Che succede?

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Una domanda alle Sardine: il nemico è il populismo o l’ingiustizia sociale?
di Tomaso Montanari su Volerelaluna
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Tutto ciò che va contro Salvini, tutto ciò che riporta in piazza la gente dalla parte giusta, va bene: giusto pensarlo e giusto dirselo. Ma lo strepitoso successo delle Sardine comporterà infine un’erosione elettorale della destra, o alla fine lascerà intatte le ragioni di quel consenso? Una domanda ineludibile: e che vale sia sul brevissimo termine delle elezioni emiliane, sia su quello più medio-lungo. Perché è evidente che un altro mandato di Bonaccini sarà probabilmente meno peggio di un’Emilia Romagna nera, ma, se poi Bonaccini governerà come finora ha governato, la Lega non potrà che crescere ancora, e infine vincere (e lo stesso discorso vale per la Toscana).

Marco Revelli ha notato che le critiche alle Sardine assomigliano ai discorsi della gente che dà buoni consigli non potendo più dare cattivo esempio. Ha perfettamente ragione, ma, come ha scritto George Orwell, «per difendere il socialismo, occorre cominciare attaccandolo».

Leggendo i tweet entusiasti del peggior PD e i peana che si susseguono sui grandi giornali che hanno avuto un ruolo cruciale nel demolire la sinistra; sapendo che a Torino vi confluiscono le Madamine Si Tav e i vertici della Compagnia di San Paolo, a Milano i più accesi sostenitori dell’Expo e a Firenze il sottobosco politico del governo delle Grandi Opere, la domanda che affiora alle labbra è: siamo di fronte a una gigantesca strumentalizzazione, o c’è qualcosa, nelle Sardine stesse, che ne autorizza questa tranquillizzante interpretazione “di sistema”?
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lampadadialadmicromicroUn’impertinente correlazione
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Il manifesto del movimento individua il proprio nemico nel “populismo”. Il che significa considerare alla stessa stregua il consenso al Movimento 5 Stelle e quello al sovranismo neofascista di Salvini: è questa, mi pare, una prima connotazione “di sistema”. Ma ammettiamo che il vero bersaglio sia la Lega: siamo sicuri che considerarla la causa del nostro male collettivo, e non l’effetto di un altro male più antico e profondo, sia la strada giusta? Personalmente, non credo che il successo dell’estrema destra sia la malattia. Credo invece che quel consenso sia il sintomo mostruoso della vera malattia: l’enorme ingiustizia sociale che ha sfigurato questo Paese. La destra estrema appare l’alternativa – nera, terribile, portatrice di morte – a un ordine mondiale che si predicava senza alternative. E invece le nostre Sardine sembrano convinte – almeno a leggerne i testi – che il problema sia il populismo: e non l’ingiustizia e la diseguaglianza (parole assenti dai loro manifesti).

Per capire meglio, sarebbe necessario esplicitare alcuni punti della pars costruens del manifesto: «Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono. E torneremo a dargli coraggio, dicendogli grazie». Un testo che diventerebbe chiaro, e interpretabile, se di questi politici fossero fatti i nomi.

Il passo chiave, invece, è quello in cui si legge: «Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto». Ora, chi potrebbe contestare tutto questo? Ma rimane una domanda: è bellissimo che chi è in grado di aiutare gli altri, si ribelli alla sporca retorica della estrema destra, ma non dovremmo forse anche chiederci perché ci siano così tanti “altri” da aiutare? E, soprattutto, non dovremmo domandarci se il punto critico non stia nello smontaggio dello Stato (cioè nel progetto della Costituzione), che questi “altri” avrebbe dovuto aiutare? Ancora: non sarà che il silenzio e la solitudine di questi “altri” è il nostro vero problema?

In piazza con le Sardine sembrano esserci soprattutto i “salvati”, o almeno è questa l’estrazione delle guide del movimento. Certamente sono salvati ben diversi da quelli che stanno davanti alla televisione, e tacciono di fronte al dilagare della destra. Ma questi salvati finalmente in movimento hanno coscienza delle ragioni per cui i “sommersi” votano in massa per Salvini, o ancora più in massa non vanno a votare?

Quando poi si legge come descrivono Milano («La città dove oggi celebriamo i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, che ha dato i natali ad Alessandro Manzoni, ospitato Giuseppe Verdi, dove c’è il Teatro alla Scala, tempio della musica classica e della lirica riconosciuto a livello mondiale»), si capisce perché Giuliano Ferrara, incontenibilmente entusiasta delle Sardine, le abbia definite: «un movimento spontaneo di fiancheggiamento dell’establishment».

C’è da sperare che i prossimi giorni gli diano torto, e che dalle Sardine arrivino risposte chiare e concrete sulle scelte da fare: a partire dalla disponibilità a scendere in piazza coi ragazzi dei “Fridays for Future”. E poi su molte delle questioni spartiacque: sono accettabili gli accordi con la Libia, quale politica del suolo e del territorio è sostenibile, cosa fare dell’autonomia differenziata, e via dicendo? Non si tratta di avere un programma, ma di capire da che parte stanno, davvero, le Sardine. Perché siamo tutti felici che lo spazio pubblico torni a riempirsi di cittadini che non intendono cedere alle sirene dei nuovi fascismi, e sono il primo a voler credere nel valore positivo e liberatorio di questo ritorno collettivo in piazza, che per tanti versi allarga il cuore. Ma se si trattasse di cittadini che sostanzialmente vogliono che l’Italia resti quella che è, fascisti esclusi, saremmo al punto di partenza: perché se l’Italia rimane quello che è – cioè un Paese atrocemente diseguale, con un’economia che uccide e un’ingiustizia crescente – i fascisti continueranno a veder aumentare il loro consenso. Ma se invece le sardine saranno anche un po’ come i salmoni, e sapranno andare contro la corrente del pensiero unico, allora forse avremo una speranza in più.
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Una impertinente correlazione
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Le giovani promesse del bene comune
di Enzo Bianchi
in “la Repubblica” del 25 novembre 2019
Si tratta di ripensare una nuova resistenza (…) In questo senso, l’indignazione delle coscienze contro il contagio dell’odio, che si manifesta in questi giorni nelle piazze del nostro Paese dove i giovani sono stipati come sardine, se avrà la capacità di essere voce non solo “contro” ma anche “per un orizzonte sociale nuovo”, e dunque saprà approdare alla “politica”, può suscitare speranza. Questo lavoro di ricostituzione e riappropriazione dell’orizzonte del bene comune sarà lungo, richiederà fatica e resistenza; ma le nuove generazioni possono esserne protagoniste efficaci.

Tutti denunciano il crescere nel nostro Paese di frustrazioni, disillusioni mescolate a rabbie e rancori. La nostra convivenza è grama per le troppe situazioni di precarietà, di esclusione, di concreta e ingiusta povertà, sofferta in particolare dalle fasce più deboli della popolazione. I desideri di mutamento della situazione sembrano non trovare vie di realizzazione, accrescendo così il senso d’impotenza di molti cittadini di fronte ai mali denunciati: illegalità, corruzione, inconcludenza dei politici… È sempre più faticoso trovare convergenze e visioni condivise dell’avvenire sociale, mentre viene progressivamente a mancare la fiducia negli altri e la speranza nell’edificazione di una convivenza bella e buona. La crisi della politica è innanzitutto una crisi di fiducia verso quelli che hanno l’incarico di vigilare sul bene comune e sull’interesse generale: ambizioni personali smisurate, manovre, calcoli elettorali, promesse non mantenute, lontananza dalla vita reale dei cittadini, carenza di visioni a lungo termine, comportamenti demagogici e populisti sono diventati insopportabili.
Il comportamento di alcuni, troppi, getta discredito sull’insieme dei politici e impedisce di vedere il comportamento virtuoso di chi vive la politica come servizio. Ma la società non può fare a meno della politica, la quale è l’affermazione di un “noi, insieme” che trascende i particolarismi, gli interessi individuali e definisce le condizioni di una vita condivisa.
Per questo si tratta di ripensare il “contratto sociale” e di definirlo in termini nuovi, che affermino il primato del bene comune e sappiano ispirare il comportamento nel vivere insieme e nell’abitare il pianeta.
Contratto sociale nel quale siano inscritte non solo libertà e uguaglianza, ma anche fraternità, senza la quale le altre necessarie urgenze sociali restano fragili.
Si tratta di ripensare una nuova resistenza a questa dominante che attraversa l’Europa e che si nutre di affermazione dell’io individuale e di esclusione dell’altro, di chi è debole, e dell’erigere a presidio identità contro gli altri. In questo senso, l’indignazione delle coscienze contro il contagio dell’odio, che si manifesta in questi giorni nelle piazze del nostro Paese dove i giovani sono stipati come sardine, se avrà la capacità di essere voce non solo “contro” ma anche “per un orizzonte sociale nuovo”, e dunque saprà approdare alla “politica”, può suscitare speranza.
Questo lavoro di ricostituzione e riappropriazione dell’orizzonte del bene comune sarà lungo, richiederà fatica e resistenza; ma le nuove generazioni possono esserne protagoniste efficaci.
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