« Come abbiamo fatto ad arrivare a tutto questo?»
REDDITO DI CITTADINANZA
il divario tra obiettivi e risultati
di Fiorella Farinelli
Liberare la discussione pubblica da faziosità, strumentalità, falsificazioni. Restituirle il rispetto dei fatti, la capacità di entrare nel merito, il contributo della competenza, intenzioni e prassi collaborative nella ricerca delle soluzioni. Hanno ragioni da vendere le Sardine a farne la ragione primaria del loro ingresso nello spazio pubblico. Senza, non c’è politica, e senza politica non c’è Polis, comunità, coesione sociale, fiducia nelle istituzioni. Emblematica è la discussione, a un anno ormai dal suo varo, del reddito di cittadinanza. Invece che l’analisi, dati alla mano, della distanza tra obiettivi e risultati, a prevalere è il solito confuso panorama fatto di contrapposizioni pregiudiziali o di giravolte dell’ultim’ora, di sottovalutazioni e ipocrisie, di silenzi e tatticismi. I poveri – assoluti, le famiglie disagiate con molti figli, quelli che il lavoro l’hanno perso senza alcun paracadute, quelli che non possono neppure cercarlo per fragilità soggettive, i disoccupati di lunga durata, i bambini a rischio di povertà educativa, i giovanissimi già in stato di marginalità sociale, una discussione politica fatta così non la meritano. Come non meritano le narrazioni di media che schiacciano tutto sotto il peso dei soliti furbetti, chi ha ottenuto il sussidio senza averne i requisiti, chi ne approfitta per lavorare in nero, i «divanari» che si risparmiano la fatica di cercare lavoro, e così via. Non che situazioni di questo tipo non ci siano in un paese dove anche delle indennità di disabilità si è sempre fatto mercato, ma non sono certo tutto quello che va controllato, prevenuto, modificato.
e ora che si fa?
Il contrasto della povertà, il sostegno al «lavoro povero», le politiche attive del lavoro sono temi serissimi, averli intrecciati insieme nello stesso provvedimento è stato un grave errore, uno dei tanti, del reddito di cittadinanza, ma ora che si fa? Sugli errori fatti, prevedibili fin dalla definizione del testo normativo e confermati dalla sua attuazione, si vuole solo lucrare politicamente, o si può cercare, riconoscendo gli errori e assumendosi finalmente serie responsabilità sia dal governo che dall’opposizione, di rendere più efficaci i tanti soldi che costa? O si preferisce svicolare, aspettando furbescamente il boomerang delle inchieste giornalistiche e giudiziarie che prima o poi lo travolgerà? Sulla linea della strumentalizzazione politica con annessa giravolta dell’ultim’ora, campeggia ovviamente Matteo Salvini, che da dominus del governo giallo-verde che quel reddito di cittadinanza l’ha fortemente voluto si è, ora che è all’opposizione, trasformato cinicamente in suo acerrimo detrattore, il reddito che non permette le assunzioni, che favorisce il lavoro nero, che viene elargito a ex brigatisti e ex detenuti, che i buonisti vorrebbero regalare a tutti gli immigrati.
Su quella della minimizzazione dei problemi e della richiesta di altro tempo per risolverli (ma quanto?), in particolare sul versante per ora nettamente fallimentare delle politiche attive del lavoro, ci sono il Conte 2 col suo socio del cuore Luigi Di Maio. Su quella del masticare amaro ma senza la capacità di imporre una discussione di verità e una ricerca di soluzioni c’è poi il Pd, per timore che le tensioni dentro il governo giallorosso si facciano insopportabili. Reticenze e genericità sono anche nelle organizzazioni sindacali, mentre più propositive sono le tante associazioni contro la povertà che, per ora inascoltate, temono guasti ulteriori, alla prima stretta finanziaria, emergenza economica, cambio di maggioranza di governo, se non si dovesse metter mano alle criticità più vistose.
il fallito contrasto alla povertà
Ma come stanno le cose in tema di contrasto alla povertà? A cosa sono serviti i 6 miliardi stanziati per il 2019? Il risultato positivo è che, tra reddito e pensione di cittadinanza, si è pressoché triplicata, con più di 1 milione di nuclei familiari e 2 milioni e 451.000 individui coinvolti, la platea dei beneficiari del reddito di inclusione (ReI) che nel 2018 aveva intercettato solo 359.000 famiglie. Un avanzamento importante – che insensibilità sociale e che avarizia ci sono state, purtroppo, in quel tardivo provvedimento sul ReI del gover- no Gentiloni – che non può tuttavia far di- menticare che gli individui poveri sono, secondo Istat, ben 5 milioni, e neppure che i 6 miliardi stanziati non sono stati interamente spesi perché il numero delle domande è stato assai inferiore alle attese.
I motivi sono più di uno. Il primo è che dei 5 milioni di poveri fanno parte molti nuclei familiari di immigrati volutamente esclusi da una norma che – «prima gli italiani!» – ha limitato l’accesso al sussidio ai soli residenti in Italia, regolarmente e continuativamente, da almeno dieci anni. Il secondo dipende invece dal non aver voluto affidare all’infrastruttura di servizi sociali istituita per il ReI (mai, è ovvio, può esserci continuità con ciò che è stato fatto dagli odiosi governi precedenti), l’erogazione del sussidio. Ma solo un welfare locale, incentrato sui servizi comunali che conoscono anche personalmente i soggetti in maggiore difficoltà, può intercettare i bisogni reali e attivare le domande delle persone più marginali, quelle senza residenza stabile e senza relazioni, quelle che da sole non sono in grado di informarsi, né di rivolgersi a chi potrebbe aiutarle. L’unico in grado, inoltre, di combinare il sussidio con altri tipi di intervento – nei campi dell’abitazione, della salute, dell’assistenza ai disabili e ai malati, dell’educazione e del- la formazione professionale – utili a favorire il rafforzamento delle risorse personali e lo sviluppo dell’inclusione sociale. Ed è da qui che bisognerebbe ripartire, per far uscire le persone , quando è possibile, dalla dipendenza totale dall’assistenza. C’è dunque molto da fare, per allargare la platea dei beneficiari includendo i più poveri non solo di risorse economiche ma anche di salute, educazione, competenze professionali, relazioni. Non basta, come molti a sinistra hanno fatto e continuano a fare, irridere il Di Maio che dai balconi si arrogò l’anno scorso il merito storico di aver «abolito la povertà». C’è infatti dell’altro che emerge dai dati, e che i dati suggeriscono di fare. L’essersi impuntati, per evidenti motivi di consenso elettorale, sui famosi 780 Euro mensili – quasi il doppio degli importi che in Francia e Germania sono previsti per una persona singola priva di risorse – non ha solo attivato un sussidio troppo vicino per entità ai salari dei lavori poveri, e quindi capace di scoraggiare la ricerca di un lavoro (magari malpagato ma pur sempre occasione di possibile sviluppo delle competenze e suscettibile di miglioramenti), ma ha anche ristretto le risorse per calibrarne l’ammontare secondo il numero dei familiari. Si è arrivati così all’assurdo, denunciato da più parti, per cui un nucleo familiare di sei componenti finisce col ricevere in media solo 150 Euro in più di una coppia senza figli. Un paradosso, considerati gli alti livelli della povertà minorile, e il surplus di responsabilità che si richiederebbe in questo caso alle istituzioni. Tra i nuclei familiari che beneficiano del RdC quelli con minori sono sì solo 368.000 su 895.000 ma rappresentando quasi il 60% del totale delle persone. Sono dunque tanti i limiti da correggere e le modifiche da apportare, anche dove il reddito di cittadinanza ha colpito meglio il bersaglio.
svolte per salvare il salvabile
Assai più problematica, per non dire disperata, la situazione sul versante, tanto enfatizzato dai gialloverdi, del rapporto tra reddito di cittadinanza e politiche attive del lavoro. Dove le scelte compiute sono così intrise di malafede e di ignoranza della complessità del tema da richiedere, per salvare il salvabile, svolte decisive. Tra Centri per l’Impiego da innovare, navigators da reclutare-formare-rendere operativi e poi fare accettare alle Regioni, e – soprattutto nel Sud – carenze di lavoro disponibile per quel tipo di offerta, il panorama attuale dei risultati non è lontano da un clamoroso fallimento.
Premesso che la platea dei diretti interessati è fatta – su 2 milioni e 200.000 percettori del reddito – di soli 700.000 definiti «occupabili», e che di questi solo 200.000 sono stati finora presi in carico, o comunque censiti, dai Centri per l’Impiego, non c’è alcuna ragionevole certezza che ciò abbia prodotto, oltre a qualche migliaio di tirocini, un numero significativo di nuovi contratti di lavoro. Che, secondo quanto fatto circolare dal governo, sarebbero 18.000 (una quota modestissima, quindi, rispetto non solo ai 700.000, ma anche ai 200.000), ma che secondo vari osservatori sarebbero dovuti non al successo dei servizi per l’impiego nell’incrociare la domanda con l’offerta bensì a un’autonoma ricerca del lavoro da parte di soggetti interessati, capaci di guardarsi attorno e prov- visti delle giuste competenze. Vedremo.
il problema della bassa scolarizzazione
Ma intanto dal censimento pur parziale dei percettori di reddito «occupabili», filtrano elementi inquietanti perché emerge che sono moltissime le persone, non solo in area meridionale, la cui occupabilità è bassissima perché privi, oltre che di esperienze di lavoro e di competenze professionali acquisite sul campo, perfino del completamento dell’obbligo scolastico. Quindi poco attrattivi per le imprese e «adatti» solo a lavori a bassa o nulla qualificazione, gli stessi su cui però in alcune aree territoriali agisce la concorrenza de- gli ultimi degli ultimi, cioè gli immigrati disposti – o meglio costretti da condizioni di irregolarità – a salari bassissimi, a lavori in nero, a condizioni di lavoro molto faticose. Una sorpresa? Niente affatto, lo sappiamo da sempre quanto incida sulla marginalità sociale e lavorativa la bassa scolarizzazione, e sappiamo anche che da decenni e ogni anno sono decine di migliaia i ragazzi che lasciano non solo la secondaria superiore ma anche la scuola dell’obbligo senza averla conclusa. Ma cosa si sta facendo, a fronte di questa emergenza, per superarla? Sebbene la legge sul reddito di cittadinanza dichiari tra i suoi obiettivi anche quello di favorire il diritto all’istruzione e alla formazione professionale, in questi mesi non c’è traccia di programmi nazionali mirati al recupero, in questa fascia di adulti, dei titoli di studio, delle qualifiche e dei diplomi professionali, delle competenze informatiche e linguistiche necessarie per un più agevole inserimento o reinserimento nel lavoro regolare. I ministri, anche quelli dell’istruzione, pensano ad altro, e le Regioni pure. Se ne può, almeno provvisoriamente, concludere che, se non si interviene né sul lato dell’offerta di lavoro (in termini di capacità di lavoro delle persone) né su quello della domanda (incremento delle richieste di lavoro da parte delle imprese), le politiche attive – sempre che si riesca a concretizzarne gli strumenti implementando in quantità e qualità l’attività dei Centri per l’Impiego – rischino di andare incontro a un diffuso fallimento. O di ridursi a un accompagnamento degli avviabili al lavoro da una condizione di poveri in cerca di lavoro a quella di lavoratori poveri e precari.
Non c’è via di uscita, se non ci saranno svolte positive tramite massicci investimenti in sviluppo produttivo (paradossalmente impediti anche dal forte impegno finanziario in reddito/pensione di cittadinanza, oltre che nell’altro geniale provvedimento denominato «quota 100»), se non abbassare il costo del lavoro per incoraggiare nuove assunzioni (una via già delineata dalla legge, ma da incrementare) e erogare sussidi pubblici alle basse retribuzioni, anche con l’introduzione di un «salario minimo». L’alternativa sono, checché se ne dica, sussidi assistenziali che negano la dignità e le potenzialità di crescita delle persone, e le espongono alla miseria di logiche clientelari e corruttive. Ci sarà, nei prossimi mesi, l’energia politica per affrontare problemi di questa natura? E, preliminarmente, la responsabilità di discuterne con serietà e responsabilità? Care Sardine, datevi da fare.
Fiorella Farinelli
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ROCCA 15 GENNAIO 2020
LAVORO E SOCIETÀ
i cupi colori della nuova schiavitù
di Ritanna Armeni
Ci sono cose che si sanno e si ritengono assodate. Che c’è la globalizzazione, per esempio, che questa ha sconvolto il mondo del lavoro, che ha creato insicurezza e precarietà, che ha cambiato anche – e a fondo – le nostre abitudini, il nostro modo di consumare e di vivere. Ripeto: si sa. Poi un giorno si va al cinema a vedere un film di un regista che si ama molto, Ken Loach. Il film s’intitola «Sorry, we missed you», «Spiacenti, non vi abbiamo trovato» (la frase del cartoncino lasciato dal corriere se il cliente è assente), e si capisce che quel che avevamo pensato e anche intravisto attorno a noi, quel che ci dicevano le statistiche, che qualche volta leggevamo nei libri e, raramente, anche sui giornali, ci aveva dato un’immagine edulcorata e solo sbiadita di quel che è oggi il mondo del lavoro. Che non è solo brutto, incerto, dominato dallo sfruttamento. Questo, appunto, lo sapevamo già. Quel che Ken Loach ci dice con lucidità e persino spietatezza e che è diventato il luogo di una nuova schiavitù e della disperazione. E fra sfruttamento e schiavitù, fra sconforto e disperazione c’è una bella differenza.
Ma cominciamo dall’inizio. Una famiglia, un uomo, una donna, due figli. Lui fa un nuovo lavoro, il corriere, appunto, di una delle tante ditte che consegnano a domicilio. Potrebbe essere Amazon, per capirci.
Potrebbe essere quell’uomo che almeno una volta la settimana ci consegna il pacco che abbiamo ordinato via Internet, o il giovane che ci porta la pizza ancora calda per cena. Quattordici ore di lavoro, sei giorni su sette, uno scanner che controlla ogni tuo passo, una bottiglia per pisciare dentro il camioncino perché non si possono perdere minuti preziosi per cercare un bagno. Niente assicurazioni e garanzie, tanti rischi, nessun diritto, di corsa per riuscire a vivere, o piuttosto per riuscire ad arrivare la sera a un letto che ti consente di riprendere forze per il giorno dopo e ricominciare. Non ci sono padroni, o almeno non si vedono, nel film di Loach, c’è solo un piccolo prepotente capetto, che somiglia a un ingranaggio, non ci sono sindacati, non c’è protezione di alcun tipo. C’è un «sistema», nella sua assurda astrazione, rappresentato da una macchinetta che dà ordini, controlla i minuti, monitora clienti e movimenti, conosce ogni spostamento e non dà tregua. Un oggetto piccolo e nero che si tiene in mano e che collega «il mercato» grande, invisibile, ma incombente al lavoro, o meglio all’uomo che lavora. E un’illusione che porta il protagonista Ricki direttamente all’inferno: quella di essere padrone del proprio destino, di non lavorare «per» un qualcuno ma «con» qualcuno. E per chi è padrone di se stesso non c’è bisogno di garanzie e diritti.
L’illusione diventa un incubo che Ricky vive ogni giorno nella corsa fino all’ultimo minuto, nella impossibilità di vivere gli affetti e la famiglia, nella disperazione che si estende agli altri, ai figli, alla moglie. Lavoratore? Sfruttato? Precario? No, piuttosto schiavo, legato dalla catena invisibile che è quella del consumo di tutti noi, dominato e diretto dall’alto attraverso le macchine e la tecnologia.
C’è poi la donna, Abby, moglie, madre e badante di tanti anziani non più autosufficienti. Una figura importante, ma che per incomprensibili motivi, nelle tante recensioni del film, trascurata. Eppure la vita di Abby ci mostra un altro spaccato di tragedia e di disperazione. I vecchi, malati, incontinenti, dementi che lei visita ogni giorno di corsa, con umanità amore e dedizione, sono gli scarti di una società che non produce più spontaneamente e naturalmente amore ma che lo delega a pagamento, a tempo parziale alle cure di una donna che, anch’essa sottopagata, dalle sette del mattino alle nove di sera gira per le case offrendo a pagamento quel che la famiglia, i figli, i coniugi, le madri e padri, non riescono più a dare. L’amore ai tempi della Gig economy dell’i commerce è solo limitato e a pagamento e se, di tanto in tanto fiorisce, come nel caso di Abby che ama i suoi pazienti (clienti), è un bocciolo unico e sofferente in una spianata di duro e grigio cemento. Affetto che si dà, certo, ma che si toglie. Ai figli, che hanno una madre e un padre sempre assenti, a se stessi, alla propria vita.
Il lavoro si tinge di tinte fosche nel film di Ken Loach. Ma sono le «sue» tinte, quelle nascoste, quelle appena intraviste nelle statistiche sulla disoccupazione e sulla precarietà o occultate dagli asettici dati sull’economia. Sono i colori cupi della nuova schiavitù e della disperazione. Sono i colori dell’assenza. Perché nel lavoro moderno, in cui il patto con il capitale si è infranto e la frana ha portato via sicurezze e diritti, sono le assenze che diventano gigantesche e incombenti. L’assenza di una solidarietà che aiuti i deboli, di un sindacato che sappia organizzare chi lavora, di una sinistra che offra prospettive migliori e diverse. Tutto questo non c’è più attorno a noi e non c’è nel film del regista inglese. Non c’è neppure nello sfondo, non è oggetto di nostalgia, di rimpianto e di rabbia. Semplicemente è finito. Fa parte di un mondo passato di cui i giovani non hanno neppure la memoria. Non lo vediamo e non lo troviamo più. E con esso è finita la dignità, la gerarchia dei valori, la capacità di amare. Rimane la sopravvivenza e la domanda amara che non ci si può non porre alla fine del film: « Come abbiamo fatto ad arrivare a tutto questo?».
Ritanna Armeni
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- L’illustrazione in testa è tratta da Rocca n.2 del gennaio 2020.
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