Uscire dall’ideologia neo-capitalista dominante
Grande Recessione e “colpevolizzazione” dei Paesi indebitati
di Gianfranco Sabattini
Dopo la Grande Recessione del 2007-2008, il debito, soprattutto in Europa, è diventato un problema all’ordine del giorno, soprattutto dopo l’”imposizione” delle politiche di austerità da parte delle autorità internazionali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea e Commissione Europea) preposte al governo della stabilità dei mercati finanziari; ciò al fine di evitare il rischio di “default” di quei Paesi, tra i quali l’Italia che, nel momento in cui la crisi si è espansa oltre il suo epicentro (gli Stati Uniti) sono risultati maggiormente indebitati.
I Paesi comunitari più esposti al rischio di default hanno dovuto infatti “subire”, per iniziativa del Paese economicamente dominante (la Germania) gli esiti delle politiche fiscali restrittive, suggerite – come sostenuto da più parti – da una “visione ‘colpevolizzante’ dei Paesi indebitati”. Elettra Stimilli, ricercatrice in Filosofia teoretica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, nel suo libro intitolato “Debito e colpa”, pubblicato negli anni immediatamente successivi all’inaugurazione delle politiche di austerità, ha inteso “mettere a fuoco i nodi teorici contenuti nella “relazione semantica [intercorrente tra debito e colpa], attraverso un confronto con i più importanti studi usciti sul debito negli ultimi anni”.
Alla luce degli esiti seguiti all’applicazione delle politiche restrittive, volte a rilanciare la ripresa dell’economia dei Paesi comunitari, l’autrice, attraverso la riflessione sulle regole adottate negli anni più critici della crisi per la regolazione del debito, ha inteso dare una risposta alla domanda se l’essere in debito implichi effettivamente “una condizione da emendare”, come l’ingiunzione autoritaria dei sacrifici imposti dal rigorismo monetario tedesco sembra suggerire. A differenza dei molti lavori recenti sul debito e degli antichi giudizi sul capitalismo come “culto indebitante”, Stimilli ha cercato di formulare la risposta alla domanda, collocando “il problema del debito in un contesto più articolato rispetto a quello strettamente tecnico della scienza economica, usufruendo di risorse provenienti da punti di vista diversi, nel tentativo di condurre un’indagine in cui l’economia non sia più collocata entro confini troppo angusti, ma riacquisti il confine più ampio che le spetta”.
Muovendo da questi presupposti, Stimilli ha potuto affermare che, se l’”essere in debito” è oggi l’esperienza prevalente, che la crisi della Grande Recessione ha portato in evidenza come fenomeno di grandi proporzioni, occorre tuttavia riconoscere che su di esso grava ancora una “certa opacità” che occorre rimuovere. Dall’inizio del nuovo millennio, l’abbondante disponibilità di risorse finanziarie ha spinto gli operatori economici, soprattutto negli Stati Uniti, ad effettuare operazioni di credito secondo modalità mai sperimentate prima di allora; sono state così create le premesse che hanno alimentato la formazione di una bolla speculativa sul mercato immobiliare, per via del fatto che l’unica garanzia richiesta ai beneficiari del credito era espressa da una ipoteca sulla casa acquistata con la linea del credito ricevuto.
La facilitazione dell’accesso al credito ha introdotto una cesura tra il tenore di vita delle persone dotate di redditi medio-bassi e l’andamento del reddito percepito sulla base del lavoro svolto; le nuove operazioni di credito inaugurate hanno così dato origine a mutui altamente aleatori, per l’elevato rischio di insolvenza che comportavano. L’indebitamento, anche se privo di adeguate forme di garanzia, è diventato per questa via il motore principale dell’economia americana; motore, che però si è “inceppato” nel 2006, a seguito dello scoppio della bolla alimentata dall’eccessiva espansione del credito immobiliare (ma anche di quello al consumo) senza la copertura delle garanzie necessarie.
Quando gli effetti della crisi del mercato immobiliare americano hanno “contaminato” l’economia globale, i problemi inizialmente legati al ricorso all’indebitamento privato (oltre ogni limite economicamente giustificabile) si sono estesi nel 2009 al debito pubblico di molti Paesi economicamente avanzati, come quelli dell’Unione Europea, creando le premesse per l’inasprirsi della crisi; ciò a causa dei consistenti stock di titoli del debito pubblico detenuti dalle banche, i cui livelli patrimoniali minimi sono stati ripristinati con l’erogazione a loro favore di denaro pubblico, acquisito attraverso operazioni di indebitamento dello Stato sul mercato finanziario internazionale.
Se una forma di indebitamento planetario “risulta alla base degli ingranaggi dell’economia mondiale – afferma Stimilli -, vale allora la pena chiedersi cosa in essa è in gioco e perché [...] la figura centrale che emerge ai nostri giorni è diventata quella del debito”. Secondo l’autrice, per rispondere è necessario collocare le questioni del debito “in un contesto più vasto” di quello strettamente economico; questioni che, nelle analisi politiche prevalenti (oltre che economiche), sono considerate “modalità correlate al sistema produttivo”: l’appropriazione e lo scambio. Poiché l’appropriazione, in un contesto politico “bene ordinato”, è un processo economico regolato da un corrispondente processo politico, occorre stabilire che tipo di istituzioni chiami in causa l’atto appropriativo fatto valere su tutto ciò che è il risultato della collaborazione sociale.
A parere di Stimilli, lo studioso che ha illustrato “in maniera netta” la natura dell’atto appropriativo dal punto di vista istituzionale è stato il giurista realista tedesco Carl Schmitt; per spiegare la natura politica dell’atto, egli risale ai significati originari del termine greco “nómos”, che significa, oltre che regola, in primo luogo, “prendere/conquistare”, in secondo luogo, “spartire/dividere” e, in terzo luogo, “coltivare/produrre”. Per Schmitt – sottolinea Stimilli – i tre significati esprimono altrettanti processi (del prendere, dividere e produrre) che, secondo le parole del giurista tedesco, riassumono la regolazione, cioè l’“essenza di ciò che finora, nella storia umana, è apparso come ordinamento giuridico e sociale”. L’atto appropriativo, quindi nella prospettiva schmittiana, appare – afferma Stimilli – “originariamente connesso al processo di formazione di norme giuridiche e all’azione politica alla base dell’istituzione dello Stato nazionale moderno”; in questo senso, i tre momenti del prendere, dividere e produrre sono gli atti fondativi presupposti alla formazione dello Stato attraverso cui sono definiti i meccanismi di appropriazione del prodotto sociale, o quanto meno le modalità della sua divisione tra tutti i componenti della popolazione dello Stato.
Com’è noto, ricorda ancora Stimilli, il primo studioso ad evidenziare l’importanza politica del problema dell’appropriazione in ambito economico è stato Karl Marx, attraverso la teoria del plusvalore, secondo cui il capitalista, con lo sfruttamento del lavoratore nel processo di produzione, si appropria, non pagandola, di una determinata quantità del lavoro reso. E’ interessante notare – continua Stimilli – come “tanto per Schmitt, quanto per Marx, l’’appropriazione’ sia all’origine di una tensione specificatamente politica, che si rende visibile fra fronti contrapposti”, espressi dai partecipanti alla distribuzione del prodotto sociale.
Nelle due prospettive di analisi del processo appropriativo (quella schmittiana e quella marxiana), lo Stato assolve però ad una funzione diversa: per Schmitt, lo Stato nazionale moderno, a differenza dello Stato liberale di diritto (che, vittima di una deriva economicista, ha perso gran parte delle sua energia costitutiva) si fa carico del governo del processo distributivo del prodotto sociale; per Marx, invece (che si muove all’interno della teoria economica classica, impostando il suo discorso sullo sfruttamento sul piano materiale dell’economia) le istituzioni politiche fanno parte delle sovra-strutture, negando alla natura giuridica dello Stato il ruolo di regolatore del processo distributivo.
Stimilli ritiene che la prospettiva schmittiana di analisi del processo di appropriazione sia più interessante di quella marxiana; ciò perché, con essa, già dai primi anni Cinquanta del secolo scorso, Schmitt ha saputo prevedere come, nell’età della globalizzazione, quando il mercato mondiale fosse diventato dominante sulle strutture politiche degli Stati, il problema della appropriazione sarebbe stato regolato fuori dalla sfera del politico. I fatti più recenti hanno dimostrato la fondatezza della previsione schmittiana, per via del fatto che il processo di appropriazione fuori da ogni forma di regolazione politica ha causato livelli di disuguaglianza distributiva, tali da divenire, dal punto di vista economico, gli aspetti più rilevati dell’attuale stato del mondo e da giustificare la comparsa di un nuova struttura istituzionale, né giuridica, né economica, ma di tipo amministrativo. Questa nuova struttura, coinvolgendo lo Stato e il mercato, ha “trasformato la configurazione che questi hanno assunto in età moderna”, facendo emergere una “forma di indebitamento planetario”, che ha rimesso in discussione le modalità del processo di appropriazione e la validità delle politiche economiche tradizionali.
Infatti, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, lo Stato nazionale moderno si è trasformato, con l’avvento dell’ideologia neoliberista, in “Stato manageriale”; quest’ultimo – sostiene Stimilli -, oltre “ad implicare un’enorme trasformazione dei modi di produzione, ha anche coinvolto l’istituzione di Stati più flessibili, reattivi, fondati sul mercato e orientati verso il consumatore”. Ma tutto ciò si deve anche alla trasformazione della politica in economia, avvenuta non tanto per l’”invasione e la conquista, per così dire dall’esterno, da parte del mercato divenuto globale”, quanto attraverso l’assunzione, da parte degli Stati della logica del mercato a fondamento dei loro processi decisionali. Per questa via, prosegue Stimilli, l’”espansione del mercato finanziario e il finanziamento del debito pubblico sui mercati delle obbligazioni [sono divenuti] il risultato di un processo che ha visto gli Stati in primo piano nella gestione di un potere manageriale”; un mutamento che ha investito “nel profondo lo statuto della politica e il processo di istituzione delle norme” che nello Stato nazionale moderno erano valse a disciplinare il processo distributivo del prodotto sociale.
Muovendo da questi presupposti occorre allora cercare di comprendere, non solo i possibili sviluppi del fenomeno dell’indebitamento, che ha investito tanto i singoli individui quanto gli Stati nazionali, ma anche le possibili implicazioni esistenziali negative a livello individuale; tutto ciò per chiedersi, infine, se alla dissoluzione del politico esiste un qualche rimedio.
Alla base del primo punto (riguardante i possibili sviluppi del fenomeno dell’indebitamento) vi è l’idea, propria dell’ideologia neoliberista, che il livello del prodotto sociale dipenda dalle modalità del suo consumo, strettamente connesse a forme di indebitamento, per alimentare una domanda finale finanziata dal debito privato, grazie ad una crescente fiducia nei mercati finanziari, nel presupposto che gli esiti delle continue crisi possano essere rimosse da ricorrenti politiche di austerità. In questo contesto, il debito deve trovare sempre nuove forme di investimento, mentre la necessità che venga di continuo espanso evidenzia la sua implicita inestinguibilità; un indebitamento crescente e inestinguibile è divenuto, così, il motore della crescita economica.
Proprio da quest’ultima considerazione sul crescente indebitamento (considerato come motore della crescita economica) deriva l’aspetto problematico delle implicazioni esistenziali negative originate dall’inestinguibilità del debito; quest’ultimo diventa così una “colpa”, che cambia al mutare delle condizioni che l’hanno generata. In questo contesto, il debito non è più uno stato personale da emendare secondo la sfera del diritto, ma una condizione esistenziale negativa, implicante la presenza nell’individuo di un senso di colpa, che lo motiva ad effettuare “forme ossessive di consumo volte a compensare la convinzione a non essere adeguati” a quanto richiesto per assicurare la crescita continua della produzione.
La necessità di uscire dalla morsa degli effetti negativi causati dalla dissoluzione del politico impone l’urgenza di una riflessione sul come liberarsi da una condizione esistenziale che sembra non offrire alcuna via di fuga. Al riguardo, Stimilli conclude la sua analisi critica su “debito e colpa” affermando che, “se è vero che ogni società è in grado di produrre un tipo d’uomo di cui ha bisogno” per liberarsi dalle pastoie che impediscono ai suoi componenti di vivere una “vita buona, allora diventa necessario individuare i meccanismi che sono all’origine del sensi di colpa”, dei quali l’uomo è vittima nelle società neoliberiste.
Tra questi meccanismi, quelli che sono alla base della crescita delle disuguaglianze distributive rappresentano, sicuramente, il principale punto di attacco all’ideologia dominante, cui si deve un funzionamento del sistema economico che, anziché essere fonte di liberazione dal bisogno, origina invece un senso di colpa che rende sgradevole la condizione esistenziale dell’uomo.
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Beato il mite, perché sua è la democrazia
di Giovanni De Luna
in “La Stampa” del 13 febbraio 2020
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La politica italiana ha bisogno di mitezza. Troppi i rancori alimentati dal web, troppe le polemiche innescate dalle rabbie televisive, troppi gli eccessi dei toni di una campagna elettorale ininterrotta. La «mitezza» è stata recentemente invocata sia in piazza dalle sardine sia, sull’onda dell’insegnamento di papa Francesco, nel dibattito culturale da prestigiosi intellettuali cattolici (Stefano Zamagni). Ma di mitezza parlò a suo tempo soprattutto Norberto Bobbio. Elogio della mitezza è il titolo di una conferenza (poi diventata libro) che tenne a Milano nel 1983. C’era allora un’intera generazione che stava congedandosi dalla violenza, ma anche dalla passione politica; dalla militanza, ma anche dalla speranza. Il suo intervento aiutò molti ad archiviare la protervia di chi si sentiva depositario di grandi certezze, accettando la lezione della tolleranza e della necessità del confronto con l’altro.
Non fu facile per Bobbio farsi capire da quei giovani. La mitezza rinviava all’umiltà, alla mansuetudine, all’innocenza delle vittime, sembrava una di quelle virtù incompatibili con il pensiero laico dell’azione e dell’impegno, un argomento da sermone della domenica, più un appello retorico che una posizione etico-politica. Non era così. Anzi proprio la laicità che ne caratterizzava l’approccio fu quel che alla fine fece breccia anche in chi era stato indurito dalla ferrea concretezza delle ideologie novecentesche.
Nel pensiero di Bobbio, infatti, la mitezza era essenzialmente una virtù sociale e come tale per rifulgere aveva bisogno dell’altro, doveva essere inserita nelle profondità dei legami sociali che tengono avvinta una comunità. Era inoltre una virtù attiva perché suscita in chi la esercita il proposito di incidere sulla realtà, di costruire uno spazio pubblico in cui essa abbia la possibilità di operare proficuamente e dare frutti. Uno spazio non dato in natura, ma da creare e difendere contro ogni pulsione ispirata da una presunta «ferinità» dell’uomo.
Proprio per questo impegno assiduo, il mite, per Bobbio, era esattamente il contrario della vittima, dell’agnello sacrificale che con la sua innocenza aiuta la comunità a espiare le proprie colpe. Oggi la «democrazia del dolore», proposta tanto dai media quanto dal sistema politico, è organizzata intorno alle sofferenze delle vittime e alla loro memoria, creando uno spazio pubblico attraversato da un «eccesso di personalizzazione» delle istituzioni pubbliche, da un linguaggio carico di pathos, da luoghi e rituali di memoria in cui ogni gruppo esibisce le proprie ferite e le proprie offese per sollecitare atti riparatori fondati sulla retorica del perdono e delle scuse. Il travaso di sentimenti così carichi di passioni esistenziali (rancore, dolore, lutto, perdono, vendetta) dalla sfera privata a quella pubblica e la sua ricaduta sulle istituzioni indica i contorni di una «religione civile» molto precaria perché fondata sul dolore per un lutto, sulla richiesta di risarcimento di un torto subito, su un modo agonistico e competitivo di confrontarsi con gli altri, rivendicando una condizione di credito permanente nei confronti del mondo. Il vittimismo divide, la mitezza, invece, unisce.
Per Bobbio, il suo fondamento consiste nel «lasciare l’altro essere quello che è», così da pretendere dall’altro di essere lasciati essere quello che siamo. La mitezza nega radicalmente una contrapposizione tra «noi» e «gli altri» che assume il conflitto come cardine di una nozione binaria di bene e male e si fonda su un meccanismo di esclusione più che di inclusione. In questo senso, il terreno più propizio per l’affermazione della dimensione sociale della mitezza è la democrazia. Bobbio ne sottolinea la dimensione inclusiva («una democrazia non può essere esclusiva senza rinunciare alla propria essenza di società aperta»), la tensione continua «a far entrare nella propria area gli altri che stanno fuori per allargare anche a loro i propri benefici, dei quali il primo è il rispetto delle fedi».
Fuori dai recinti della «democrazia inclusiva» c’è spazio solo per l’arroganza del potere. E proprio in contrapposizione radicale con questo potere, la mitezza di Bobbio si propone anche nell’Italia di oggi come la più impolitica delle virtù, cioè la più radicalmente lontana da chi usa la politica solo
per affermare sé stesso, da chi insegue il successo cavalcando il narcisismo e il compiacimento. L’impoliticità della mitezza è quindi così forte da diventare perciò stesso «politica», costringendo il potere a mostrarsi nella sua nudità, senza gli orpelli che tradizionalmente lo circondano nello spazio pubblico, costringendolo a confessare la propria miseria, a svelare la fragilità della deriva plebiscitaria che spesso lo sostiene.
Può essere la mitezza di Bobbio, in questi aspetti più decisamente politici, il fondamento di una religione civile costruita su un patto di memoria immune dalle contese risarcitorie tra vittime e eredi delle vittime? Bobbio ci ha evidentemente pensato, quando ammetteva di amare le persone miti, «perché sono quelle che rendono più abitabile questa aiuola». C’è quindi bisogno di esempi, di persone in carne e ossa che possano costruire un nuovo, esemplare, pantheon repubblicano. La mitezza di Bobbio ci sollecita a privilegiare il registro della consapevolezza rispetto a quello delle emozioni, il confronto con la realtà rispetto al confronto con la rappresentazione della realtà e sembra indicare come eroi di un nuovo possibile pantheon repubblicano, pensate un po’, i 12 professori universitari (su 1200) che, a suo tempo, non giurarono fedeltà al fascismo dicendo semplicemente «preferirei di no…».
La foto si riferisce all’evento su La mitezza, tenutosi a Cagliari il 14 c.m. con la partecipazione di Giovanni De Luna e Luigi Manconi.
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