Lavorare meno lavorare tutti e salvare il pianeta

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Lavorare meno lavorare tutti e salvare il pianeta
Giacomo Cossu
sbilanciamoci-20
Sbilanciamoci, 3 Febbraio 2020 | Sezione: Ambiente, primo piano
Ogni salto tecnologico comporta un risparmio di tempo di lavoro. Con l’auto elettrica le stime parlano di una perdita del 30% dei posti di lavoro. Ma la transizione ecologica può portare anche benessere e più libertà.

Gli scioperi globali lanciati da Greta e portati avanti da milioni di studenti in tutto il mondo hanno scosso il sistema politico e il dibattito pubblico. Le risposte da parte della classe dirigente sono state del tutto insufficienti, come ha chiaramente detto Greta alla Cop 25 di Madrid del dicembre scorso. Il greenwashing delle multinazionali e dei governi deve essere denunciato e servono soluzioni radicali da sostenere nelle mobilitazioni: una transizione ecologica realmente efficace e democratica è possibile solo se noi cittadini avanziamo proposte concrete dal basso.

Secondo l’Onu entro pochi anni dobbiamo azzerare le emissioni, mentre sarà necessario ridurre il consumo di risorse naturali finite: l’eccesso di produzione e di consumi che continua ad aumentare ogni anno, sta privando le future generazioni delle risorse per vivere, mentre devasta l’ambiente e mette in pericolo la salute con rifiuti e inquinamento. Non basta azzerare le emissioni, serve superare il modello economico capitalista che per definizione è basato sulla produzione sempre maggiore di merci e sulla crescita dei consumi, anche quando sono del tutto inutili.

L’auto elettrica, che tra pochi anni sarà l’unico tipo di auto in vendita a causa delle normative nazionali ed europee che vanno verso il bando del diesel, consentirà un abbattimento delle emissioni climalteranti, ma se prodotta secondo i criteri del mercato potrà comunque causare gravi danni all’ambiente e al nostro futuro. Grazie alle nuove tecnologie di produzione potremo produrla con minori sprechi, ma richiederà comunque l’estrazione di risorse naturali, che sono finite e non possiamo rischiare di esaurire. Servirà quindi produrre un numero inferiore di auto rispetto a quelle presenti oggi nel pianeta, passando dalla proprietà individuale del mezzo alla condivisione di un’auto tra molti più utilizzatori come servizio. La libertà di muoversi non dovrà essere garantita dalla proprietà privata del mezzo, ma da un nuovo sistema di mobilità sostenibile dato dalla condivisione dell’auto elettrica e da un potenziamento del servizio di trasporto pubblico con mezzi ad emissioni zero.

L’esempio dell’auto elettrica è particolarmente significativo perché riguarda un settore strategico come l’automotive, che è stato determinante nello sviluppo economico dell’ultimo secolo. Bisognerà produrre di meno e con minore impiego di risorse, ma quali effetti avranno queste trasformazioni sul nostro futuro lavorativo, una volta terminati gli studi?

Ogni salto tecnologico, inclusi quelli legati alla transizione ecologica, comportano un risparmio di tempo di lavoro. Nel caso dell’auto elettrica, Morgan Stanley stima una perdita del 30% di posti di lavoro a livello mondiale. In questo momento storico, attraversato da forti innovazioni tecnologiche e dall’inizio della riconversione ecologica, rischiamo che questi risparmi di lavoro e di risorse si traducano in ulteriore sfruttamento delle persone e del pianeta, come avvenuto nei salti tecnologici precedenti. Infatti in passato le innovazioni tecnologiche come l’informatizzazione della produzione hanno portato ad accrescere la produzione di merci e di emissioni, senza migliorare la condizione dei lavoratori, che sono sempre più poveri anche quando lavorano per tante ore, oppure sono in larga parte disoccupati. Questo processo ha visto però i più ricchi, coloro che controllano le tecnologie e i mezzi di produzione, diventare sempre più ricchi. E’ normale che sia così, è il capitalismo: ogni risparmio di tempo o risorse viene subito impiegato per ulteriore produzione e profitto, senza sosta e senza limite allo sfruttamento di persone e natura, concentrando la ricchezza sui proprietari.

L’alternativa a questo futuro drammatico è l’indirizzo dell’innovazione tecnologica verso la giustizia climatica e sociale: la transizione deve portare maggior benessere e libertà a tutti, non solo a chi trae profitto dal mercato. Uno dei principali modi per farlo è ridurre l’orario di lavoro di ciascuno e redistribuirlo tra tutte e tutti, senza lasciare escluso nessuno dalla possibilità di guadagnarsi da vivere. I risparmi di tempo legati all’innovazione e alla riduzione della produzione devono liberare il tempo di vita delle persone dal lavoro, per dedicarsi alla propria crescita culturale, allo svago, a qualsiasi attività che migliori il benessere. Si tratta di una importante opportunità per garantire anche maggiore equilibrio e giustizia sociale tra i generi.

Questa redistribuzione non deve ridurre i salari, perché la ricchezza prodotta deve essere redistribuita equamente a tutti i lavoratori, sia tramite aumenti di salario che tramite il welfare universale – case popolari, scuole e università pubbliche e gratuite, sanità pubblica, etc. Inoltre il risparmio di tempo deve portare a ridurre l’età lavorativa, andando in pensione prima e soprattutto passando più tempo nei percorsi formativi raggiungendo i più elevati titoli di studio. Crediamo che sia un diritto di tutte e tutti potersi formare durante tutto l’arco della vita, ma anche non dover cedere al ricatto e all’impossibilità di proseguire gli studi a causa dei loro costi sempre più spesso insostenibili. Ecco perchè serve abolire le tasse universitarie e permettere a tutti di prendere la laurea senza discriminazioni. Infatti l’innovazione richiede molte più conoscenze da parte dei lavoratori e dei cittadini, ma attualmente la maggioranza della popolazione mondiale non ha accesso ai più alti livelli di istruzione. Nel nostro Paese vi è il paradosso per cui nel pieno della trasformazione tecnologica, la classe politica avendo approvato il Jobs Act permette che i 15enni ottengano il diploma andando a lavorare in apprendistato: anziché continuare a studiare e avere incentivi per raggiungere la laurea, veniamo incentivati ad abbandonare gli studi per entrare in aziende spesso arretrate, imparando un lavoro come la produzione e manutenzione di motori diesel che presto dovrà essere superato da nuove occupazioni più qualificate. Al contrario dovremmo subito portare l’obbligo scolastico ai 18 anni.

Questa prospettiva di innovazione e sostenibilità ecologica ed economica non è raggiungibile tramite la libertà di mercato: rappresenta la completa sovversione della logica di mercato. Inoltre la rapidità della transizione che viene imposta dalla catastrofe climatica – abbiamo solo 10 anni prima di danni irreversibili secondo l’IPCC – impone una programmazione dello sviluppo economico sostenibile che non potrebbe arrivare dal mercato, ma deve vedere un protagonismo degli Stati. La programmazione statale è necessaria innanzitutto rispetto al finanziamento dell’istruzione e della ricerca ma anche rispetto all’investimento sui settori strategici e sulle nuove forme di produzione. Dove i privati non vogliono investire o non hanno sufficienti risorse, lo Stato deve attuare la giustizia climatica tassando chi ha fatto profitti sullo sfruttamento delle risorse e delle persone, e investendo sulla transizione ecologica tramite le nazionalizzazioni delle industrie strategiche. Il ruolo dello Stato è anche quello di compensare la perdita di occupazione nell’industria, assumendo milioni di laureati nei settori che non inquinano e consumano poche risorse, ma migliorano la qualità della vita: la sanità, la cultura, l’istruzione, la cura di anziani e diversamente abili, etc.

Questa è un’utopia concreta, realizzabile con scelte politiche radicali. Dobbiamo essere realisti: non c’è alternativa alla transizione e non abbiamo tempo da perdere. Questo processo deve essere democratico e portare vantaggi per tutti, non per pochi. Il 24 aprile scenderemo in piazza nel quinto sciopero globale con un progetto chiaro: lavorare meno, lavorare tutti, per salvare il nostro futuro.
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Disuguaglianze
occorrono più crescita e sicurezza

Francesca Cicoria, su Rocca.
Una delle sfide più importanti che andrebbero affrontate nell’epoca contemporanea è certamente la riduzione delle disuguaglianze. Esse inevitabilmente generano instabilità politica, proteste di massa, conflitti che possono evolvere in guerre. L’allarme è stato lanciato dall’Onu, nel World Social Report, che registra dal 1990 una crescita della disuguaglianza per più di due terzi della popolazione mondiale. L’1% della popolazione di 18 Paesi, tra cui Stati Uniti, Russia, India e Brasile, detiene oltre il 20% della ricchezza mondiale. La quota di reddito che va all’1% più ricco della popolazione mondiale è aumentata in 46 Paesi sui 57 per i quali sono disponibili i dati 1990-2015, mentre il 40% con i redditi più bassi ha guadagnato il 25% in meno in 92 Paesi. Del problema se n’è parlato in Vaticano alla Casina Pio IV nel giorno di apertura del workshop «Nuove forme di fraternità solidale, di inclusione, integrazione e innovazione» promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Per il Presidente Stefano Zamagni «La novità dell’ultimo trentennio è che sono le regole, cioè la struttura delle relazioni economiche, a generare le disuguaglianze indipendentemente dalla volontà delle persone. Oggi le disuguaglianze sono provocate dal modo in cui funziona la finanza speculativa Internazionale». Oggi la finanza è autoreferenziale, non persegue più il suo vero fine che è quello di favorire l’economia reale e lo sviluppo. L’economista Zamagni ritiene che sia necessario «un patto globale per modificare le regole del gioco economico, a livello soprattutto internazionale». Non meno importante è la «solidarietà» tra i popoli, i governi e le organizzazioni internazionali, uno dei «tre pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa, assieme alla sussidiarietà e al bene comune».
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