Che fine farà il popolo senza terra?
Che fine farà il popolo senza terra?
di Gustavo Zagrebelsky
in “la Repubblica” del 19 novembre 2019
Da quando la terra tutt’intera è stata suddivisa in porzioni su ciascuna delle quali si esercita il dominio esclusivo da parte di popolazioni residenti, da quando cioè lo spazio terrestre si considera completo, privo di vuoti, le uscite sono ingressi in territori altrui. Si potrebbe dire: i popoli, nello spazio della sfera terrestre, sono vasi comunicanti.
Non sempre, però, chi esce trova dove entrare. Faide tribali, guerre, carestie, persecuzioni politiche religiose razziali, “pulizie etniche” costringono interi popoli a cercare salvazione scappando dalla propria terra senza che se ne offra un’altra. Si è, per così dire, sospesi sul nulla e tu stesso sei ridotto a “nuda vita” che può essere ignorata, offesa, soppressa. La violenza è estrema non quando ti negano diritti, ma quando ti si dice: per te e per il tuo popolo non c’è posto al mondo. Tutti hanno una patria, ma a te è negata e, quando ti fosse negata da tutti, sarebbe come se l’intera umanità ti dichiarasse guerra. Sei in trappola. Si può incominciare da piccoli soprusi ma, passo dopo passo, si arriva alla violenza finale. Il diritto di abitare una terra è precondizione di ogni altro diritto.
Siamo in Europa, tra gli anni trenta e quaranta del secolo scorso. A milioni di persone fu negata la terra. Non c’era un altrove perché nell’organizzazione politica del mondo non c’erano spazi vuoti e si viveva in un “unico mondo”, per di più “saturo”. Perciò, la cacciata preconizzava l’espulsione dall’umanità. Per tentare di ovviare alla terribile condizione di milioni di persone destinate a essere annientate, nel 1938 a Evian-les-bains fu convocata una conferenza alla quale parteciparono 32 nazioni. Si mirava a un accordo della comunità internazionale per ripartire i profughi in base alle capacità ricettive dei diversi paesi e consentire così un poco di mobilità pur in un mondo suddiviso tra Stati sovrani. Fu un quasi totale insuccesso (Hitler poté sfruttarlo così: se le democrazie non sono disposte a dare spazio agli Ebrei, perché io?). Analogie. Una nave, il St Louis, al comando del capitano Gustav Schröder, nel 1939 cercò di salvare un migliaio di perseguitati dai nazisti. Il “viaggio dei dannati” partì da Amburgo, la nave si diresse a Cuba dove fu respinta, cercò inutilmente di riparare in Florida e poi in Canada, finché questo moderno vascello fantasma fu costretto a rientrare in Europa. Nella disperazione il capitano progettò un volontario naufragio sulle coste dell’Inghilterra, finché riuscì ad approdare ad Anversa, dove peraltro l’odissea dei passeggeri, a terra, non era finita. Storie di cinismo che si ripetono oggi come allora con gli stessi argomenti: costi dell’accoglienza, ordine pubblico, concorrenza con i lavoratori indigeni, “prima i connazionali”, eccetera.
Siamo ancora allo stesso punto? Abbiamo perso memoria e non abbiamo imparato nulla? In verità, si incrociano due principi, ciascuno con i propri sostenitori che, nei momenti critici, si scontrano senza mediazioni: sovranismo politico e universalismo umanitario. Del primo, è condizione essenziale la difesa dei “sacri confini della patria” (espressione ripescata dal lessico dannunziano); della seconda, la protezione dei diritti degli esseri umani come tali, diritti che non conoscono confini. Il nostro tempo è in bilico, indeciso tra l’uno e l’altro principio. La folla che insulta i migranti che sbarcano dalle navi che li hanno salvati e quella che li applaude sono rappresentative di due visioni del mondo.
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (un testo che non ha forza di legge, ma pur tuttavia è un passo nella formazione della coscienza del nostro tempo) stabilisce che «ogni individuo ha il diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornarvi ». «Ogni individuo». Per l’anzidetto principio dei vasi comunicanti, a questo diritto individuale dovrebbe corrispondere un dovere generale di accoglienza. Così non è; potrebbe forse essere, il giorno utopico in cui cadessero le barriere tra gli Stati sovrani. Se un diritto all’accoglienza esiste, è perché disposto dal diritto degli Stati. La nostra Costituzione lo definisce così: «lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica ». Ma aggiunge, significativamente: «secondo le condizioni stabilite dalla legge». Questa riserva di sovranità si trova in tutte le forme di protezione
dei rifugiati previste sia dalle convenzioni internazionali che dagli ordinamenti statali.
Finché sarà così, le tragedie dei migranti resteranno questioni politiche e la politica cinica e impotente può limitarsi a lasciar crescere i non-luoghi in cui la pressione migratoria si scarica. Che cosa significa l’impotenza della politica nel tempo della saturazione degli spazi potrebbero dirlo le centinaia di migliaia, anzi milioni, di persone che, mosse dalla necessità di sopravvivenza ed espulse dai loro Paesi, si accalcano in condizioni sub-umane nei campi profughi, sostenute, dove possono, da organizzazioni umanitarie. Quasi una nazione di poveri, informe, respinta, sospesa in spazi come stazioni ferroviarie, giardini pubblici, centri di transito, baracche e tendopoli. I campi di raccolta dei profughi sono elementi ormai strutturali dell’”ordine mondiale”. Nascono provvisori, ma si consolidano e diventano elementi necessari di equilibrio in un mondo tragicamente sbilanciato. Non sappiamo con precisione quanti siano né quante persone contengano. Approssimativamente, si calcola che più di settanta milioni di esseri umani vivano lì ammassati, con bambini che non hanno mai visto altro che baracche e fango, sole cocente o freddo intollerabile, senza servizi, con scuole assenti o improvvisate, condizioni igieniche che, a vederle, lo sguardo gira altrove. La delinquenza, la violenza, lo sfruttamento e la prostituzione vi abitano. I diritti umani sono di fatto sospesi. La differenza tra “campi” e “Lager” svanisce, come nel caso della Libia. Il massimo che i governi sono in condizione di fare sono operazioni di “smaltimento” (come per le scorie, scorie umane). Sono diffusi in tutto il mondo, particolarmente nei paesi più poveri o nei paesi confinanti: Palestina, Giordania, Bangladesh, Turchia, Grecia, Yemen, Uganda, Sudan, Iran, Libano, Etiopia, Venezuela, Kenya, Qatar. Aggiungiamo le immense periferie degradate delle mostruose e ingovernabili megalopoli: baraccopoli, bidonville, favelas, anch’essi luoghi di smaltimento del surplus umano. Si calcola che almeno un miliardo di persone viva in quelle condizioni. Ci avviciniamo anche qui alla saturazione?
Quest’immensa umanità si trova in condizioni simili a quella degli ebrei perseguitati nei paesi dell’Europa dove si erano insediati da secoli, quando cercavano la salvezza in qualche nuovo porto d’approdo, incontrando ogni genere di difficoltà. Scappare, ma dove? Sradicati senza possibilità di piantare nuove radici, sono numeri, anzi numeri incerti perché non esistono censimenti. L’organizzazione del mondo attuale sembra avere bisogno di una tale massa di ostracizzati.
In sintesi: abbandono alla loro sorte, all’arbitrio degli Stati, alla reclusione in non-luoghi. Solo di questo siamo capaci? Quando vedremo come sarà andata a finire, che cosa diremo di noi? La civiltà che orgogliosamente chiamiamo “Occidente” sarà in pace con sé stessa?
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