende a casa con speranza qualche buona notizia. Abbiamo pianto davanti a Conte e al Papa sentendo tutto il peso della nostra finitudine. Dopo aver corso per decenni da un capo all’altro del mondo, anche semplicemente per una vacanza, ci siamo ritrovati imprigionati nelle nostre piccole case. Ci siamo creduti onnipotenti possessori di una libertà smisurata, figlia di grandi battaglie, ma anche frutto acerbo di un progresso che credevamo scontato compagno di questo lungo e splendido viaggio.
Il Covid-19 ha tolto la maschera soprattutto al rapporto fra il progresso tecnico scientifico e la vita umana. Prima di tutto questo, aleggiava la tacita consapevolezza di essere accompagnati dalla protezione del progresso scientifico. Lo immaginavamo critico, versatile, totalmente al nostro passo. Non poteva essere altrimenti: un mondo globale ed iperconnesso, economicamente avanzato, bulimico di denaro, di comodità che sono diventati vizi e di relazioni virtuali, non poteva che vedere nel progresso l’unico vero padre. Con la consueta presunzione della specie umana ci siamo creduti la generazione migliore. Il culmine della storia, l’ultimo gradino dell’evoluzione darwiniana.
Chi lo immaginava che sarebbe bastato un minuscolo virus venuto dall’altro capo del mondo per far vacillare granitiche certezze? [segue]  Ci siamo ritrovati di colpo da soli: terribilmente soli con le nostre paure e le nostre domande. Uno tsunami si è abbattuto non solo nei nostri ospedali, ma anche nei nostri cuori. Non siamo abituati ad essere impotenti, immobili, nudi. I decenni che ci hanno portati fino a qui ci avevano illusi che non ci fosse nulla fuori dal nostro controllo e, soprattutto, fuori dal passo lungo del progresso. Tutto era misurabile e prevedibile. Bastava impostare le risorse disponibili e un paio di variabili controllabili e il futuro era sempre lì a portata di mano, senza scomodare Dio.
Ci ha sorpreso l’impotenza della scienza che arranca e che temporeggia procedendo per tentativi. Corre troppo veloce la morte fuori dai laboratori, per riuscire a rimanere quelli che eravamo fino al 21 febbraio scorso. Stupisce la banalità dell’inevitabile navigare a vista. Persino i modelli matematici sulla diffusione dell’epidemia hanno un che di grottesco, perché abbiamo ormai sentito tutto e il suo contrario. Qualcuno prevede il picco per un giorno, chi per un altro, altri non credono nella sua esistenza. Non si è capito, dopo molte settimane, un granché nemmeno sulla distanza di sicurezza. Per le fonti più accreditate basta un metro, per molti altri no. Ci sembrano tutti dei goffi meteorologi che ci raccontano con un’autorevolezza fuori luogo il tempo di oggi mentre osservano il cielo.
Delude l’evidente relativismo che irrompe su qualcosa che pensavamo sicuro e al nostro servizio. Siamo smarriti perché avevamo dimenticato che la scienza e il progresso non sono sempre stati buoni e al servizio della vita umana. Sono stati troppo spesso autoreferenziali, smarriti in gare di scuola, di bandiere e di mondi. Hanno saziato uno spicchio del mondo mentre rimanevano indifferenti a quella parte che moriva di fame. Hanno costruito industrie, metropoli, sfruttato risorse inquinando mortalmente i mari ed avvelenando l’aria che respiriamo. Hanno connesso la sedicente parte giusta del mondo mentre in altri luoghi, che probabilmente nemmeno sappiamo indicare sul mappamondo, la gente moriva da sola ed in silenzio, nella totale indifferenza. Il progresso ha fatto passi da gigante soprattutto nei settori economicamente più remunerativi, dimenticando le persone e la loro dignità. E’ stato fine a se stesso e portato avanti soprattutto per l’interesse dei più forti.
Affacciati alle nostre finestre, in questo isolamento condiviso, osserviamo un mondo che non possiamo ancora definire migliore, ma con ogni probabilità disincantato. Orfani di quell’illusoria onnipotenza alla portata di tutti, non smettiamo di credere nella scienza e nelle capacità umane di fare il bene, ma abbiamo occhi nuovi.
Abbiamo la consapevolezza che le nostre priorità dovranno cambiare e ciò potrà accadere solo se avremo occhi capaci di vedere oltre quelle nuvole che si affacciano alla nostra finestra.
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Salvador Dalì, “Ragazza alla Finestra”, olio su tela, 1925.

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